La recente condanna della Corte europea all’Italia per il reato di tortura, dopo la precedente sulle condizioni carcerarie disumane nel nostro paese, impone una riflessione sulla qualità dei nostri diritti umani e sulla nostra ancora acerba democrazia.
Noi italiani abbiamo perso un’altra occasione, quella di colmare un’ennesima nostra mancanza, ovvero di provvedere, nel nostro codice penale, alla introduzione del reato di tortura. Un reato che è previsto in gran parte dei paesi del mondo, o almeno di quel mondo a cui culturalmente (per cultura giuridica) ci sentiamo più vicini. Nel paese di Cesare Beccaria, si è dovuto attendere la “scontata” condanna della Corte europea per mobilitarci e tirare fuori dai cassetti del parlamento (dove giaceva da due anni) la proposta a firma di Manconi, per riattivare l’iter di approvazione della legge che prevede e condanna questo grave reato.
In Europa solo due paesi hanno subito questa vergognosa sentenza, la Russia di Putin e la Macedonia, due paesi che certo non brillano per valori democratici e per sensibilità ai diritti dell’uomo. Dico subito che dietro questo ritardo e l’inevitabile condanna europea, c’è tutto il pressappochismo italico e lo scarso valore dell’attuale classe politica. In un paese che è stato tra i primi a mettere in discussione e poi ad abolire la pena di morte, la previsione di un reato di tortura nel nostro codice sarebbe dovuto arrivare come un’ovvia conseguenza, così purtroppo non è stato.
La sentenza europea si riferisce, come ormai noto, ad una delle pagine più vergognose della nostra recente storia, quella dei fatti del G8 di Genova, quella tre giorni di follia, in cui una città si trovò a ferro e fuoco, preda dei Black Bloc e di una polizia che uscita di testa e mal diretta, finì il suo cattivo servizio, con l’assalto notturno ad innocenti manifestanti che dormivano ospitati in una struttura pubblica, ovvero nella scuola Diaz e con gli abominevoli fatti di tortura della Caserma dei Carabinieri di Bolzaneto, per i quali ancora si attende, a 14 anni di distanza, una sentenza definitiva.
Questa sospensione della democrazia, non ha avuto giustizia, gli allori responsabili politici e dell’ordine pubblico di quelle giornate sono usciti dal giudizio della nostra giustizia, liberi; gli esecutori di tali supplizi, non sono mai stati, anche per la condotta omertosa dei nostri servizi di sicurezza (altro motivo di condanna da parte della Corte), individuati, tanto meno i mandanti, ne sono state individuate responsabilità politiche, tanto che i protagonisti di quei giorni, in molti casi sono stati anche premiati con incarichi chiave nell’economia del paese; basta ricordare l’allora capo della polizia De Gennaro, che oggi è alla testa di una delle aziende guida italiane, la Finmeccanica.
Eppure, al di là di quell’episodio tragico e vergognoso, gli abusi della polizia e l’uso della tortura in Italia sono stati, nella nostra recente storia, ricorrenti e più volte vanamente denunciati. Senza voler risalire ai primi anni della nostra storia patria, possiamo rilevare, tralasciando il ventennio fascista che fece di quella pratica un uso ricorrente, che sia negli anni del separatismo, siciliano e altoatesino, sia nei cupi anni di piombo, furono denunciati episodi di vera e propria tortura, ma, ancora in tempi più recenti, vi sono stati analoghi episodi, messi in luce fra gli altri, proprio da Luigi Manconi, uno dei politici più sensibili al tema, episodi di torture conclusisi finanche con la morte dei torturati.
In un suo recente libro: “Quando hanno aperto la cella – ed. Il Saggiatore” si riassumono i diversi e gravi casi avvenuti in Italia negli ultimi anni. tra di essi i più noti mediaticamente; quelli di Stefano Cucchi ed Aldrovanti. Giovani uccisi dopo vere e proprie sevizie, subite in luoghi che dovrebbero garantire il massimo della sicurezza: caserme di Carabinieri e posti di polizia. Forse è il caso di ricordare che anche nella vicenda Cucchi, con scarsissimo senso dello stato, poliziotti e pubblici funzionari si sono coperti l’un l’altro con metodi omertosi di stampo mafioso, impedendo cosi alla magistratura l’individuazione effettiva dei responsabili.
Nell’ambito delle tante anomalie del nostro paese, che fatica a costruirsi una sua dimensione di normalità, queste vicende costituiscono forse i casi più eclatanti, l’espressione di una difficoltà nei rapporti tra forze dell’ordine e società. Un vulnus che va risolto, anche per il bene di quelle forze dell’ordine che in molti casi lavorano con grande spirito di servizio e con scarsi riconoscimenti, per le tante opere meritorie che mettono a segno in un paese che, in tutte le sue categorie, non fa della legalità il proprio pane quotidiano.
Un paese che vuole giungere ad una dimensione accettabile di democrazia non può più attendere le tirate di orecchie di organismi internazionali come la Corte europea (ci si ricordi anche il tema delle condizioni carcerarie nel nostro pese è, mi si consenta il gioco di parole, da sempre inevaso dalla nostra politica), o le ramanzine della stampa estera, come è avvenuto in tempi recenti e passati, l’impegno per la legalità deve essere una costante, dalla quale non si può sfuggire e non si può derogare. Un impegno che non ha bisogno di sfuriate demagogiche e/o populiste, a cui segue il nulla. In Italia bisogna imparare ad assumersi le responsabilità a tutti i livelli, dalla famiglia al governo, dal fisco, al lavoro, fino alle relazioni sociali, senza semplificazioni, ma con un senso di serietà, che nel paese che diede vita alla commedia, sembra ancora un traguardo lontano da raggiungere.
Nicola Guarino