Le elezioni ci hanno consegnato un’Italia divisa e contrapposta tra un centro nord guidato dalla destra ed un Sud totalmente nelle mani di M5S. L’Europa si interroga sul futuro governativo italiano, mentre i vincitori prudentemente, dopo l’esperienza della Le Pen alle presidenziali francesi, e le difficoltà della Gran Bretagna del dopo Brexit, non sembrano mettere in primo piano le relazioni tra Italia e Commissione europea. I problemi restano tutti sul tavolo e il prossimo governo italiano avrà responsabilità importantissime.
Solo qualche breve considerazione «en vrac» a partire dalle elezioni del 4 marzo. Abbiamo votato e abbiamo votato in tanti. Siamo sui livelli delle elezioni politiche del 2013, malgrado le previsioni insistenti di un crollo della partecipazione. Per di più, stavolta si è andati alle urne un solo giorno e non due come nel 2013. Certo l’affluenza degli italiani alle urne è sensibilmente inferiore rispetto a venti o trent’anni fa, ma questo fenomeno è dovuto in buona parte al ricambio generazionale: le nuove generazioni sono meno legate delle precedenti all’idea del voto come dimostrazione di libertà e di dignità dell’individuo. Altre forme di partecipazione (o presunta tale) alla vita pubblica danno l’illusione di contare, anche indipendentemente da quella benedetta scheda nell’urna. Comunque gli italiani credono alla democrazia ed è questo che in primo luogo importa ; alla faccia degli uccelli del malaugurio.
Per quanto riguarda i risultati, ci sarebbe molto da dire, ma voglio qui sottolineare una sola cosa. C’è un’impressionante barriera «geopolitica» tra il voto del nord e quello del sud. Il Meridione ha sposato con entusiasmo la formazione politica «anti-sistema», il Movimento 5 Stelle, che ha fatto promesse straordinarie e che ha veicolato l’idea di nuovi e massicci aiuti di Stato. Al tempo stesso quella formazione politica, ha proposto l’idea di uno Stato più onesto, ripulito dalle scorie della corruzione. La combinazione di quei due concetti ha sedotto l’elettorato del sud. Siamo al trionfo del bisogno di una politica anti-sistema, siamo al trionfo della voglia di pulizia o siamo al desiderio che sia rilanciata una politica d’intervento pubblico a favore delle regioni meno ricche ? Su questo ci sarà molto da ragionare e da verificare in futuro. Comunque la «questione meridionale» sarà particolarmente importante per i Pentastellati nel caso in cui riescano ad assumere le redini del governo.
L’Europa ha accolto con relativa tranquillità i risultati delle elezioni politiche italiane del 4 marzo. Niente di paragonabile con le nervose reazioni di altri momenti della storia recente. L’inquietudine c’è; perché la situazione politica italiana è confusa e l’ipotesi di nuove elezioni a breve termine è tutt’altro che impossibile. Ma l’inquietudine europea non si trasforma in aggressività o in arroganza nei confronti dell’Italia. Del resto l’inquietudine riguarda l’insieme del Vecchio continente. Le domande che tutti ci poniamo, da Lampedusa al Circolo polare artico, sono «pesanti» sul terreno dell’economia (disoccupazione, investimenti, elevato prelievo fiscale), della sicurezza (terrorismo), della politica estera (guerre e crisi sul fianco sud del Mediterraneo, inedite tensioni con gli USA) e naturalmente dell’immigrazione. Comunque vadano le cose nella politica italiana, sarebbe oggi assurdo considerare il nostro paese come «il malato d’Europa». Tutti i paesi dell’Unione sono «malati» di spinte anti-sistema, esplose in Olanda, in Francia (dove Marine Le Pen è arrivata a un terzo dei voti al ballottaggio presidenziale dell’anno scorso) e anche nella tanto decantata Germania. Comunque l’esperienza della Brexit dimostra che rispetto all’Europa è sempre meglio star dentro che fuori. I sudditi di Sua Maestà hanno voluto andarsene e continuano a non trovare il modo di farlo.
Un’Europa in difficoltà non ha nessuna voglia di lanciare moniti in direzione dell’Italia. Ha solo voglia che in Italia ci sia un governo stabile, in grado di discutere in modo serio e pragmatico con Bruxelles e con gli altri paesi membri. Quel che fa paura dell’Italia non è l’ideologia degli uni o degli altri, ma l’eventuale instabilità. La campagna elettorale va in soffitta e (per fortuna) anche il blablà demagogico dovrebbe tornarci, con le statuine del presepe che verranno scartate alla vigilia del prossimo Natale (mentre si spera che le promesse da Mille e una notte restino nel loro cassone fino alle prossime tornate elettorali). Adesso c’è da fare sul serio. Ogni nuovo capitolo della spesa pubblica deve essere finanziato. Con l’Europa si possono negoziare le condizioni del calo del deficit e del debito, ma non si può sperare che giunga la benedizione all’aumento dell’uno e dell’altro.
Al Bâtiment Berlaymont, il palazzo di Bruxelles in cui ha sede la Commissione europea, sanno benissimo che l’Italia deve rifinanziare ogni anno qualcosa come 400 miliardi di euro del suo debito pubblico ; che è di circa 2.300 miliardi di euro, pari al 131,5 % del nostro Prodotto interno lordo (Pil). Quest’operazione avviene oggi in condizioni relativamente agevoli perché l’Italia, facendo parte dell’Eurozona, offre garanzie a chiunque acquisti i suoi titoli di Stato, attraverso cui viene rifinanziato il debito pubblico. Qualsiasi governo italiano che non ispiri fiducia, che non tenga i piedi per terra o che manchi dell’indispensabile coesione – in poche parole, qualsiasi governo incapace di governare – dovrebbe spendere cifre spropositate per rifinanziare il debito pubblico.
Oggi Bruxelles non ha bisogno di «strigliare» l’Italia o di minacciare punizioni nei suoi confronti. Se le future autorità di Roma, frutto degli equilibri scaturiti dalle urne il 4 marzo, non meriteranno la fiducia internazionale, saranno loro a punirsi da sole.
I tempi sono cambiati rispetto all’epoca degli anatemi ideologici. Essere nell’euro comporta vantaggi (solidità della moneta, bassi tassi d’interesse, sostegno della Bce sotto forma di massiccio acquisto di buoni del tesoro dei paesi membri), ma implica la coerenza con gli impegni presi. L’euro è una costruzione ancora incompleta, ma è una costruzione solida, che ha smentito le molte cornacchie secondo cui la moneta unica non avrebbe retto alle ripetute crisi dell’economia internazionale.
Il prossimo governo italiano avrà responsabilità importantissime non solo nel garantire al paese la fiducia internazionale, ma anche nel negoziare col resto dell’Eurozona le condizioni del consolidamento di quest’ultima. Ricordo che una ventina d’anni fa, Jacques Delors insisteva spesso e volentieri nell’affermare che la moneta unica fosse una realizzazione incompleta, perché disponeva di un reale pilastro finanziario, ma non ancora di un pilastro sufficiente in termini di politica di bilancio comune da parte dei paesi membri. Nei prossimi mesi, su spinta del presidente francese Macron, l’Eurozona sarà chiamata a migliorare la propria «gamba» politica, in modo da rendere questa costruzione più coerente e anche più vicina ai cittadini.
Oggi noi non sappiamo quale governo stia per andare al potere a Roma. Ma sappiamo quello che il nuovo inquilino di Palazzo Chigi avrà il compito di fare nell’interesse degli italiani : ispirare fiducia, conquistarsi fiducia, conquistarci fiducia. Per fortuna la campagna elettorale è finita. Sperando che il nuovo capo del governo eviti di pensare fin d’ora alle prossime elezioni. Se lo facesse (chiunque egli sia) non potrebbe certo contare su molti sostegni in giro per l’Europa.