Il genio di Edward Hopper è al centro di una grande antologica allestita fino al 24 luglio a Bologna, negli spazi di Palazzo Fava. Esposti circa 60 capolavori provenienti dal Whitney Museum di New York, che custodisce un’importante parte dell’eredità dell’artista americano, tra i più famosi e celebrati del Novecento.
Dipingere – scrisse – è un processo di creazione mentale,
un’istantanea fotografica che ha bisogno di isolamento,
di solitudine, un luogo come Gloucester, nel Massachusetts…
In questa maniera si esprimeva Edward HOPPER – as a grown-up artist, da artista maturo, quando la sua arte era ormai riconosciuta ed apprezzata e non solo nel suo adorato paese d’origine, l’America.
E la mostra, nel suo ricco completo e ‘complice’ iter, è davvero organizzata a dimostrazione di questo suo assioma.
È curata da Barbara Haskell – curatrice di dipinti e sculture del Whitney Museum of American Art – in collaborazione con Luca Beatrice. Il Whitney Museum ha ospitato varie mostre dell’artista, dalla prima nel 1920 al Whitney Studio Club a quelle memorabili del 1960 e poi del 1964 e del 1980.
È prodotta ed organizzata da Arthemisia Group, in collaborazione con la Fondazione Carisbo, Genus Bononiae, Musei nella Città ed il Comune di Bologna: partner essenziale il già citato Whitney Museum of American Art di New York che dal 1968, grazie al lascito della vedova Josephine, ospita una parte importante dell’eredità dell’artista, oltre 3.000 opere tra dipinti, disegni e incisioni.
Nato nel 1882, Edward Hopper è da tempo riconosciuto come il più popolare e noto artista americano del XX secolo.
La sua arte, la sua cifra stilistica ed il suo ‘primo’ cromatismo nascono da una grande passione e studio, coltivati, come si addice ad ogni intellettuale degli ultimi tre secoli, e perfezionati con il famoso Grand Tour in Europa, quello che rese un cittadino del Nuovo Mondo come lui, un artista vero, a tutti gli effetti.
E la massima (e la più classica ) delle consacrazioni la ebbe proprio nella Ville Lumière, a Parigi – la stessa cosa era successa al ‘nostro’ Marinetti ed al Futurismo, del resto – dove conobbe i grandi dell’Impressionismo, s’innamorò della loro luce, del loro plein air e, primo fra tutti, di Degas, una ‘passione’ che sempre lo accompagnerà, condivisa appieno con l’amore della sua vita, la moglie Josephine, a lui sopravvissuta un solo anno, essendo scomparsa nel 1968.
È all’inizio che bisogna andare lenti, quando si comincia,
per tracciare una composizione impeccabile
in modo da non dover aggiungere o sottrarre dopo.
L’eccellente percorso espositivo dedicato ad Edward Hopper riesce ad offrire un esauriente arco temporale della sua produzione dal tour europeo al definitivo ritorno in patria ed alla vita a New York, sua grande ispiratrice, anche se non la sola.
Varie le tecniche sempre sperimentate con successo, dall’acquerello, all’acquaforte, al ‘semplice’ disegno con crayon, gessetto o lapis che fosse, oltre a varie tecniche miste, il tutto ‘risolto’ attraverso più di 60 opere tra cui celebri capolavori come South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909) ed interessantissimi studi (come quello per Girlie Show, del 1941).
Da sottolineare la presenza di un pezzo eccezionale, il grande Soir Bleu (è di circa due metri, quasi un telero), realizzato da Hopper nel 1914 a Parigi e poco ‘visto’, considerato quadro-simbolo della solitudine umana, anche grazie al suo cromatismo notevolmente alienante e quasi premonitore delle opere dell’Espressionismo che allora andava nascendo in Europa, specie quello tedesco.
Amante del cinema, del teatro, della letteratura – passioni condivise con la moglie Josephine, sua musa per un suo dipinto anche a sessant’anni! – accolse e trasmise questi amori alla società del suo tempo e del suo paese.
I suoi interni – prospettiva di spalle ai personaggi che guardano oltre la finestra aperta – o i suoi esterni – i suoi paesaggi o, semplicemente, i loro dettagli, colti nel particulare – o, ancora, le facciate dei palazzi, a creare un limen tra gli interni e gli esterni, han dato ‘vita’ – lui vero e visivo storyteller – a racconti letterari e poi cinematografici come il Falcone Maltese di Dashiell Hammett, divenuto poi l’omonimo film di John Huston.
E questa pittura molto multimediale gli valse, nel tempo, la conoscenza e l’interesse del Whitney Museum, con il quale Hopper allacciò uno stretto rapporto sviluppatosi attraverso molte esposizioni fino al lascito già citato che ha reso possibile, oggi, il grande evento di Palazzo Fava, splendido ed unico ‘contenitore’ di mèta-arte, arte nell’arte.
Maria Cristina Nascosi Sandri