Il 2022 sarà per Italia e Francia un anno importante. Si eleggono i rispettivi nuovi presidenti della Repubblica. In Francia il dibattito già ferve ma occorrerà ancora qualche mese e quindi ci concentriamo sulla elezione del presidente in Italia, visto che ormai è solo questione di giorni.
Come da Costituzione, la politica italiana si appresta alla scelta del nuovo Capo di Stato che per il prossimo settennato rappresenterà l’unità nazionale in Italia nonché il volto e la storia del Paese anche all’estero. Va detto che, malgrado le mancate per quanto auspicate riforme costituzionali, ormai da qualche anno, come dimostrò, ad esempio, la presidenza Napolitano, il ruolo politico del presidente ha assunto un significato ben più pregnante di quello degli esordi della Repubblica, finendo per assumere spesso e volentieri il valore di guida ed orientamento del Paese, in taluni casi diventando vero e proprio propulsore delle riforme del Paese.
Cerchiamo di interpretare le possibili soluzioni al rebus Quirinale, mentre allo stato sembrerebbe prefigurarsi, tra veti incrociati, una sostanziale situazione di stallo.
Il che non vuol dire che stallo sarà. Sette anni fa, alla testarda quanto inutile linea di Bersani per imporre Prodi presidente, ipotesi che si schiantò contro i 101 di D’Alema, da sempre avversario del professore bolognese, si contrappose la brillante uscita di Renzi (che si preparava a costruire il PD più forte di sempre con il suo 41% alle europee) che sorprese tutti con il nome di Sergio Mattarella.
Gli scettici allora non mancavano, si parlava di un presidente senza spessore (oddio! Forse è il caso di ricordare che ci fu chi addirittura aveva proposto la conduttrice TV di Report, la Gabanelli), in realtà la storia ci dirà che la mossa del fiorentino fu eccellente, e così abbiamo avuto un presidente che in uno dei settennati più complicati della nostra storia repubblicana a ben tenuto unito il paese, raccogliendo rispetto non solo da tutte le forze politiche ma anche in tutti gli scenari esteri.
Oggi il quadro apparirebbe chiaro. Da una parte la destra (con qualche mal di pancia) propone l’ottantaseienne Silvio Berlusconi, dall’altra parte i democratici, di sinistra o centristi guardano (non senza qualche mal di pancia) a Draghi. In mezzo, l’ennesima diaspora grillina che tra litigi e divisioni pensano, in modo un po’ populista ad una non meglio identificata donna come elemento di novità nel costume politico del Paese.
Partiamo da questi scenari.
È chiaro che Berlusconi non è più il “nemico” numero uno della sinistra, ad onor del vero non è neanche il “nemico” numero due o tre. Il creatore della seconda repubblica è ormai un moderato che deve cercare, spesso disperatamente, di contenere nella sua area politica, i ben più caldi e sovrani Salvini e Meloni che, dall’alto della loro popolarità, guardano il loro alleato dall’alto in basso.
La candidatura di Berlusconi non manca di qualche autorevolezza, almeno all’interno dello stivale. Parliamo pur sempre dell’unico politico per il quale è stato coniato un aggettivo: “berlusconiano”, che ha segnato un ventennio di storia patria, portando l’Italia dalla prima alla seconda repubblica. Ha cambiato nei modi e nello stile la politica del Paese, guidando la transizione all’Italia di oggi dopo la fine delle grandi ideologie novecentesche.
Tuttavia, la sua figura è stata, anche e non solo per colpe altrui, gravemente compromessa da scandali e affari giudiziari, finendo per essere attenzionata (a volte oltre misura) non solo dalla magistratura ma anche dalla stampa, specie quella di sinistra che gli era più ostile.
Un trattamento durissimo che ha finito alla lunga per sfibrare e mettere in ombra il vecchio leader di Forza Italia che tuttavia è oggi più di ieri, una forza politica con cui possono giocare di sponda tutte quelle forze politiche che non abbandonano l’idea di un rinnovamento in senso liberale e libertario del Paese. Non è un caso che diversi esponenti del partito che fu creato da Berlusconi sono oggi su posizioni europeiste, in sintonia con quei settori finanche della sinistra più liberale in materia di diritti civili o sull’ambiente e la cura dei territori, per fare solo alcuni esempi.
Tuttavia, la candidatura Berlusconi, non sembra corrispondere al bisogno di avere un presidente in cui si possa riconoscere la gran parte degli italiani, questo specie ora che si ha un governo di fatto di unità nazionale. Letta per il PD, ma anche i grillini, hanno già rimandato al mittente la proposta come irricevibile ed improponibile, con accenni forse comprensibili per quanto eccessivi. Non si tiene evidentemente in conto il mutato quadro politico e il ruolo che il fondatore di Forza Italia oggi rappresenta.
In effetti lo stesso Salvini e forse anche la Meloni, per quanto giurino il loro fedele sostegno al vecchio lombardo, in cuor loro non sono davvero convinti. Berlusconi al Quirinale sarebbe un contenimento e non una liberazione per la loro straripante voglia di governare e di spostare il paese decisamente a destra con politiche antieuropeiste e duramente in contrasto con i processi di globalizzazione che ancora sono in corso. Senza contare le ambiguità sul tema del Covid 19, dove più netta è la differenza tra Lega e Fratelli d’Italia proprio verso Forza Italia.
E allora veniamo a Draghi. Intanto, negli ultimi giorni la candidatura e l’elezione dell’ex presidente della BCE non appare più scontata. Da una parte ci sono le perplessità ideologiche dei grillini e della residuale estrema sinistra, che vedono in Super Mario il campione delle banche e pertanto ipso facto è improponibile un loro sostegno. Dall’altro lato esistono perplessità tecnico-istituzionali. Un Draghi al Quirinale deve lasciare la poltrona di palazzo Chigi, con tutte le incognite sulla ricomposizione e unità dell’attuale governo che nella delicata gestione del Covid e dei fondi europei per il rilancio dell’economia avrebbe pur sempre ancora un fruttuoso anno di lavoro.
In assenza di una riforma presidenzialista è chiaro che il passaggio al Quirinale di Draghi, limiterebbe fortemente il suo ruolo di guida nel governo dell’eterna emergenza italiana.
Il PD spinge per Draghi, palesando anche in questa occasione tutte le contraddizioni di una pretesa e infattibile alleanza con i grillini. In subordine si accenna ad alternative che mal si tengono in piedi. Una di queste è il sempiterno Giuliano Amato, da sempre proposto al Quirinale, così come la bandiera per una certa sinistra libertaria e radicale Emma Bonino, nomi che alla fine non uniscono e non convincono e che anche in questa occasione rischiano di ecclissarsi non appena pronunciati.
Si guarda a Renzi, per attendere proposte utili. Il fiorentino, uno dei pochi politici di razza, al netto dei suoi non pochi errori, per ora nicchia. Tuttavia, non sfugge all’osservatore politico la circostanza che Mattarella al Quirinale lo portò lui e soprattutto sempre lui portò Draghi al governo rimpiazzando l’inutile ed immobile Conte che pure di governare aveva tentato in tutti i modi prima con Salvini e poi con lo stesso Letta. Due operazioni che hanno rilanciato il Paese, il tutto contando su una forza politica, Italia Viva che oggi conta nei sondaggi poco più del 3% e con una pattuglia parlamentare certo non numerosissima.
Renzi, sembra propenso verso Draghi e tuttavia come la Serracchiani del PD, riconosce la giustezza delle affermazioni di Gianni Letta, braccio destro di Berlusconi, che senza fare nome espliciti, invoca un presidente degli italiani che vada oltre i giochetti di schieramento politico. Una figura di prestigio, che abbia una forte conoscenza della politica e della società italiana, come si dice con frase fatta, di alto profilo, in cui gli italiani si possano riconoscere.
Infine, rimane la donna. La questione è che se avessimo bisogno di un presidente emblema, di testimonianza, i nomi non mancherebbero. Alla già citata Bonino, una vita dedicata ai diritti civili, alla lotta di civiltà e liberazione anche per le donne come anche nei paesi del nord-Africa, testimone di tante battaglie riconosciute nel mondo intero per i grandi valori della nostra società occidentale, potremmo anche ricordare la Segre e le sue battaglie contro i totalitarismi e il razzismo, che l’hanno resa icona applaudita e riconosciuta anche nel parlamento europeo, ma è questo che si vuole?
Come ricordato, ormai sempre più il Presidente della Repubblica gioca un ruolo politico che va ben oltre la semplice rappresentanza e vigilanza sulla democrazia repubblicana. Taluni propongono la Cartabia, i suoi trascorsi giuridici e gli attuali impegni di governo evidenziano che all’opposto la sua dinamicità e capacità serve molto di più all’interno dell’azione di governo e paradossalmente rischierebbero le sue qualità per essere limitate proprio dal ruolo presidenziale. Altri nomi allo stato non sembrano credibili. La Casellati è troppo filo berlusconiana per poter essere figura di unità nazionale e a quel punto sarebbe più onesto puntare sull’originale.
Certo nell’Italia che non accolse (che enorme errore fu) la riforma costituzionale approvata dal governo Renzi e che ancora ha un sistema elettorale farraginoso e che non favorisce la governabilità occorre un presidente della Repubblica che in qualche modo sia riferimento e guida ispiratrice per le attuali forze politiche.
Dunque il rebus Quirinale non è di facile soluzione. Negli ultimi giorni si è riproposto il nome di Mattarella. Il quale ringrazia declinando l’invito. Una sorta di operazione alla Napolitano, che tuttavia non nasconde i limiti dell’attuale politica italiana. Un’ipotesi a cui crediamo poco. Nel settennato del rilancio italiano occorrono elementi di novità e di novità l’Italia ne offre poco. Tra gli altri papabili si è fatto il nome dell’evergreen Casini, uomo ponte tra la prima e la seconda repubblica, elemento che è stato di congiunzione tra Berlusconi e il PD, Sabino Cassese, l’arguto giurista che difese la riforma costituzionale di Renzi che però come Berlusconi ha 86 anni.
Ed allora il principale indiziato torna ad essere Draghi, il quale è vero che rinuncerebbe al governo, ma è probabile che l’unità nazionale, finite le “quirinalie”, vada a farsi benedire e comunque tra un anno ci ritroveremo a votare per le politiche che allo stato non sembrano garantire, sondaggi (per quello che valgono) alla mano, una governabilità netta e sicura. Insomma, meglio Draghi ora al governo bruciandolo come Presidente della Repubblica oppure prendere dei rischi, affidando magari ad un suo uomo di fiducia il governo per avere lui alla testa del paese per sette anni?
Si può credere che tra l’uovo oggi e la gallina domani sia sempre preferibile la seconda opzione. È una questione di gusti e di progetto.
Nicola Guarino
Leggere le riflessioni di Nicola Guarino sulla politica italiana fa sempre l’impressione di avere a che fare con quei soldati giapponesi che, rintanati nella jungla, pensavano, parecchi anni dopo la fine della guerra, che il conflitto fosse ancora in corso. La sua stella polare resta sempre e inamovibilmente Renzi, il cui « capolavoro » politico è stato quello di aver lanciato il PD contro il muro di un referendum difficile, e infatti, perduto. Non ha dubbi però Guarino: quella riforma che avrebbe ancora di più favorito il Potere esecutivo a spese del Parlamento in un Paese che, da anni, legifera a colpi di decreto (il record ce l’ha il governo Draghi che al Nostro piace così tanto) sarebbe stata l’ « auspicata riforma costituzionale » (tanto più, fa capire Guarino, che aveva il sì di Sabino Cassese…). Il filo del discorso viene per altro arricchito da qualche svolazzo fuori mira: la favola del 40% per cento dei voti per il PD alle elezioni europee del 2014 che avrebbe inaugurato un possibile trionfo del PD renziano anche in Italia, se il destino cinico e baro (anzi, quei velenosi populisti dei « grillini » e un elettorato che non è stato illuminato sulla via di Rignano come Guarino) non avesse messo il bastone tra le ruote. Favola perché se non aggiunge che votò il 57 per cento degli aventi diritto (in Italia la media degli elettori alle politiche supera il 70%), e non si spiega la differenza motivazionale fra elezioni nazionali ed europee quel fatidico numero risulta insensato (siamo infatti, rispetto al totale degli aventi diritto, al 25% circa: nulla per cui entusiasmarsi). Il « semper et fortiter » renziano di Guarino non sembra scosso dal fatto che il suo politico preferito eserciti un silenzioso ricatto sul PD di Letta in forza dei parlamentari che lui Renzi ha nominato (in primis l’ex capogruppo al senato del PD, Andrea Marcucci, che ha scelto di non seguire seguito il suo mentore in Italia Viva), sieda spesso e volentieri (e a pagamento) alla mensa di quell’illuminato sovrano che è Bin Salman, risulti legatissimo a Luca Lotti, eminenza grigia di qualche giochetto di potere interno alla magistratura, e sia indagato per l’ipotesi di finanziamento illecito ai partiti. La questione morale?, dirà il nostro « giapponese ». Roba da giustizialisti… E infatti quanto a corruzione l’Italia risulta tra i Paesi peggiori dell’Europa civile (si vedano le graduatorie di Transparency International). Ma forse tutto ciò può sfuggire a chi da Parigi (o dalla jungla birmana) vede il bel Paese a misura dei suoi sogni e delle sue illusioni.
Veramente risulta difficile rispondere al Caro amico Fulvio Senardi, perché il suo commento, al mio punto sulle elezione al seggio del Quirinale (in cui ho cercato di raccontare lo stato dell’arte di una materia sempre magmatica come l’elezione del Presidente della Repubblica), si avventura in un gastrico attaco nei confronti di Renzi che per la verità non sognavo di elogiare. Ho semplicemente ricordato dei fatti su cui si può essere più o meno d’accordo: 1) Che per unanime riconoscimento l’elezione di Mattarella (già rimpianto da tutti) fu proposta e sostenuta con successo proprio da Renzi e i suoi. 2) che se ci fosse stato il successo al referendum costituzionale oggi avremmo un sistema politico più chiaro, capace di decisioni più coerenti e responsabili, del resto non mi pare che attualmente la politica sia decisa in parlamento e probabilmente con un sistema meno caotico dell’attuale anche la stessa risulterebbe meno corrotta e appunto più coerente e responsabile. 3) Non c’è nulla di meno matematico della matematica, mi spiego e spiego al Caro Fulvio, non possiamo dire che il PD di Letta trionfa quando prende il 20% con meno del 50% di votanti e viceversa se prende il 42% con Renzi con il 57% dei votanti è una debacle. Da uno storico come Senardi, di cui apprezzo la cultura, mi aspetto di più che della tifoseria da stadio. Lascio perdere tutto il resto, compreso Luca Lotti, che non c’entra niente con la mia modesta analisi per il Quirinale e tralascio l’indigeribile pastiche di cui non ho capito quasi nulla, ma credo che sia sempre la solita tirata anti-Renzi. Insomma, prima di cambiare davvero il PD va a morire se questi sono i suoi commentatori.