Dossier tematico: 1914-2014 Raccontare la Grande Guerra: la voce degli scrittori.
Un contributo dedicato a Carlo Emilio Gadda. Opera antologica di riferimento: “Giornale di guerra e di prigionia” – con il “Diario di Caporetto”, Garzanti, edizione 2008. Un invito alla lettura di questa opera. Presentazione di Fulvio Senardi (Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione; co-curatore di questo Mensile dedicato al Primo conflitto mondiale). Ulteriori indicazioni bibliografiche per gli appassionati, studenti o studiosi.
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Disorientante e coinvolgente, fibrillante di invenzioni linguistiche nei momenti più estremi di ansia e di sfogo (tanto da aver fatto riconoscere a Guglielminetti un alter ego della scrittura, quasi per uno sdoppiamento identitario, in “Gaddus”, fonte di uno stile proprio e autonomo, di marcata torsione “comica”), quanto pedantesco – quasi da libro mastro di trincea – nei momenti meno mossi della vita del fronte, il Giornale di guerra e di prigionia (che Garzanti raccoglie in un solo volume insieme al Diario di Caporetto, sorta di indiretta apologia resa pubblica per la prima volta solo nel 1991) deve da un lato la sua fama al nome dell’autore, Carlo Emilio Gadda, dall’altro al fatto che nella sua scarsa rielaborazione variantistica, questo diario, uscito in parte postumo, appare capace di esprimere, più di altre opere simili ma più lungamente chilificate, fresche e penetranti osservazioni sulla vita di guerra.
Ingarbugliato «frammischiamento di fatterelli e tragedia» (p. 292), gliuommero (siamo da Gadda, ricordate?) che ammatassa invettive contro le operazioni mal condotte, esami di coscienza svolti sul filo di una lacerante insoddisfazione di sé, dichiarazione d’amore per l’Italia, e osservazioni più spietate che ottimistiche sullo stato delle faccende militari stilate a ridosso della linea del fuoco (dove Gadda domandò di essere mandato nel ’17, stilandovi un taccuino perduto nel dopo-Caporetto) il Giornale si premura di registrare, fra le tante messe a nudo di un’anima complicatissima di narciso scontento di sé e del mondo, alcune costanti assai diffuse della psicologia del soldato della Grande Guerra.
Ed è da questo che vorremmo cominciare, riservando al dopo, e quasi parenteticamente, qualche riflessione su Gadda uomo. Il primo elemento che colpisce, nelle note gaddiane, è l’incapacità da parte degli ufficiali di truppa (come del resto, e a maggior ragione, dei soldati) di cogliere il senso complessivo di vicende nelle quali operano da umili gregari, con obbedienza più o meno rassegnata. Non è assente la fiducia – ma quasi un atto di fede patriottica – nella sensatezza delle scelte dello Stato maggiore («di Cadorna non dispero: credo sia uno dei migliori», p. 116), ma manca ogni intelligenza dell’andamento complessivo delle operazioni.
Notevole il fatto che le notizie che Gadda registra relativamente al fronte russo nei primi due anni di guerra (per es. «sono sollevato dalle notizie della vittoria russa in Volinia», p. 105) mostrino una più marcata perspicuità strategica di quanto non emerga relativamente a ciò che accade sul teatro di operazioni dove è direttamente impegnato. Acquartierato col suo reparto sul margine sud dell’altopiano d’Asiago nei mesi della Strafexpedition l’informazione appare lacunosa, la percezione annebbiata, il giudizio ristretto a osservazioni di carattere minimo e soggettivo, come quando prende nota del ripiegamento austriaco dopo lo sforzo offensivo, in data 3 luglio 1916.
Scriveva Ernst Toller, della stessa guerra che combatteva con altra divisa, «siamo tutti viti in una macchina che si scaglia avanti e nessuno sa dove, che si ributta indietro e che nessuno sa perché […]». E Drieu La Rochelle, a proposito delle masse innumerevoli condotte al macello: «il bestiame più eroicamente passivo che la storia, guida delle greggi, avesse mai preso sotto il suo comando».
L’intelligenza umiliata si vendica, nel caso di Gadda, con severe e acute annotazioni di ordine tattico: «[…] Le ragioni dei nostri insuccessi nell’attacco […] da me intuite da tanto tempo, ben prima di venire al fronte. Noto le tre principali: dispersione nel tempo e nello spazio del fuoco d’artiglieria […]. Arresto dell’attacco di fanteria alla trincea espugnata […]. Pigrizia dei soldati italiani nel munire e nell’organizzare a salda difesa le posizioni occupate» (p. 153). Un modo di combattere del tutto congruo con i vizi e le virtù del fante italiano: «Le nostre fanterie sono buone: il soldato italiano è pigro, specie il meridionale: è sporchetto per necessità, come il nemico, ma anche per incuria: provvede ai bisogni del corpo nelle vicinanze della trincea, riempiendo di merda tutto il terreno: non si cura di creare un unico cesso; ma fa della linea tutto un cesso; tiene male il fucile che è sporco e talora arrugginito; disperde le munizioni e gli strumenti da zappatore […]; dormicchia durante il giorno mentre potrebbe rafforzare la linea; in compenso però è paziente, sobrio, generoso, buono, soccorrevole, coraggioso, e impetuoso all’attacco» (p. 114).
Del grande dramma di una guerra non voluta da soldati-contadini strappati contro voglia all’aratro e gettati d’autorità nelle trincee, Gadda però nulla vede e niente capisce. Sconvolto dal disinteresse per la guerra della popolazione milanese (forse solo apparente, aggiungerà) – ma come, a poche centinaia di chilometri dai luoghi della morte, ci «si diverte passeggia chiacchiera come se nulla fosse»? (p. 91) – si illude che il sentire degli ambienti popolari possa essere diverso («forse negli ambienti plebei, che io non ho modo di frequentare, la guerra è più sentita anche sentimentalmente» – ivi).
Prima che Delio Tessa dicesse, duramente, la sua, Gadda estende ingenuamente alla nazione tutta intera le proprie idealistiche motivazioni di mazziniano. Una sensibilità che ci è ben nota, perché condivisa da un gran numero di volontari giuliani. Del resto non sfuggirà ad un lettore attento la titolazione del quaderno che raccoglie le annotazioni vicentine e asiaghesi del 1916: «Guerra per l’Indipendenza – anno 1916». Parole che acquistano un doppio valore: in primo luogo nel senso di presentare la grande guerra europea come una quarta guerra di indipendenza (interpretazione assai cara al garibaldinismo, come dimostra platealmente la conversione all’interventismo del premio Nobel per la pace del 1907, Teodoro Moneta); in secondo luogo in accezione anti-tedesca, considerando il militarismo germanico una persistente minaccia alla pace, e postulando quindi la necessità di ridimensionare l’espansionismo gugliemino, in sintonia con convinzioni ampiamente diffuse a livello europeo (basterà pensare a come interpreti queste posizioni il più famoso romanzo della guerra, Il fuoco di Barbusse). Da qui la necessità, quasi una crociata latina, di fare muro contro la Germania, che, avendo lanciato una «politica di potenza mondiale», per dirla con Fritz Fischer, insuperato studioso di questa fase della storia tedesca (vedi Assalto al potere mondiale, Torino, 1965) «intraprende il commercio suo sul mondo, impadronendosi di tutti i mercati» (Gadda, p. 183).
Il nemico più insidioso è dunque il Kaiser ed il suo popolo, la cui lingua però, negli anni del conflitto, Gadda studia con applicazione certosina – ansioso di poter avvicinare, di prima mano, la grande letteratura tedesca – tanto da raggiungerne, alla fine della guerra, una competenza non da poco.
Tuttavia non si capirebbero gli umori, le insofferenze, i fastidi del giovane ufficiale, che si sfogano magari in giusti rilevi di carattere tattico e psicologico, se non si prendesse in considerazione il suo ombroso carattere da “punitore di se stesso”: ansioso di mettersi alla prova, e da qui la richiesta di un impiego in prima linea sul fronte carsico, va soggetto a momenti di «paralisi volitiva» (p. 75), ad attacchi di ipocondria, a soffocanti crisi di «orribile noia» (p. 57). Dopo la rotta dell’ottobre 1917, quasi a scontare un assurdo senso di colpa per il disastro italiano, lo rode un invincibile tarlo interiore: nell’«animo strangolato dalle giornate di Caporetto», nelle lunghe e soffocanti giornate delle prigionia, «sono», dichiara, «inquieto, nervoso […]: pensieri di morte e di desolato decadere si alternano con lampi di ricordi radiosi: rimorsi della mia condotta passata verso mia madre, verso la mia famiglia, con orrende bestemmie che mi lasciano poi istupidito e vuoto» (p. 338). In un gioco di travasi costanti tra conscio ed inconscio il suo animo si popola di ombre e di fantasmi: non cessa di pensare al fratello (al cui posto si era offerto all’abbraccio della morte: «io mi ripeto angosciosamente il voto già fattomi: che la guerra prenda me ma non mio fratello!» – p. 139), immagine idealizzata di come lui stesso vorrebbe essere, e alla madre, la cui figura affettuosamente rimpianta nasconde un vespaio di ambivalenze.
Finita la guerra, sul punto di rientrare nella vita civile, prova anch’egli, e in forma assai acuta, il disorientamento degli smobilitati, tanto che progetta di arruolarsi di nuovo, per poter ancora vestire la divisa e partecipare, secondo copione romantico, a qualche beau geste in territorio coloniale. Non se ne farà nulla. E anche il suo «libro di note» finirà per apparirgli un fardello inutile, un faticoso impegno da concludere prima possibile per non venir posto di fronte a quell’inamato sé che emerge da ogni pagina. Da concludere e da nascondere, visto che il Diario di Caporetto fu pubblicato non solo postumo rispetto all’autore, ma anche al suo affidatario, Bonsanti. Comincerà, nel silenzio della penna, quella lunga incubazione che darà ala al grande scrittore: «La mia vita è inutile, è quella d’un automa sopravvissuto a se stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali, senza amore né fede. Lavorerò mediocremente e farò alcune altre bestialità. Sarò ancora cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza e bruto per abulia, e finirò la mia torbida vita nell’antica e odiosa palude dell’indolenza che ha avvelenato il mio crescere mutando la possibilità dell’azione in vani, sterili sogni. – Non noterò più nulla, poiché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo. Finisco così questo libro di note. – Milano, 31 dicembre 1919. Ore 22. In casa» (p. 435).
ANTOLOGIA
Canòve, 12 settembre 1916
Scrivo il mio diario stando seduto al mio tavolino, mio per modo di dire, nella mia stanza dell’Albergo del paradiso, le cui imposte ho chiuso accuratamente; al lume della lucernetta a petrolio che trovai qui appena venuto.
Non sono mai stato al fronte tanto comodo. La sera è umidissima e fredda, avendo piovuto tutto il giorno. Ieri mi coricai verso la una di notte, dopo aver fatto parecchie ispezioni ai miei pezzi, dopo aver sparato parecchi colpi, e girato con Dellarole per le trincee di 2.ª linea, che né super giù la nostra. Vidi gli appostamenti delle altre sezioni; e degli appostamenti in costruzione; in genere però trincee deboli, fangose, non curate; soldati di fanteria al lavoro senza ufficiali, al comando di graduati o sergenti: lavoro non redditizio, lungo, fiacco, sbertolato.
Era una magnifica luna, ma io ero stancuccio anzi che no. Stamane mi levai tardi, mi mutai di biancheria cospargendomi di naftalina perché durante la notte alcune infami pulci, prese non so dove, mi avevano tormentato. Durante il giorno proseguii nel mio lavoretto di schizzo delle posizioni, dormii un po’ con qualche crisi di scoraggiamento e di sconforto. Verso sera tali condizioni dell’animo migliorarono; non interamente però; apersi le poesie del Leopardi, che da parecchi giorni non guardavo. Scrissi a Letizia, alla mamma e a una sconosciuta corrispondente dell’Ufficio Centrale delle Notizie per militari (Bologna, via Farini 3) per ringraziarla dell’interessamento avuto pel soldato Noris Giuseppe, fratello del mio attendente, disperso a Monfalcone. Il mio spirito pur nell’abbattimento che lo coglie tratto tratto in questa sua solitudine, e nella tristezza dei ricordi d’infanzia e d’adolescenza che vengono a pungerlo come la visione d’un bene perduto, è illuminato talora dalle speranze dell’opera futura la quale gli pare oggi meno incerta che in certi giorni della pre-guerra; poiché se la possibilità della morte utile e bella rende precaria la possibilità del lavoro avvenire, tuttavia le ragioni interne di speranza sono aumentate notevolmente dal 1913 a questa parte.
Il desiderio e la passione dello studio, dell’analisi e della indagine, della creazione conclusiva, del lavoro proficuo alla gloria della nazione e alla sua saggezza, sono cresciuti (nel senso puramente psicologico della parola, intesa come esuberanza di energia spirituale), la equilibrata norma del pensiero e della vita è un po’ aumentata.
Quanta trepidazione anche in me per le sorti di Venezia! Questa città, a me sconosciuta ancora, racchiudente la fortuna della nostra fioritura artistica in così cospicua somma, è un soggetto di preoccupazione intensa per la mia mente appassionata alle magnificenze della pittura: specie della nostra pittura classica, il cui magistero si direbbe oggi scomparso dal mondo. Io vedo la divina città esposta alla bassezza del furore nemico come Ruggero vide Angelica bianca e nuda esposta alla fame dell’Orca, mentre il flutto dell’oceano artico le lambiva i piedi marmorei.
Talora, pensando alle modalità della presente guerra, da me sempre giudicata come una necessità, senza declamazioni filantropiche, e non per un concetto esclusivamente deterministico (il determinismo è una delle migliaia di norme del mio giudizio) ma anche secondo il concetto dello “sviluppo storico” [[Lo sviluppo storico p. e. secondo l’idea dello Stuart Mill: associazione a difesa di unità sempre maggiori, fino al “conglobarsi” finale di tutte le unità etniche. – Canòve, 12 settembre 1916. (NOTA DI GADDA)]] così detto, e anche secondo l’altro della “lotta per vivere”, e secondo un altro ancora della “brama tedesca” ecc. ecc.; talora vedo in questa guerra un pervertimento di alcuni valori, che ormai sembravano conquiste sicure dell’umanità, il quale segni oscuramento e decadimento. Il giudizio in questo senso è però tutt’altro che definitivo. La chiacchiera mi ha portato a Cinisello, donde tornerò notando l’andamento della nostra linea, che ancor non ho fatto con sufficiente cura. Nel settore della Brigata Forlì essa decorre sul ciglio dell’Assa: parlo della 2.ª linea o linea di resistenza: è la trincea di cui ho parlato nel diario d’oggi: in parte è anche blindata, in cemento armato, ecc.
Ma sul nostro fronte (parlo di quello della detta Brigata) siamo anche con una linea intera sulla destra (riva settentrionale dell’Assa) sotto le posizioni nemiche.
Questa linea, mentre non ha un grande valore tattico in guerra difensiva, ché anzi espone la guarnigione al lancio di bombe dall’alto per parte degli austriaci, può servire però come approccio: inoltre sorveglia meglio le eventuali pattuglie nemiche ed è sempre un più diretto contatto col nemico: ed io credo che, salvo eccezioni, nella guerra moderna il contatto strettissimo col nemico sia sempre un vantaggio: esso impedisce bombardamenti con grossi calibri delle artiglierie nemiche, possibilità di escavazioni sotterranee e mine improvvise, ecc. Si può sorvegliare più da vicino i preliminari tattici di un attacco (rumori, trasporti, ecc.: distribuzioni di bombe fra gli attaccanti, ecc.); e inoltre (e questo è un vantaggio enorme, specie per noi italiani, facili alla trascuratezza) il contatto massimo costringe a lavori di apprestamento a difesa serii ed intensi, a una sorveglianza notturno seria ed efficace, perché chi ha in gioco la pelle dorme meno (non dico: non dorme del tutto).
Certo coloro che tengono la destra dell’Assa compiono un servizio duro: ma se il Comando non ve li tenesse sarebbe egualmente accusato, da altri, di debolezza e dappocaggine: perché questi altri sono esigenti, tanto più, quanto più lontani da quel servizio.- [pp. 184-185]
Celle Lager, 31 luglio 1918
[…]
Il colonnello Cassito (capo blocco), e il generale Fochetti, di cui Tecchi è l’ufficiale d’ordinanza, ci hanno spesso onorato della loro presenza. In quei momenti un’allegria fittizia, ma sincera e cordiale, s’impadronisce dei più: è impossibile costringere la vita di tutti in un cerchio di dolore, tanto più che il dolore ha cause, manifestazioni e gradazioni diversissime nei vari individui; chi soffre per la moglie e i figli, chi per gli interessi rotolati a catafascio, chi perché non ha viveri, ecc. ecc.
Invece la serenità famigliare è un fattore comune dello spirito, in certi momenti avidamente cercato. Mentre nel dolore non ci comprendiamo, (io sento di odiare chi soffre per la mancanza della vita comoda e quieta; e questi se sapessere ch’io soffro di manìa guerriera, mi odierebbero), la gioia moderata d’un’ora tranquilla ci avvicina e ci accomuna. [p. 367]
[…]
Ultima e ignobile attività dei baraccani, dico ignobile nel senso bonario, è la manìa poetica che ha tutti colpiti coloro che si trovano nella immediata possibilità di far versi. Da questa possibilità io sono escluso, perché la mia paralisi spirituale me lo vieta in modo assoluto: già tanta difficoltà trovai nei momenti più felici e più intensi di vita; ora ogni attitudine è scomparsa, come è scomparsa la fierezza interiore, ecc.
Si leggono così sonetti, motivi vecchi e nuovi, futurismo, roba carducciana, satire sulle poesie altrui, satire sulle satire, poesie dei satirici, traduzioni dal francese, ecc. ecc. ecc. (p.368)
[…]
Ringrazio Dio con l’anima, d’avermi dato questo soccorso nell’orrore; di non aver voluto aggiungere alla sventura il martirio della “compagnia malvagia e scempia”, che tanto mi gravò le spalle nella mia vita militare; d’avermi dato il conforto di compagni buoni, onesti, intelligenti, sani, il cui ricordo non mi sarà doloroso e amaro; le loro varie buone qualiltà, che in alcuni sono ferme virtù, mi conducono anche ad umiliarmi della mia ignavia, della mia debolezza contro il dolore, della mia meschinità fisica, della mia ipersensibilità, del mio chiuso orgoglio. D’altra parte mi cresce l’odio livido, immoderato, senza fine in eterno, contro i cani assassini che hanno consegnato al nemico tanta parte della patria, tanti dei loro, tanti anni della nostra vita: contro quei cani porci con cui mi fu d’uopo litigare in treno, negli orrendi giorni del primo novembre, affinché non cantassero, mentre i tedeschi invadevano il Veneto, che essi avevano loro messo nelle mani. Cani, vili, che mi hanno lacerato e insultato, possano morir tisici, di fame: sarebbe poco. Ne conosco alcuni: se li vedessi morire riderei di gioia. Li odio ben più dei tedeschi; vorrei essere un dittatore per mandarli al patibolo. (p. 375)
[…]
Fulvio Senardi
Opera di riferimento:
- Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia – con il “Diario di Caporetto”, Milano, Garzanti, “Collezione Elefanti”, I ed. 1992, qui 2008.
Bibliografia generale:
- Aldo Pecoraro, Gadda, Roma-Bari, Laterza, 1998.
- Christophe Mileschi, L’écriture comme un champ de bataille, Grenoble, ELLUG, 2007.
- Rinaldo Rinaldi, Gadda, Bologna, il Mulino, 2010.
Bibliografia specifica:
- Marziano Guglielminetti, Gadda/Gaddus: diari, giornali e note autobiografiche di guerra, in A. Andreini e M. Guglielminetti, a cura di, La coscienza infelice. Carlo Emilio Gadda, Milano, Guerini studi, 1996.
- Antonio Daniele, La guerra di Gadda, Udine, Paolo Gaspari editore, 2007.
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