Francia e Italia: sistemi pensionistici a confronto

Il 16 marzo 2023, la riforma delle pensioni è stata adottata senza un voto parlamentare (e il 20 non è stata adottata la mozione di censura contro il governo). Una pagina si è chiusa, ma la battaglia continuerà nelle piazze. La douce France è nuovamente in crisi, tra scioperi, manifestazioni e azioni collettive, il cui aspetto più visibile sono i cumuli di spazzatura nelle città.

Foto Alessandro Giacone

Quando sento parlare gli amici italiani di quel che sta succedendo qui da vari mesi, le reazioni sono inevitabilmente due: a) quando i francesi protestano, lo fanno sul serio, contrariamente a quanto avviene da noi. b) la Francia è il paese di Bengodi: come pensano  di andare in pensione a 60 anni, mentre da noi occorre lavorare fino a 67 anni? Sul primo punto c’è poco da aggiungere, e quindi mi concentrerò sul secondo, perché in Italia c’è una certa ignoranza sul modo in cui funziona il sistema pensionistico francese.

Due riflessioni preliminari : 1) l’età legale per andare in pensione è solo un’età minima, legata ai contributi versati. E tranne in alcuni settori particolari, è possibile continuare a lavorare oltre l’età legale (e molti lo fanno); 2) per quanto riguarda la pensione di anzianità, quella che si ottiene a prescindere dai contributi versati, l’età è identica in Francia e in Italia: 67 anni.

Nei nostri due paesi, si parla di riforma delle pensioni da almeno tre decenni, ma i punti di partenza non sono esattamente gli stessi. In Italia, la famigerata riforma Rumor (1973) permetteva di andare in pensione nell’impiego pubblico con 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi (per le donne sposate),  con 20 anni per gli statali, e con 25 per i dipendenti degli enti locali. Si calcola che i pensionati baby gravino, ancora oggi, per circa sei miliardi di euro l’anno sulle finanze statali. Certo, i pensionati baby sono ormai ultrasettantenni, ma in alcuni casi sono in pensione già da 40 anni. Alla lunga, per ovvi motivi demografici, questo mise a dura prova le finanze dello Stato. Le prime contromisure furono adottate negli anni Novanta (prima nel 1992, poi nel 1995, con la riforma Dini) per arginare la deriva dei conti pubblici, ma il tema restò d’attualità per vent’anni.

In Francia non è esistito un fenomeno analogo a quello dei pensionati baby, e quindi la situazione finanziaria delle casse delle pensioni era più equilibrata. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, erano stati creati i cosiddetti “régimes spéciaux” che permettevano ad alcune categorie (in particolare i minatori e i macchinisti dei treni) di andare in pensione a 52 o 55 anni. Per tutti gli altri, la pensione era fissata a 65 anni. Il grande cambiamento avvenne nel 1983, con Mitterrand, quando l’età pensionabile fu abbassata a 60 anni, a condizione di aver versato contributi per 37 anni e mezzo.

Ovviamente, ci sono due modi di riformare le pensioni, che dipendono dall’urgenza della situazione: una riforma che prende efficacia immediatamente, e una che viene attuata progressivamente. Il primo caso è ovviamente quella della riforma Monti-Fornero. Nell’autunno del 2011, l’Italia si trovò in una situazione finanziaria insostenibile, e dall’oggi all’indomani, l’età pensionabile venne spostata da 62 a 67 anni. Lo Stato poté quindi “risparmiare” il costo delle pensioni che dovevano essere liquidate nei cinque anni seguenti, e questo probabilmente lo salvò dal fallimento. Ma fu una riforma estremamente brutale, che non lasciò buoni ricordi.

In Francia, la situazione finanziaria è sempre stata meno drammatica, sia per l’assenza dei pensionati baby che per un maggiore dinamismo demografico (l’indice di fecondità supera i 2 figli per donna, mentre in Italia è sceso a 1,2). Nel 2018, il deficit del sistema pensionistico era inferiore ai 3 miliardi di euro, anche perché negli ultimi trent’anni ci sono state varie riforme, attuate sempre in modo progressivo, cioè spostando gli sforzi soprattutto sulle generazioni future. La ragione è nota: poiché la speranza di vita tende ad aumentare, in futuro sarà necessario lavorare più a lungo. Ci fu quindi la riforma Balladur (1993) che portò a 40 il numero di anni lavorativi per chi lavorava nel settore privato. Dopo il fallimento della riforma Juppé (1995), dopo uno sciopero generale di tre settimane, nel 1999 il governo Jospin creò un Fondo di riserva per le pensioni, alimentato con la vendita di quote delle imprese pubbliche. Poi la riforma Fillon (2003) spostò da 60 a 62 anni l’età minima pensionabile e ridusse il numero dei cosiddetti regimi speciali. In particolare, i contributi furono parificati e anche nel settore pubblico fu necessario “cotiser” (contribuire) per 40 anni (invece di 37,5). Infine, sotto la presidenza Hollande, vi fu la riforma Touraine (2014), tuttora in vigore, che fissa le condizioni per beneficiare di una pensione a tasso pieno, come riassunto dalla tabella seguente:

Anno di nascita Numero di trimestri richiesti
Dal 1955 al 1957 166 (41 anni e 6 mesi)
Dal 1958 à 1960 167 (41 anni e 9 mesi)
Dal 1961 à 1963 168 (42 anni)
Dal 1964 à 1966 169 (42 anni e 3 mesi)
Dal 1967 à 1969 170 (42 anni e 6 mesi)
Dal 1970 à 1972 171 (42 anni e 9 mesi)
Dal 1973 in poi 172 (43 anni)

 

E qui occorre fermarsi un attimo e smettere di fissarsi sull’età minima pensionabile. Perché quello che riempie le casse pensionistiche non è l’età in sé, ma i contributi versati nel corso di una carriera. E da questo punto di vista, il sistema pensionistico francese è già uno dei più esigenti (per non dire uno dei più duri) a livello europeo. Un paio di esempi renderanno l’idea.

Una persona nata nel 1961, e che ha iniziato a lavorare all’età di 20 anni nel 1981, ha potuto effettivamente maturare 42 anni di contributi ed andare in pensione nel 2023, all’età di 62 anni.   Analogamente, una persona nata nel 1973, che ha iniziato a lavorare nel 1994, all’età di 21 anni, potrà andare in pensione nel 2036. Di fatto, l’età di 64 anni, di cui tanto si è discusso, sarebbe già stata raggiunta automaticamente nel 2035, senza nessuna riforma.

Il problema è che non si è allungata solo la speranza media di vita, ma anche la durata negli studi, ed è frequente che il primo impiego arrivi ben oltre i 20 anni. Supponiamo che un “giovane” del 1980 abbia iniziato a lavorare a 25 anni. Per avere la pensione a tasso pieno, dovrà lavorare fino al 2048, cioè fino all’età di 68 anni. (Certo, è possibile riscattare fino a 3 anni di studi dopo la maturità, ma si tratta di un acquisto oneroso, e sono in pochi a farlo). Insomma, già con il sistema attuale, molte persone lavoreranno ben oltre il “limite” italiano dei 67 anni.

Qui si inseriscono i tentativi di riforma di Macron. Nel 2020, fu presentato un progetto di “pensione a punti” per semplificare i sistemi esistenti: prevedeva che ogni euro di contributi sarebbe equivalso a un punto di pensione. Il progetto suscitò dubbi anche all’interno del governo, perché favoriva chi aveva stipendi più elevati. Ma a dare fuoco alle polveri fu una disposizione introdotta dal Primo ministro Edouard Philippe: quella di inserire un’età perno (âge pivot) di 64 anni. Di fronte a grandi manifestazioni di piazza, e poi all’inizio della pandemia di covid, Macron annunciò il ritiro della riforma. “Errare humanum est, perseverare diabolicum”. Oggi, il sistema pensionistico francese non è al collasso, anche se il deficit aumenta. Perché presentare un nuovo progetto, facendo tabula rasa del sistema a punti, mantenendo solo la disposizione più contestata, cioè l’età minima di 64 anni?

Certo, qualcosa si risparmierà nei prossimi dieci anni, ma è soprattutto una questione di prestigio. La campagna presidenziale del 2022 è stata praticamente inesistente. L’unico punto del programma di Macron – oltre ovviamente a battere Marine Le Pen – è stata la riforma delle pensioni. In questo, ha trovato una convergenza con i Républicains, da cui oggi dipendono le sorti del governo. Perché si fa la riforma? Sostanzialmente, perché Macron ha promesso di farla e non vuol perdere la faccia. Come ho cercato di spiegare, le cose non cambiano un granché: si tratta di anticipare al 2027 quello che era già previsto dal 2035, cioè una pensione con 43 anni di contributi. La fregatura – perché di fregatura si tratta – riguarda i lavoratori che hanno iniziato da giovanissimi, in gran parte poco qualificati, spesso impiegati in mestieri usuranti. Un altro esempio, per capirci: un operaio nato nel 1968, che ha iniziato a lavorare nel 1986 a 18 anni, ha maturato 42 anni e mezzo di contributi nel 2028. Con la riforma Fillon, doveva già attendere fino al 2030. Con l’ultima  riforma, andrà in pensione nel 2032, a 64 anni, con ben 46 anni di contributi.

In Italia, negli ultimi anni si è cercato di attenuare gli effetti più drastici della legge Fornero. C’è stato un gran parlare di quota 100 (età di pensionamento + anni di contributi), spostata poi a 103 e a 105 (non entro nel dettaglio delle varie opzioni). Il nostro operaio – nato nel 1968 e pensionato nel 2032- raggiungerà addirittura quota 110 (64+46). Questo spiega che, in prima linea delle manifestazioni, si trovino soprattutto i giovani, che dovranno comunque lavorare più a lungo, e i sindacati di categoria dei mestieri più usuranti. Nel primo caso, la riforma di Macron è sostanzialmente inutile. Nel secondo caso, è sostanzialmente ingiusta, perché colpisce soprattutto chi ha iniziato a lavorare da giovane e ha statisticamente una minore speranza di vita.

Come scriveva Michel Rocard nel 1991, “l’età pensionabile non si impone, ma si constata”. Nei fatti, il sistema pensionistico francese è molto simile a quello italiano. La pensione minima si ottiene alla stessa età. L’età pensionabile è teoricamente più bassa, ma nei fatti il numero di contributi richiesti è già superiore a quello italiano (che oscilla tra i 41 e i 42 anni). Di fatto, l’età di pensionamento tenderà ad essere la stessa. Insomma, cari amici italiani, la Francia non è il paese dei balocchi!

Alessandro Giacone

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Alessandro Giacone
Alessandro Giacone habite à Paris depuis 1990. Il est "Professore associato di Storia" à l'Université de Bologne et vice-président de l’association Italiques.

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