“Mencarelli è tra i pochi privilegiati capaci di saper tradurre l’esperienza di vita in esperienza poetica. Un autore dalla parola forte e chiara come i messaggi che porta. Al poeta non servono giri di parole per dire ciò che accade intorno a noi, ciò che spesso siamo costretti a vedere, a sentire, impotenti di fronte a molto.” Le due raccolte di poesie di cui parleremo nell’articolo sono le ultime dell’autore: “Bambino Gesù” e “Figlio”, una discesa nel mistero della paternità.
Daniele Mencarelli nasce a Roma, nel 1974. Vive ad Ariccia. Le sue poesie sono apparse su numerose riviste letterarie e in diverse antologie tra cui L’opera comune (Atelier) e I cercatori d’oro (clanDestino). Le sue raccolte principali sono: I giorni condivisi (clanDestino, 2001), Guardia alta (La Vita felice, 2005). Con Nottetempo ha pubblicato Bambino Gesù (vincitore del premio Città di Atri, finalista ai premi Luzi, Brancati, Montano, Frascati, Ceppo) nel 2010 e Figlio nel 2013.
Conosco Daniele Mencarelli da diversi anni. La sua poesia mi ha sempre impressionato per la capacità di raccontare verità nude e crude senza falsi moralismi o visioni catastrofiche del reale, anche quando vuol mettere in contatto il lettore con problematiche sociali, esistenziali e contestuali di un certo spessore. E’ un autore dalla parola forte e chiara come i messaggi che porta. Non servono giri di parole per dire ciò che accade intorno a noi, ciò che spesso siamo costretti a vedere, a sentire, certo impotenti di fronte a molto. Mencarelli è tra i pochi privilegiati capaci di saper tradurre l’esperienza di vita in esperienza poetica, capaci di costruire versi usando anche termini tecnici e specifici di un qualche ambiente particolare. Lo fa con mestiere e semplicità dando il giusto ritmo musicale per tenere su il testo poetico, con andamento a volte da canzone, a volte da filastrocca, a volte lirico e a volte spietatamente realistico.
Le due raccolte di cui parleremo nell’articolo hanno molto a che fare con quanto detto e sono le ultime dell’autore. Evidenziamo subito che, tra l’altro, sono collegate tra loro dall’età protagonista dei testi, che è quella dell’infanzia, e che sono ambientate in suggestivi quanto reali contesti di vita. Il libro primo inusualmente in un ospedale, il Bambino Gesù di Roma, da cui prende il titolo il libro stesso; il secondo in famiglia, nel rapporto specifico in ciò che si crea nell’uomo che da figlio diventa padre. “Bambino Gesù” e “Figlio” sono editi entrambi da Nottetempo di Roma nel 2010 e nel 2013.
Bambino Gesù
Come riesce un autore a scrivere di ciò che incontra in un percorso di sofferenza, all’interno di un ospedale pediatrico dove si aggirano, con notevole frequenza, pazienti ricoverati per gravi malattie genetiche, o “da ultimo stadio”, bambini, adolescenti e genitori che vivono un’esistenza attaccata a un solo, esile filo di speranza che è quello di una miracolosa guarigione?
L’ospedale in questione è il Bambino Gesù[[L’Ospedale Bambino Gesù è il primo ospedale pediatrico italiano e nasce nella seconda metà dell’Ottocento grazie alla generosa iniziativa della famiglia Salviati. Siamo nel 1869 e a Roma, come nel resto d’Italia, i piccoli malati vengono spesso ricoverati, senza alcuna attenzione particolare, nelle stesse corsie d’ospedale degli adulti.]] di Roma. L’autore è Mencarelli che, per un tragitto della sua vita, ha lavorato come operatore sanitario (ma facendo di tutto) in quell’ospedale. E, lì, ha convissuto con il dolore, con la speranza, con quanto di più imprevedibile ci possa essere nella dimensione umana rispetto alla nascita e alle sue rappresentazioni fisiche, con la morte. Lì, si è relazionato con l’altrove, cercando di fuggire, a volte, l’incontro, cercando di trovare altre strade che lo portassero a non vedere, a non sentire, a non prendere consapevolezza di ciò che gli accadeva intorno. Ma tutto tornava, tutto lo voleva partecipe di quegli orrori di quelle facce funestate che lo lasciavano di pietra e se qualcuno gli diceva “Pure te, ci farai l’abitudine” non gli sembrava possibile abituarsi: ai piccoli malati/al pianto dei padri e delle madri/alle teste dei nati prematuri/ai corpi ordinati dentro le casse bianche/.
E Mencarelli infatti non si è abituato, ha continuato a soffrire con le madri e i padri, a identificarsi con loro, ad affezionarsi a quei piccoli corpi, a quelle menti avide di vita. Da poeta, qual è, ha raccolto dentro se stesso le immagini, gli umori, i sentimenti, i particolari di quell’esperienza per rendercela con il linguaggio della sua poesia.
Dove può arrivare a volte la poesia. Quanto può scavare nel profondo dell’animo umano e portare a galla infiniti mondi dentro di noi. Come sa resocontare meglio di tanti altri generi nella cristallina limpidezza della sua forma, se il poeta è un vero artigiano della parola. E Mencarelli lo è. Il libro, specialmente la prima parte che è quella che gli dà il titolo, si legge in un fiato. Come un reportage da un mondo noto eppure estraneo fino a quando non ti ci imbatti, non lo frequenti, non lo abiti: come quelle donne che arrivano come modelle, fasciate in gonne a tacchi alti e poco dopo le vedi sciatte, in ciabatte coi volti distrutti dal trucco e dal dolore per un figlio.
Sa dire Mencarelli di questo mondo, sa dare Mencarelli la sua visione: egli non è uomo di passaggio in quel luogo, uomo che lavora in quel luogo e che di quel luogo assume le abitudini, gli orari, le peculiarità, indifferentemente. No, egli è poeta che testimonia con la sua arte una realtà e dei sentimenti per renderceli ancor più veri di quanto lo siano, per far sì che un gesto, una parola, un pianto, una speranza diventino esperienza di tutti, accomunino lettore, autore e protagonisti in un sentimento universale di fratellanza nelle vicende umane.
Le altre due sezioni del libro, non meno coinvolgenti, rispecchiano momenti vissuti nel traffico stradale della metropoli romana con vicissitudini reali e suggestive e momenti del quotidiano in cui possiamo comunque ritrovarci. Ma i versi del Bambino Gesù restano incisi nella nostra memoria, fanno sì che ogni tanto ti venga la voglia di rileggerli, di riascoltarli risuonare nella mente, di farti ricordare quanto ci si possa mettere in relazione, grazie alla poesia, con quanto c’è oltre il nostro circuito breve di vita.
Figlio
Mi piace iniziare a parlare di questa raccolta con le parole dello stesso autore, che trovo esemplari per introdurre il lavoro: «Dopo “Bambino Gesù”, ecco “Figlio”. Sempre bambini, prima sconosciuti dentro un ospedale, ora concepiti dal mio stesso sangue. Figlio confonde i presenti con gli assenti, testimonia quante prove un padre e una madre devono passare, non dimentica le mani disamorate pronte al male. Figlio è l’attesa, della vita e della morte, della parola che esplode quando arriva. Figlio è darsi in pasto al prossimo.»
Ed è, infatti, questa la chiave di lettura dell’opera. E’ proprio con questo spirito ancora di sofferenza, di sopravvivenza al male ma anche al bene che va letto il libro. Un’ulteriore prova della bravura poetica dell’autore, un’ulteriore testimonianza di quanto la poesia diventi partecipe delle dimensioni più intime ed esistenziali, quando assume la forza portante di un autore che non si risparmia certo di fronte al sapere e al voler dire la sua, specie su questioni che da private assumono connotazione universale.
In Figlio vengono così raccontate, partendo in primis dalla dimensione di figlio verso il proprio padre e in ultimo verso la propria madre, le vicende di un uomo che si appresta a diventare padre e sperimenta, in questa sua qualità, varie forme di condizione possibile: da un figlio che nasce e in apparenza sembra ammalato di autismo, ad un figlio il cui parto non è portato a compimento, da un figlio che muore prima ancora di nascere, ad una figlia che ritorna a dare sorriso e speranza ai genitori. I quattro sopravvissuti, genitori e figli, vivono poi in assoluta simbiosi d’amore la conquistata pace e armonia, espressa con versi di una liricità assoluta e complessa che fa bene al cuore dopo tanto dolore, una liricità che ricorda i canti classici, le odi agli dei dei riti pagani, i canti cristiani di ringraziamento dove la zattera/arca/letto diventa mezzo di trasporto e fine per quella stessa pace, per quella stessa armonia che unisce in un unico destino: Un letto a due piazze/e quattro anime strette/fuoco di corpi che si scaldano/lasciandosi cullare, intrecciati sino a non capire/di chi sia il braccio come cuscino/o la mano sulla schiena che carezza,/fusi in unico destino/che fa della vostra la mia gioia/e il dolore il vostro pianto,/sangue nato dallo stesso sangue/che sfida il cielo aperto/su questa zattera a due piazze./
Fossero canti isolati avrebbero un senso lo stesso questi testi ma, uniti anch’essi da un unico destino ci danno la misura della cifra stilistica, narrativa, e potente della parola poetica di Mencarelli, una voce che non passa inosservata nel panorama poetico e letterario contemporaneo.
Alcuni testi da: Bambino Gesù
(padiglione S. Onofrio)
Lode al più grande artista vivente ****** Ma il peso di questa guardia
****** Avevo un pavimento da lavare
Non so se fu più forte
Per giorni m’accompagnò il dubbio
****** Alcuni testi da: Figlio Il tempo ti rende figlio
Padre di luce e potenza
***** Nicolò.
Un cuore che non c’era
******
Vigilia di Nicolò arrivi
Cinzia Demi P.S.: “MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani. QUI il link: http://www.altritaliani.net/spip.php?page=rubrique&id_rubrique=58. Chiunque volesse intervenire con domande, apprezzamenti, curiosità può farlo tramite il sito cliccando sotto su “rispondere all’articolo” o scrivendo direttamente alla curatrice stessa all’indirizzo di posta elettronica: cinzia.demi@fastwebnet.it
al suo genio alla sua opera immortale,
lode a quel ragazzino o ragazzina
che ha trasformato in arte pura
gli strumenti della quotidiana sua tortura,
un cielo fatto di azzurre mascherine
le nuvole di garza e ovatta idrofila,
le verdi chiome degli alberi
con il cotone della camera operatoria,
creati con tubicini trasparenti e colorati
gli uomini le case gli steccati.
Lode a te che davvero patisci la tua arte
non nei pensieri ma nel male della carne,
il tuo capolavoro è appeso fuori la cappella.
che tengo alta dalla nascita,
di questo posto di vedetta
da dove osservo e vigilo,
mi pesa come un mondo sulla schiena.
Uomo mascherato da angelo custode
con ali posticce l’aureola di cartone
senza miracoli nella cartucciera,
senza rimedio contro l’emorragia del tempo.
io che prendo tutto come una missione
anche questo lavoro da tanti disprezzato,
affrettai ancora di più la marcia
sul corridoio di marmo lucidato.
Andavo incontro a due ragazzi
il figlio in braccio mi dava le spalle
Loro ci giocavano e lui rideva,
gli fui davanti proprio mentre si girava,
perdonami per la durezza delle parole,
di un bambino aveva il corpo
ma il viso quello di un mostro
sotto gli occhi niente naso niente bocca
solo buchi di carne viva.
la pietà o forse il disgusto,
quasi correndo abbassai la testa,
ma già avevo la certezza
che di lì a poco l’avrei rivisto
per quel passaggio a me obbligato.
Persi tanto tempo nelle mie faccende
prima di andare mi augurai la loro assenza
poi via sul corridoio di marmo lucidato;
il caso me lo presentò ancora di spalle
ancora preso dai suoi giochi divertiti,
a farlo ridere così di gusto
non erano stavolta i genitori
ma un’anziana suora
distante un palmo dall’orribile viso,
vidi il sorriso di lei e le sue parole:
“ma quanto sei bello, che bel bambino sei”.
non riuscivo a crederla bugiarda,
poi una chiarezza si fece strada,
quegli occhi opachi di vecchia devota
guardavano un punto oltre l’orrore,
lì c’era solo un bambino che giocava.
accende la paura del domani
forze che si sfanno in un corpo non tuo
di vecchio arreso alla vestaglia
muto al terrore che niente rimanga.
del sacro spendersi
in lavoro e poi lavoro
stringi le tue mani di gigante,
senti quanta ancora ne possiedi
di forza per viaggiare nel futuro,
nel bene che hai creato, un’alba alla volta.
da oggi batte il mio tempo
ordina i giorni in una sola attesa,
nove mesi mi condurranno a te
farai di questo figlio tuo padre,
cosa di mio ti porterai in dote?
Non prenderti gli occhi
sempre troppo aperti sulle cose
che schiantano nervi, cuore,
eterni esordienti alla gioia, come al dolore.
piena d’agosto e luce
aria che avvampa sui paesi vuoti,
al nostro incontro poche ore
poi pelle toccherà pelle
al posto della tua immagine sognata
ci sarai tu in carne e aria,
d’improvviso vuota questa casa
dove s’attende il tuo respiro
il primo pianto d’amore al mondo,
che cominci tua vita nascitura
figlio dell’uomo rifai la mia storia.
Bologna, marzo 2015