Sampierdarena, un racconto psicogeografico di Ennio Cirnigliaro

Sampierdarena è un quartiere al Centro Ovest di Genova. Nei suoi oltre mille anni di storia è stato al centro di trasformazioni che hanno visto l’originario borgo di pescatori divenire luogo di villeggiatura dei ricchi genovesi, poi il cuore dell’industria genovese e infine area strategica per lo sviluppo del porto. Sampierdarena, nel passato comune autonomo, fu integrato alla cosidetta Grande Genova per decisione del regime fascista nel 1926. I suoi abitanti hanno però continuato nel tempo ad affermare orgogliosamente lo loro propria identità.

Sampierdarena

Le navi, quelle vere, i mercantili, ormai sbarcavano tutte fuori dall’insenatura storica, attraccando lungo quel pettine che è il porto di Sampierdarena, con i moli evocanti le peggiori imprese coloniali del regime che li aveva costruiti e dei suoi predecessori: Ponte Etiopia, Ponte Libia, Ponte Eritrea, lunghi pennelli ricavati rubando pezzi di mare ad una spiaggia che era “la spiaggia” per antonomasia, l’Arena dedicata a San Pietro, San Pier d’Arena, poi diventata Sampierdarena tutta attaccata.

L’allora cittadina di pescatori e di villeggianti, punteggiata di mirabolanti ville rinascimentali ad intervallare la folta macchia mediterranea che digradava dalla collina, era separata dal centro città dalla collina, o meglio, dal promontorio di San Benigno, in fondo al quale si stagliava, e si staglia, anche se il promontorio è diventato un dente sempre più cariato, di sbancamento in sbancamento, quello che fu il più alto faro del Mediterraneo, oleografico orgoglio della Superba che, nel frattempo, gli cresceva intorno ipertrofica inglobando tutti i villaggi e i paesi della costa e dell’immediato entroterra.

Forte dell’ambivalente decollo figlio dell’industrializzazione imposta da Cavour, la città divenne presto “la Manchester italiana”, coi suoi tanti opifici, e soprattutto con la ferrovia, aperta nel 1853: la lunga strada ferrata (come si chiamava allora) che, collegando la capitale sabauda con Genova, dava uno sbocco al mare alle necessità della monarchia. Tanto strategica era quell’area, allora comune autonomo, da ospitare la Gio Ansaldo già un anno dopo, prima grande industria pesante quasi nazionale, dalle cui officine verrà fuori la prima locomotiva italiana, chiamata proprio Sampierdarena, oltre che una delle classi operaie più combattive della Penisola (ma questo, forse, Cavour non se l’aspettava). Sorsero società mazziniane, figlie di un vecchio e mai solito repubblicanesimo genovese, ed ogni osteria divenne un covo di avventurieri, rivoluzionari, sognatori.

Non è forse un caso, se anni dopo, uno dei più grandi e misconosciuti scrittori di viaggio italiani – che non viaggiò mai, se non con la sua penna – Emilio Salgari, scrisse molte sue opere a pochi metri da quella grande fabbrica/ porto che era diventata San Pier d’Arena (scritta ancora staccata), talmente vicino al mare che un giorno una mareggiata gli invase l’appartamento di Via Vittorio Emanuele II, come racconta Mauro Salucci, che su questa ed altre storie ha fatto un’interessantissima ricerca. Lo scrittore si trovava spesso nella trattoria “Da Maria”, nel quartiere della Coscia, nome involontariamente evocativo di una zona in cui oggi sono ubicati diversi night club. Nell’angusto locale, il cui solo pensiero sembra portare alle narici gli odori carichi di trippa, di olio, di sardine e di farinata, lo scrittore raccontava ad un tizio di Pontedecimo (n.d.r. altro quartiere di Genova) tutte le vicende tristi della sua vita, quelle che, in seguito, lo porteranno al suo suicidio torinese (Torino e i suicidi. Ogni volta che ci passo, penso a lui e a Pavese, ma ora non è il caso di parlarne qui).

Era, ed è, un luogo di passaggio e passaggi, Sampierdarena (ora inizio a scriverlo tutto attaccato, per dare l’idea del tempo che frettolosamente si è avvicinato al nostro); vie cariche di esistenze e resistenze in cui ancora è viva la memoria del gappista Giacomo Buranello, o di Don Berto Ferrari, il prete partigiano che ebbi occasione di conoscere ormai tanti anni fa. Sampierdarena, sede del primo liceo classico del ponente, significativamente intitolato a Giuseppe Mazzini, dove molte e molti di noi hanno incontrato per la prima volta il mondo, e sede delle lotte più radicali, ed anche più controverse, dai movimenti anarchici ai collettivi autonomi, ormai sull’orlo di un riflusso che lì, come in tanti altri luoghi, significò eroina e silenzi interiori intervallati da sabati senza storia nella discoteca di via Fillak (altra strada dedicata ad un giovane partigiano) con vista su quel Ponte Morandi che costituiva il confine materiale ed esistenziale fra l’ormai quartiere e la Valpolcevera, scritta tutta attaccata pure lei, perché a Genova siamo così parsimoniosi da creare parole composte per risparmiare gli spazi bianchi: ne abbiamo poco, di spazio, e quello che c’è lo vogliamo sempre tenere da conto anche nella toponomastica.

Le navi mercantili, dunque. Ero partito da lì. Ne arrivavano di tutti i tipi e di tutti i colori scaricando contenitori carichi di prodotti asiatici meno romantici di quelli un tempo giunti dalla Via della Seta. Oggettistica, radio, caricabatterie portatili e non, lampadine, pile e tutte quelle invariabili merci varie che avrebbero riempito gli scaffali di centinaia di negozi copia-incolla di tutta l’Italia centro-settentrionale. Dico questo senza alcuna puzza sotto il naso; al contrario, ammetto di adorare quei negozi nei quali mi do all’acquisto compulsivo di radio ad onde corte, la passione che proprio quel mare mi ha trasmesso da bambino, quando accompagnavo mio padre nelle lunghe notti del pescatore amatoriale per il solo gusto di dire : “ho fatto la notte”. In quelle notti, era proprio la radio a portarmi, come se volassero sul mare, le onde più lontane, con le voci e le lingue più disparate che, mescolandosi nell’indistinto fruscio della modulazione di ampiezza, venivano quasi nobilitate per quel senso di lontananza che ogni patina – come mostra il fascino della pittura barocca o del fruscio dei dischi a 78 giri – ci sa dare.

In quelle notti ho imparato i nomi dei pesci del mio mare, che sempre lasciavo andare, dei polipi, dei granchi, dei pescatori con cui mio padre aveva fatto amicizia, come Coccocarmelo (pure lui attaccato per le ragioni di cui sopra), un anziano – o così mi sembrava – siciliano trapiantato a Pra, che ogni giorno portava a casa il pesce da fare cucinare alla moglie, figura sempre evocata e mai vista, e da me immaginata con le grasse fattezze di un’arcaica Madre mediterranea. Coccocarmelo era gentile con me, quando mi si rivolgeva in una specie di lingua franca dei navigatori, un misto di genovese, siciliano, raro italiano e chissà che altro. Lo ricordo sempre come una sorta di spirito delle onde, illuminato dalla pila che ne trasformava il volto. La notte erano le pile dei pescatori, la linea di costa, il salmastro che ti entrava nelle narici cadenzato col ritmo della risacca contro “il pennello”, come era chiamata la diga su cui ci posizionavamo, il promo pezzo – lo avrei scoperto solo dopo – del costruendo e orribile porto di Pra-Voltri, che di lì a poco avrebbe divorato uno dei pezzi più belli di litorale genovese, sacrificato all’ultima delle distopie novecentesche in cui era annegata questa città, ed il cui strascico sarebbe andato avanti ancora per anni, alimentando errori ed orrori quali il terzo valico ferroviario e la gronda autostradale, entro un futuro senza futuro che ci tiene inchiodati nell’eterno presente senza la coscienza del passato nel quale prolifera la locale classe dirigente di destra, pur nella città più di sinistra d’ Italia.

I mercantili, Sampierdarena, le immagini che si contorcono nei miei ricordi, il Ponte Morandi come limes che si sgretolò in una disgraziata mattina del 2018. E noi, umani, con il nostro privato politico ed il nostro politico privatizzato, in questa striscia di terra che guarda a tutti i sud, con tutte le lingue e i colori che ancora la vivono e la vivranno. Guardo a sud, la linea oltre la diga foranea ed oltre il mare, il punto da cui tutto è iniziato e da cui tutto, un giorno, tornerà a iniziare.

Ennio Cirnigliaro

LINK Altritaliani ad altri racconti “psicogeografici” di Ennio CIRNIGLIARO. Storie vere, a volte di fantasia, ma sorgono tutte da un dove preciso, reale, dalla cartografia personale dell’autore.

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Ennio Cirnigliaro
Ennio Cirnigliaro è nato a Genova nel 1974. Archeologo per professione e vocazione, militante politico di lunga data, indaga il presente con quella particolare chiave di lettura “stratigrafica” propria di chi ha l’abitudine di inserire i fenomeni singoli in un più ampio contesto. Ha pubblicato su riviste varie articoli specialistici nel suo ambito, oltre che testi politici e sociali aventi come denominatore comune l’antifascismo, l’antisessismo, l’anticapitalismo, l’antirazzismo e l’ecologia sociale. Ha pubblicato per Prospero editore “Medioevo digitale. La storia contemporanea attraverso i social network”, 2021.

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