Dopo la lettera P come Piazza Vittorio Veneto e la F come Fiume Po, come si fa a parlare di Torino senza parlare di Mirafiori, si è chiesto il nostro Autore nella sua terza lettera.
È nella pelle, sotto pelle, sulla pelle di tutti i torinesi – nessuno escluso – dal 1939 a oggi, anche di quelli che non ne sono consapevoli.
È silenziosamente e naturalmente entrata nel sangue di tutti.
Per chi non lo sapesse, Mirafiori è la fabbrica che rappresenta Fiat nel secondo Novecento.
Entrata in funzione nel 1939, divenne negli anni dello sviluppo economico il più importante stabilimento industriale italiano e una delle più grandi fabbriche di automobili d’Europa e del mondo.

Certo fa tristezza oggi vedere il cancello 5, ossia l’entrata principale di quello che fu il gigante temuto e venerato della produzione italiana di automobili, chiuso, con l’erba che cresce sulla scalinata e intorno alla Topolino di marmo, scultura simbolo del luogo.

Ma facciamo un passo indietro e proviamo a raccontare questo luogo che, come un prisma, riflette tanti colori diversi a seconda di come viene illuminato, e tante storie diverse da raccontare.
Lo faremo in due o tre puntate, e nel farlo abbiamo chiesto anche aiuto a chi a Mirafiori lavorava e a chi la frequentava come fornitore.
In questa prima puntata scopriremo Valletta (detto il Professore), un assaggio, tanto per entrare in tema.
VALLETTA A PASSEGGIO PER I CORRIDOI
«Non sono le persone che fanno Mirafiori, ma è Mirafiori che fa le persone»
È stato scritto tutto su Mirafiori.
Operai, cancelli, resistenza, fascismo, fordismo, sociologi, scrittori, giornalisti. Se fossimo Antonio Scurati potremmo scrivere un’altra trilogia intitolata M non come Mussolini, ma questa volta come Mirafiori.
Duomo laico, tempio della religione del lavoro e dell’opportunismo, del potere e della ingegnosità motoristica.
Nel suo periodo di massimo sviluppo diede occupazione a circa 60 mila persone, con una produzione di oltre un milione di auto all’anno.
L’eco di questo passato rumoroso arriva fino a noi: i muri ricordano gli accadimenti, come una scatola nera incorporata, e un fantasma si aggira ogni notte tra i corridoi.
Ancora oggi.
È il fantasma di Vittorio Valletta che dal 1921 al 1966 fu il potentissimo Amministratore delegato e Presidente della Fiat, l’uomo che immaginò e realizzò Mirafiori.

Riunioni, decisioni, vendette, licenziamenti, successi, applausi, sussurri, urla, momenti distruttivi, costruttivi e costrittivi, macchine del fango, regolamenti e regolamenti di conti, valori aziendali, direttori, dirigenti, quadri, ufficio personale…
Valletta passeggiando ascolta compiaciuto gli accadimenti della giornata.
“La feroce”, era uno dei soprannomi di Mirafiori : sembra il nome di un carcere di massima sicurezza.
Per altri il “Kremlino”, non a caso è all’angolo tra Corso Giovanni Agnelli e Corso Unione Sovietica (ma quale altra città conserva ancora un corso con questo nome ?)
Mirafiori: un ambiente costruito per il potere e per l’incasellamento della persona.
Corridoi come set cinematografici, tutto avveniva li, un po’ come a Montecitorio e nel suo corridoio dei “passi perduti”.
E poi la doppia lettera L che unisce i proprietari, gli Agnelli, a molti Amministratori Delegati da Valletta in avanti: Ghidella, Cantarella, Altavilla.
Uno contiene un pezzo dell’altro, un po’ come con i Papi.
E morto un Papa se ne fa un altro, anche a Mirafiori.

Il genius loci è questo, e c’è, lo senti o meglio lo sentivi, e si ritrova nella tradizione militare della città.
Dai campi di battaglia alle battaglie industriali, dai generali agli amministratori delegati : senza soluzione di continuità.
Non sono le persone che hanno fatto Mirafiori ma è Mirafiori che ha fatto, plasmato, condizionato, le persone.
Giudizi a parte, una cosa è certa : Torino deve ringraziare Mirafiori perché, con la sua presenza ingombrante in città, ha tenuto lontano il Turismo di massa.
Mirafiori ha salvato Torino dal Turismo.

E oggi che tutto questo non esiste più, oggi che il rumore delle linee di montaggio e il bisbigliare dei corridoi sono solo un ricordo. Dai piani alti della Palazzina, nelle giornate di sole, la cerchia delle Alpi è magnifica e deve essere un piacere continuare a passeggiarci, e godersi un silenzio surreale, post atomico, vero dottor Valletta ?
Quale sarà il futuro di Mirafiori è difficile immaginarlo.
Ma noi ci proveremo ancora e ancora.
Certi che la Mirafiori di domani saprà ancora stupirci.
Perché ne va di noi, ne va di Torino, ne va dell’Italia.
Umberto Eco diceva che « Senza l’Italia, Torino sarebbe più o meno la stessa cosa. Ma senza Torino l’Italia sarebbe molto diversa ».
E questo anche grazie a Mirafiori.
Quando immaginiamo la Mirafiori del futuro dovremmo tenerlo bene a mente.
(Continua QUI)
Eraldo Mussa
LINK INTERNi PRECEDENTI:
-Lettera da Torino n°1 – P come Piazza Vittorio Veneto
https://altritaliani.net/lettera-da-torino-n1-p-come-piazza-vittorio-veneto/
-Lettera da Torino n°2 – F come Fiume Po
https://altritaliani.net/lettera-da-torino-n2-f-come-fiume-po/




































Che bellissimo ispirato commento!
In poche righe un quadro completo e puntuale della città
Grazie!
Questa lettera mi ha subito colpito, perché racconta un’esperienza che, pur giungendo dal lontano Brasile, ho potuto comprendere — almeno in parte — nella sua fase finale. Quando arrivai a Torino, nel 1989, andai ad abitare proprio vicino all’angolo menzionato da Eraldo Mussa, tra corso Giovanni Agnelli e corso Unione Sovietica, e usavo alternativamente il tram 10 o il 4 per andare al Politecnico o in centro (quando non decidevo di fare il tragitto a piedi, se il freddo me lo permetteva).
C’era sempre, accanto a me, la presenza imponente della Fiat: un centro gravitazionale che agiva — come accade nell’universo su larga scala — da attrattore. Niente di strano, ma qualcosa di inevitabile, racchiuso in una parola dal suono potente: Mirafiori. Questa fu la Torino che scoprii all’improvviso. Faceva freddo, e il paesaggio alpino mozzafiato era quasi sempre nascosto dietro l’aria fosca del gelo e dell’inquinamento.
Poi, a poco a poco, ho scoperto l’altra Torino: quella Reale, capitale gloriosa, ricca di primati in Italia e nel mondo — dal calcio alle idee rivoluzionarie, dalla grande fisica teorica alla letteratura che non teme il silenzio. La Torino che ha dato i natali a Lagrange e Avogadro, ma che ha saputo parlare anche il linguaggio della fisica moderna con Persico e Regge — quest’ultimo ho avuto modo di incontrarlo personalmente diverse volte.
La città (per adozione o per nascita) di Calvino e Pavese, di Primo Levi e dei Ginzburg; la città che Einaudi rese una capitale editoriale d’Europa; la città di Bobbio e di Umberto Eco, da cui ho imparato a cogliere il vero ruolo del capoluogo piemontese: una città che avrebbe potuto fiorire ovunque nel mondo, perché sembra dipendere solo da sé stessa.
E a quel punto ho cominciato a sentire Torino anche come una città dello spirito: con il mistero della Sindone, che attrae scienziati e pellegrini; con il silenzio austero della Consolata; con quella sua aura di profondità che non si offre mai tutta insieme, ma si lascia scoprire piano.
Era la città che legge — al Salone del Libro — e che custodisce l’Antico nel Museo Egizio; che suona al Teatro Regio, dove l’acustica è tra le migliori d’Europa; e che sogna con le immagini del suo cinema. Era la città che non si è fermata al clangore delle officine, ma ha guardato avanti: al cielo, con i satelliti; al futuro, con il Politecnico (casa mia e dei miei amici per tanti anni) e la scienza.
Era anche la città dove nacque l’Italia moderna, e dove — da capitale — si sono impastati sogni unitari, tensioni civili, conquiste operaie. E intanto, lo sport, vissuto come un battito collettivo: dal Toro alla Juve, dai campi periferici alle Olimpiadi Invernali che l’hanno trasformata.
Torino, insomma, si è lasciata scoprire lentamente, come una persona riservata ma generosa, piena di memoria e di visioni. È una città che, per chi arriva da lontano, diventa presto parte di sé.
E il ruolo di Mirafiori, e di ciò che rappresenta questo quartiere, non può davvero lasciare indifferente chi la incontra.
Grazie, Eraldo!