Una nuova, meravigliosa cinefila liaison “spanglish”, il nuovo più parlato idioma in tutto il mondo, pare… – è nata per dar vita ad un piccolo capolavoro.
Si tratta del nuovo film di Pedro Almodóvar, un corto di 30’ girato a luglio scorso e montato a tempo di record subito dopo la fine del Covid-confinamento, è stato presentato a Venezia 77, Fuori Concorso: s’intitola The Human Voice (La Voix humaine), è tratto da Jean Cocteau ed è interpretato da Tilda Swinton, attrice – feticcio del geniale e mai compianto abbastanza Derek Jarman (più recentemente anche di Luca Guadagnino, presente a Venezia col suo biopic su Salvatore Ferragamo) – di cui ha parlato ampiamente al Lido in conferenza-stampa di presentazione del meraviglioso ‘prodotto’ realizzato dal suo incontro con Almodóvar.
La pellicola si era aggiunta quasi di sorpresa ed a metà agosto scorso alla serie di film della sua sezione e Almodóvar si era così espresso:
“Sono entusiasta di tornare a Venezia in questo anno speciale, con il Covid 19 come involontario ospite. Tutto sarà differente, e non vedo l’ora di scoprirlo di persona. E’ un onore affiancare Tilda in un anno in cui riceverà un premio meritatissimo ( Il leone d’oro alla carriera, lo stesso da lui avuto lo scorso anno, n.d.r.). Per la verità, The Human Voice è un festival di Tilda, una rassegna dei suoi infiniti e assortiti registri come attrice”.
Così due leoni d’oro alla carriera si sono incontrati, ibridati ed han dato vita a dell’eccellente cinema.
The human voice, s’intitola, il loro piccolo e breve capolavoro – un ‘semplice’ monologo, in fondo – molto ‘manipolato’ da entrambi, sia il regista che l’interprete.
Tratto da un sempre e comunque immenso Jean Cocteau, l’opera, pur ripresa da registi ed attrici tra i maggiori del cine-empireo, riesce a stupire ancora, perché dopo trent’anni di gestazione e ripensamenti, ma anche di tante citazioni in quello che più che cinema è (sempre) mèta-cinema, quello di Almodóvar, per l’appunto, un omaggio continuo al cinema di ogni paese ed anche al teatro, in realtà, è comunque un lavoro ‘nuovo’ digerito, come dice lui, metabolizzato e poi ricreato, secondo canoni moderni ed inusuali, seppur sempre di marca almodovariana e, inutile dirlo, anche swintoniana, perché spazio per lei ce ne è stato, eccome, ad iniziare dall’uso della sua lingua, l’inglese, una ‘prima volta’ per il regista spagnolo.
Lei desiderava da tantissimo di poter lavorare con Almodóvar che ‘amo’ – ha detto – da quando ho visto Donne sull’orlo di una crisi di nervi, del 1988.
E guarda caso, proprio in quella pellicola sta una delle citazioni-omaggio a Cocteau che il regista gli ha fatto negli anni.
La prima era stata ne La legge del desiderio, 1987, con la sua (da sempre, insieme con Penelope Cruz) attrice-feticcio, Carmen Maura.
E grande è stata la prova, ma, soprattutto, il confronto, con le precedenti interpretazioni: scritta nel 1930, andò in scena per la prima volta al Théâtre de la Comédie-Française nel febbraio dello stesso anno, protagonista Berthe Bovy.
Fu poi la volta di Simone Signoret, di Gaby Morlay, di Judith Anderson (l’ineffabile signora Danvers in Rebecca di Hitchcock, del 1940), Susannah York, Liv Ullman, anche se il pensiero principe va ad Anna Magnani, forse la più ‘corrispondente’ alle aspettative dell’esigentissimo Cocteau e, forse, non casuale, il realismo, in particolare, sempre grande, visto la storia che tra lei e Rossellini stava finendo per l’arrivo di Ingrid Bergman.
E, by the way, una curiosità: a Mentone, in Francia, collocato in un’avveniristica e poetica, ad un tempo, splendida costruzione ideata dall’architetto-editore Rudy Ricciotti, c’è il Musée Cocteau, pieno di opere d’arte moderna.
In continuazione, su di una parete delle grandi sale espositive, è proiettato il film in eccellente b/n con la Magnani che recita in francese, una vera ‘chicca’ da recuperare…appena possibile.
La versione di Rossellini de La voce umana è la prima versione cinematografica ed è un episodio del film L’Amore. L’interpretazione della Magnani – seguita personalmente in Parigi dallo stesso Cocteau –venne oltre più considerata la più fedele tra quelle, alcune già citate, che la seguiranno.
Una di esse, giusto (?) contrappunto, fu proprio quella della Bergman, protagonista della versione televisiva del 1966 di Ted Kotcheff, poi compagna di Rossellini dal 1949 al 1954 e madre di 3 dei suoi figli.
A teatro – in fondo il monologo scritto per Edith Piaf può bene esser considerato una pièce – ci fu poi anche una sempre grandissima Anna Proclemer, ma non esattamente ‘performing correct’, per lo stesso Cocteau.
Ma per tornare alla versione di Almodóvar e per maggior comprensione degli intenti, piace riportare alcune altre sue affermazioni in conferenza-stampa:
“Due esseri viventi affrontano l’abbandono, una donna ed un cane…Nei tre giorni di attesa di una telefonata da parte dell’amante/amato, la donna esce in strada solo una volta, per acquistare un’ascia ed una latta di benzina, e passa da uno stato d’animo all’altro: dall’impotenza alla disperazione ed alla perdita di controllo. Si trucca, indossa vestiti eleganti come se dovesse andare a una festa, medita di buttarsi dal balcone, finché il suo ex amante non le telefona…E i colori, in tutta la pellicola son particolarmente vivi, saturi, addirittura sgargianti. La Swinton è vestita di un rosso sangue quanto mai simbolico, il colore della ‘camera di sangue’ a cui pensava Cocteau (…). L’unica voce però è la sua: quella dell’uomo non si sente mai.
All’inizio la donna finge di essere calma e di comportarsi in modo normale, ma è sempre sul punto di esplodere contro l’ipocrisia e la meschinità dell’altro. The Human Voice è una lezione morale sul desiderio, anche se la protagonista si trova proprio sull’orlo dell’abisso. Il rischio è una parte fondamentale dell’avventura di vivere e di amare. Il dolore è molto presente nel monologo; come ho detto all’inizio, il film descrive lo smarrimento e l’angoscia di due esseri viventi tormentati per la mancanza del loro padrone”.
Anche qui, quasi paradossalmente – ma non troppo – Almodóvar, sempre cinephile cosmico prima ancora che grande cineasta, cita film di altri: chiaro è il riferimento a Sei donne per l’assassino di Lamberto Bava, un capolavoro ‘pop’ del Cinema Italiano del 1964, ma non manca il più ‘recente’ Quentin Tarantino pure lui ‘ricordato’ con il suo Kill Bill (2003), nella scena in cui la Swinton distrugge con l’accetta un vestito dell’amante, un vero e proprio ‘delitto’, fuor di metafora, il tutto un’ulteriore prova provata della cinefilia a tutto tondo del regista spagnolo.
Almodovar ha poi concluso dicendo che ad ottobre inizierà la pre-produzione del suo prossimo film.
“Nel frattempo ho scritto due sceneggiature che mi piacerebbe fare con lo stesso senso di libertà. Hanno un’aria teatrale, uno è un western particolare, Strana forma di vita, s’intitola, ed è come un fado, una specie di distopia”.
Maria Cristina Nascosi Sandri