« Compito per domani » – Romanzo di Nicolae Dabija

Dal 25 agosto al 1° settembre, si terrà a Chicinau, in Repubblica Moldova, il Festival Mondiale di Poesia Mihai Eminescu al quale, come ogni anno partecipa Cinzia Demi, responsabile della rubrica Altritaliani “Missione poesia”. Il Festival di quest’anno è dedicato alla figura di Nicolae Dabija, intellettuale di grande valore. Ce ne parla la stessa Cinzia Demi.

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Oggi, per Missione Poesia, vi presentiamo un’opera in prosa, ma con dei passaggi poetici molto intensi. Si tratta del romanzo « Compito per domani » (Edizione Graphe.it, 2018), dello scrittore Nicolae Dabija, tra le cui pagine ci viene consentito di rivivere le sensazioni dei condannati in Siberia, da parte del regime staliniano. Impotenza, senso di soffocamento, atroci sofferenze quotidiane, annientamento dell’essere umano, in primis della mente. Solo l’amore potrà aiutare per la sopravvivenza, per la resistenza ad una vita da abbracciare, sempre e comunque. Nicolae Dabija poeta, scrittore e giornalista, è nato il 15 luglio 1948 a Codreni, nella Repubblica di Moldavia. È stato membro onorario dell’Accademia Romena e corrispondente dell’Accademia Moldava delle Scienze. Il suo primo volume di poesie Il terzo occhio (1975) assunse un valore simbolico per la generazione dei poeti moldavi di quegli anni, inducendo la critica letteraria a coniare l’espressione Generazione del Terzo Occhio per definire il movimento letterario che ne scaturì. Nel 2011 è uscito in Moldavia il suo romanzo Tema pentru acasa, tradotto in italiano da Olga Irimciuc, con il titolo di Compito per domani, e pubblicato nel 2018 da Graphe.it edizioni. Secondo alcuni sondaggi il romanzo, tradotto in diverse lingue, è il libro più letto negli ultimi cinquanta anni in Moldavia. L’autore è scomparso il 12 marzo 2021 per complicazioni dovute al Covid-19. Quest’anno il Festival Internazionale di Poesia Mihai Eminescu, organizzato dall’Accademia Mihai Eminescu di Craiova, presieduta dal Prof. Ion Deaconescu, si terrà in Moldavia (dal 26 agosto al 1° settembre 2025) e sarà dedicato proprio alla sua figura.

Ho conosciuto Nicolae Dabija in un paio di occasioni, durante incontri a Festival internazionali di letteratura. Lo ricordo come una persona molto gentile e rispettosa degli altri, sorridente e generosa, oltre che coltissima. La sua scomparsa mi ha molto addolorato in quanto ritengo che si sia persa, con lui, una parte della migliore arte poetica che possiamo mai aver avuto. Ho letto diversi testi suoi in traduzione e oggi vorrei parlarvi, tra le pagine di questa rubrica, del suo romanzo Compito per domani che non è solo una testimonianza di un periodo storico dell’Europa dell’Est, ma anche il racconto di una storia d’amore, dalle tinte fiabesche e dai toni poetici che, negli orrori del contesto narrato, emerge come una speranza, una possibilità di vita migliore che l’uomo e la donna sono in grado di realizzare quando il sentimento sorregge le sorti della vita stessa.

Nicolae Dabija

Spesso in letteratura accade che l’autore trovi un escamotage per spiegare l’urgenza, la necessità, il desiderio di scrivere una storia. Che si tratti del ritrovamento di un manoscritto antico, di una corrispondenza epistolare tra due amanti, di un racconto che gli è stato tramandato da amici o conoscenti, di un’esperienza vissuta che lo ha particolarmente segnato o, come nel caso dell’opera che ci apprestiamo a commentare, di una visione avvenuta in punto di una morte, poi scampata, in seguito alle conseguenze di un grave incidente: tutto aiuta a creare il mistero epifanico della nascita della narrazione. Nicolae Dabija usa l’ultimo espediente nominato – non sappiamo se reale o immaginario, ma qui non interessa scoprirlo – per dirci come persone, a lui sconosciute, e proprio al capezzale del suo letto di convalescente, gli abbiano raccontato, attraverso immagini (e non con le parole), i fatti che si è sentito in dovere di scrivere, come il ricordo della vita di qualcun altro che andava fatto conoscere, come fosse una promessa da compiere.
La storia si snoda, tra realtà e immaginario, attraverso i luoghi della Bessarabia, ex territorio romeno, ora moldavo, a partire dagli anni ’40 del novecento, quando a Poiana, un piccolo villaggio di quella terra, i soldati di Stalin fanno irruzione e arrestano il giovane docente Mihai Ulmu, spedendolo in Siberia, insieme a migliaia di altri condannati senza motivo, e i luoghi della Siberia stessa, negli spazi orrorifici dei campi di concentramento di Zyrjanka, nonché nei boschi e nelle montagne di quella regione. La narrazione della vita dei condannati si intreccia con la storia d’amore tra Maria, alunna di Mihai, segretamente innamorata di lui e l’insegnate, quando questa si mette sulle sue tracce, decisa a ritrovarlo, liberarlo e confessargli il suo innamoramento. Soltanto dopo tredici anni Mihai, testimone di tante brutture, farà ritorno a Poiana portando con sé un nuovo motivo di speranza, la speranza di una vita che continua, malgrado l’intromissione delle forze del male.

Alcuni elementi, nello specifico, ritengo di dover sottolineare, dopo la lettura di questo romanzo. Il primo riguarda la constatazione della grettezza mentale e della cattiveria a cui può arrivare l’uomo che, senza possibilità o desiderio di discernimento, si piega al dettato di ideologie, completamente soggiogato da criteri indegni di essere definiti umani. Molti libri sono stati scritti sugli orrori dei regimi dittatoriali comunisti, sulle nefandezze compiute da chi ha preso il potere dettando regole incomprensibili, da non discutere, ma solo da applicare alla lettera; sulla cieca obbedienza degli esecutori che, spesso, le hanno applicate con un rigore estremo accrescendo, per quanto possibile, i lati più negativi, i risvolti più distruttivi nei confronti dei loro simili; sui milioni di morti decretati o causati dalla volontà di infierire, di distruggere, di debellare ogni tentativo, o iniziativa ritenuta tale, di non conformità, di ribellione, di inadeguatezza alle nuove disposizioni; sulle confessioni, rilasciate dopo aver inflitto agli imputati, le più atroci torture, di reati inesistenti e mai compiuti; sulle condanne decise nei confronti dei così detti “nemici del popolo”, ai quali “bonariamente” veniva risparmiata la vita, in cambio di lunghissimi anni di lavori forzati, in situazioni inumane, dalle quali, se fossero riusciti a sopravvivere, sarebbero tornati larve prive di ogni forza fisica e mentale, “rieducati” a questa nuova loro esistenza.
Il ribrezzo per le forme di intelligenza superiori, per chi avesse, anche solo un minimo, di pensiero indipendente, un desiderio di velleità artistica, una forma qualsiasi di mancata volontà di omologazione verso il livello più basso dell’essere, il non conformarsi ciecamente ai dettati del regime, il disobbedire anche solo per richieste la cui accettazione avrebbe comportato la perdita della propria casa o della propria moglie (tutto: immobili e persone doveva appartenere allo stato!), sono solo alcuni degli aspetti che lasciano sconcertati, e assolutamente impossibilitati a comprendere quella realtà, neanche così lontana, alla lettura di quest’opera. Eppure, nonostante i tentativi di minimizzare quei fatti, da parte di alcuni, essi sono accaduti e bruciano sulla carne di chi li ha subiti, dei loro figli o nipoti, o anche solo di chi, appartenendo a quei popoli, li ha sentiti raccontare.

La seconda cosa che vorrei evidenziare riguarda la capacità poetica di raccontare l’amore, da parte di Dabija. Qualcuno ha osservato che la storia tra Mihai e Maria è un po’ troppo romanzata, riportata in un’ambientazione semplicistica e fiabesca, in poche parole: inverosimile per il contesto in cui si sviluppa. A mio avviso, questa modalità di raccontare l’amore, e di raccontarlo proprio in quel contesto così disumano e drammatico, assurge invece ad un livello superiore della modalità di scrivere, di raccontare, di esprimersi, da parte dello scrittore: non c’era un’altra forma per far emergere la superiorità del sentimento, la sua necessità, la sua forza se non quella di presentarcelo così, forse davvero come se vissuto in una fiaba – ma le fiabe si sa, sanno essere anche dure e crude, sanno raccontare i destini umani, sanno nascondere e rivelare le problematiche sociali, sanno condurre gli eroi e le eroine di fronte a quel liminare tra la vita e la morte, che non tutti sanno superare, dal quale non tutti riescono a ritornare -. E Anna e Mihai si trovano, costantemente, tra la vita e la morte. I pochi momenti loro concessi, le fughe, i pericoli, le reclusioni, gli insulti, la fame… sono in costante parallelismo con il loro bisogno di amarsi, di raccontarsi i propri desideri, di sognare una vita insieme, lontano dai gulag dove i carcerieri, per “volere e rispetto del popolo”, vorrebbero distruggerli, trasformare le loro menti e i loro corpi in reietti, capaci solo di obbedire, senza più un pensiero proprio. L’amore emerge dunque nel romanzo, e sono le pagine più belle, prima rubato alla prigionia e consumato nella taiga, dopo aver scalato montagne, aver attraversato boschi fitti di insidie, affrontato cacciatori di taglie, schivato assalti di giganteschi orsi, sfidato ogni tipo di intemperie; poi immaginato tra le mura delle baracche dei gulag, sognato nelle fatiche del lavoro forzato, rievocato ad occhi aperti nelle notti insonni, rivissuto in una nuova fuga e nella nascita di un figlio; e ancora distillato tra le poche righe di corrispondenza concessa tra il carcere femminile e quello maschile, tra le coppie create per la riproduzione dei “figli dello stato”, dei “bambini di Stalin”. Osteggiato ma mai finito, lontano ma solo fisicamente, vulnerabile ma solo per la finitezza dei corpi, l’amore descritto da Dabija è destinato all’eternità, all’approvazione divina, al riscatto dei condannati tutti che non possono che applaudire a tanta devozione, al fremito della natura che li accoglie senza timore, senza giudizio.

Villaggio di Poiana, in Romania, nella regione storica della Transilvania.

Molti sarebbero gli aspetti su cui soffermarsi per un’analisi completa di questo lavoro ma, per mancanza di spazio, mi limiterò a proporvi un terzo elemento, una curiosità, e certo una voluta imprecisione storica e temporale, che tuttavia non disturba affatto l’andamento del romanzo ma, al contrario, gli attribuisce un ulteriore e notevole spessore. Mi riferisco all’incontro di Mihai Ulmu con il grande poeta e pensatore russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam, che l’autore descrive come fosse avvenuto nel 1940 (anno di arresto di Mihai) e nello stesso campo di Zyrjanka. In realtà Mandel’štam morì nel 1938 nel gulag di Vtoraja recka, un campo di transito presso Vladivostok, ufficialmente a causa di una non meglio specificata malattia. L’incontro e i dialoghi avvenuti tra i due, comunque, pur risultando solo immaginati, ci consentono di approfondire anche la conoscenza del grande autore russo, e danno una valenza culturale molto elevata al protagonista, capace di confrontarsi, trarre suggerimenti, ascoltare e incamerare il pensiero di uno dei più grandi protagonisti della cultura sovietica che, per la sua dissidenza dal regime, venne condannato più volte e finì la sua breve esistenza, trattato alla stregua di un comune delinquente, come del resto venivano trattati tutti i detenuti politici.

Concludo dicendo che, Nicolae Dabija, con il suo romanzo Compito per domani, ci ha offerto la possibilità di sentire a pelle le stesse sensazioni dei condannati della Siberia, condividendo con loro quel senso di soffocamento e impotenza, quella sofferenza atroce e quotidiana che avrebbe dovuto annientarli ma, al tempo stesso, ci ha introdotto anche in una dimensione dove l’amore sembra capace di sopravvivere a qualsiasi forma di violenza, resistendo anche dopo la morte, nel ricordo di chi resta, contribuendo a farci abbracciare la vita che, come conclude lo scrittore è: questo mistero che deve perdurare, deve vincere, deve proiettarsi nell’eternità, nei cieli e sulla Terra.

Cinzia Demi, Bologna, 15 agosto 2025


 

Alcuni estratti da « Compito per domani » – Nicolae Dabija

Benvenuti a Zyrjanka, criminali, ladruncoli e accademici! Mi rivolgo a quelli che ancora non lo sanno: la nostra è un’istituzione sia di detenzione che di rieducazione! Lo Stato vuole cittadini riabilitati. Come aveva proposto il grande Lenin, il più umano degli uomini, la classe operaria pensa che borghesi, intellettuali e tutti gli altri tipi di fuorilegge siano classi sociali che spariranno naturalmente, senza bisogni di conflitti. Vi è stata concessa una possibilità. Perché non dovreste sfruttarla, farabutti? Non esiste un’altra soluzione oltre a quella di collaborare con noi, che dobbiamo educarvi. Dobbiamo costruire insieme una società che sarà ugualmente dei muratori e dei murati. E i murati sarete proprio voi, mascalzoni. Questi i toni del direttore del “campo di lavoro” che poi specificava meglio: “Le nostre carceri sono le più umane del mondo! Certo, non tutte le celle sono provviste di finestre, acqua calda e una doccia, ma ciò è soltanto perché svolgono una funzione rieducativa. Queste sono le vere scuole del futuro, ma dovete capire una cosa: chi rimane bocciato, viene liquidato. Quindi prendete in mano il piccone, la pala e la zappa! Diventeranno le vostre bacchette, i vostri pennelli e le vostre penne, pigri sfruttatori della classe operaia. A ognuno il proprio mestiere: voi manovrate le carriole e i picconi, noi, con il dito sul grilletto!”.


Alcuni ermellini passarono vicino a loro, senza paura. […] Dagli alberi, li guardavano incuriositi, due galli cedroni. Le pernici zampettavano nell’aria fresca. Le martore giocavano davanti a loro. Le volpi argentate si nascondevano sotto le piante cadute. […] Durante quella sosta videro giù nella profonda valle, un cervo con corna enormi; pareva portasse sulla fonte un albero senza foglie. Cominciò a bramire, riempiendo di suono tutta la taiga. Subito, rispose un altro cervo. Poi, dal fitto del bosco, uscì allo scoperto anche lui […] era accompagnato da una femmina, snella e graziosa. (lottarono per lei). Dopo la dura lotta, nella stessa valle, apparve un orso enorme. Giocò per un po’ con l’acqua del fiume, forse alla ricerca di pesci, poi si ritirò anche lui nel buio della selva. “Mi sembra di vivere in una fiaba” disse Maria. […] Corsero tenendosi per mano. Maria correva a passo di danza, come se il vento la spingesse sui talloni. La stanchezza che Mihai aveva accumulato in tutti quei giorni sparì miracolosamente. Attraversava, accanto alla donna della sua vita, boschetti di salici, saltava sui sassi del fiume, saliva sulle cime più alte. […] Maria gli abbracciò il collo, lo guardò negli occhi profondi, gli sorrise, illuminandosi tutta, e ripeté: “Sono fortunata, sono molto fortunata!”.


Così Mihai conobbe Mandel’štam, Osip Ėmil’evič Mandel’štam, professore, poeta, filosofo. Al poeta faceva piacere discutere con Ulmu. Parlavano la lingua antica dei patrizi per ore intere, ma, su suggerimento di Mandel’štam, lo facevano a voce bassa. “Perché?” chiese Mihai. “Potrebbero facilmente accusarci di essere spie dell’Impero Romano, nonostante sia scomparso da millecinquecento anni”. […] (sul campo di lavoro) spianavano il terreno, togliendo le piante, le pietre con le asce, con le seghe, con le carriole, le pale e le zappe. […] “Che cosa ci sarà qui?” domandò Ulmu incuriosito. “Si prepara il posto per il Paradiso.” […] “Io non scrivo più. Fino a trent’anni ho detto tutto quello che avevo da dire. Ora mi sto abituando a tacere. In più, giovanotto, che piacere c’è a scrivere, se il senso della stessa frase cambia ogni giorno? Ho avuto la fortuna di essere scrittore. Ma la più grande sfortuna è stato il successo fulminante delle mie opere. Non ero un oppositore del nuovo regime, ma neanche un suo sostenitore. […] “Non mi è stato mai detto il motivo del mio arresto: da noi non si danno simili spiegazioni.” (qualcuno aveva provato a difendermi per le mie opere, uniche in Russia, dicendo: è un intellettuale) […] Il capo dello Stato aveva replicato:“Non ci servono degli intellettuali nell’URSS. È una classe di parassiti: consumano i beni prodotti dagli altri”

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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