Governo nuovo. Il dopo referendum per andare al voto.

Il referendum è stata un’occasione mancata per rinnovare il Paese. Crisi e soluzione della stessa lampo con Paolo Gentiloni nuovo presidente del consiglio per un governo che ci traghetti al voto. Ma è ancora tempo di analisi sugli scenari che si aprono dopo il 4 dicembre. Hanno prevalso gli interessi e i rancori politici che hanno vanificato l’ennesimo tentativo di riformare la parte seconda della Costituzione. Ora tutti vogliono il voto, ma quali sono gli scenari possibili e com’è il quadro politico del Paese?

Questo referendum, nei suoi risultati va analizzato bene, perché ci dice alcune cose interessanti. Il primo dato è la netta vittoria dei no. Uno scarto di 20 punti non puo’ lasciare equivoci. L’aveva capito già con i primi Exit Pol lo stesso Renzi che, in linea con il personaggio, non ha perso tempo dichiarando subito la sconfitta ed assumendosi la responsabilità della stessa.

Va capito quindi, a distanza di più di una settimana, che cosa c’è dietro questo 60% e dietro a questo 40% che ha sostenuto viceversa il Si.
Per una volta i dati delle più importanti società di sondaggio e di rilevamento statistico sembrano consegnarci un’interpretazione pressoché univoca dei dati.

La grande affluenza, era tempo che non se ne vedevano tanti di votanti finanche nel sud Italia, dimostra che gli italiani avevano voglia di esprimersi e del resto la campagna è stata martellante, con toni spesso indemoniati. Sui social, da settimane, si faticava a non trovare un video, una foto, un post che non parlasse di “Si” e “No”.

Tuttavia, appare difficile, anche sulla base degli studi e delle analisi dei flussi referendari, credere che dietro al voto ci fosse il semplice scontro tra innovatori e conservatori della seconda parte della Costituzione. Certamente ha pesato la personalizzazione che il premier, sbagliando, ha posto a sostegno di una riforma che, pur avendo conseguito il 57% dei voti parlamentari, era stato per due anni tema di divisioni e conflitti anche duri. Malgrado la condivisione della destra per la formazione della riforma e 122 emendamenti (molti dell’opposizione) che avevano modificato il testo iniziale, il momento della verità del voto popolare ha messo in scena due Italie. Una cosa che era plasticamente desumibile dalla semplice lettura del dibattito sui social.

Ad unire il fronte del no c’era un coacervo (spero che il termine non suoni offensivo) che univa tutto e il contrario di tutto dai populisti di M5S e Lega Nord ai partigiani (o meglio gli organismi dirigenti dell’ANPI) ai fascisti di Casa Pound, dalla destra “moderata” ed europea di Forza Italia agli antieuropeisti di Fratelli d’Italia, dal sindacato CGIL e la FIOM di Landini alla minoranza del PD (ma solo d’alemiani e bersaniani che sono gli azionisti di maggioranza di quei sindacati) alla residuale minoranza extraparlamentare fuori uscita dal PD.

Obbiettivamente, malgrado il concorso dei radicali, degli alleati di governo e qualche intellettuale di destra, il si s’incarnava nel processo di rinnovamento della politica rappresentato da Renzi e dal nuovo PD. Anche per questo era difficile che il referendum non si personalizzasse nella figura del leader fiorentino.

La previsione di D’Alema si è avverata ed il si ha raccolto consensi tra i cittadini di età superiore ai 50 anni e tra i pensionati, mentre i giovani hanno votato in massa per il no e la fascia tra i 35 anni e i 50 ha registrato maggiori consensi per il no e maggiori astensioni dal voto (fonte Soc. Quorum di TG Sky 24). Tra le fasce più deboli economicamente i no sono stati prevalenti, come tra gli imprenditori. Ma il si va molto meglio in quella che un tempo era definita classe media e, come detto, tra i pensionati. Il no prevale nettamente nel sud Italia, mentre il si vince nelle “rosse” Emilia Romagna e Toscana e nella regione autonoma del Trentino Alto Adige. Nelle grandi città prevale il si (non largamente) a Milano, Firenze, Bologna, mentre soccombe pesantemente a Napoli, Roma, Cagliari e in generale nei capoluoghi meridionali.

Contrariamente alle aspettative del governo, come dimostra lo studio della società Ipsos, confermata dagli studi della società di Ilvo Diamanti, la destra e anche gli elettori dei partiti di centrodestra che sostengono il governo hanno votato massicciamente per il no ed estremamente fedeli all’indicazione di Grillo sono stati anche i sostenitori dei 5 stelle, che pure hanno votato convintamente per il no.

Anche gli studi sui social e i flussi di condivisione dei post, davano la chiara percezione che i no avrebbero dilagato. Infatti, i loro post erano quattro volte più condivisi di quelli favorevoli alla riforma costituzionale.
Colpisce che al 41% dei voti per il Si, l’elettorato del PD abbia fortemente contribuito. Si pensi che come rilevato nel predetto studio Ipsos, l’80% gli elettori del PD ha votato si.

Paolo Gentiloni

Su questo dato e su un altro vale la pena soffermarsi per capire come si compone la geografia politica del Paese, si allude a quel dato fortemente in controtendenza dell’elettorato italiano all’estero, dove hanno prevalso nettamente i si sui no. Cio’ pone delle domande su come sia percepita la politica del governo in Italia e all’estero. (…)

Partiamo proprio dal voto all’estero. I progressi (anche se non giganteschi) avutosi con il governo Renzi sono segnalati pressoché da tutti i dati economici. Aumento dell’occupazione giovanile, sostanziale riduzione delle tasse, l’aver finalmente fatto delle riforme come quella per la scuola, l’aver finalmente riconosciuto dei diritti come nella legge per le unioni civili, o per le lavoratrice madri o contro il caporalato, ed altre sono state interpretate all’estero come segnali di progresso. Va aggiunta la maggiore considerazione dell’Italia nel consesso internazionale cosa che è vista con favore dagli italiani all’estero.

Viceversa, in Italia la polemica politica è molto più calda, la stessa figura di Renzi suscita opposti sentimenti. Probabilmente, il suo arrivo era stato visto come il grimaldello per risolvere rapidamente le tante difficoltà del paese. E’ cresciuta una percezione della realtà che non tiene conto del fatto che le riforme, per sbloccare un paese dopo una stagnazione ventennale e nel pieno di una crisi economica globale lunghissima, richiedono tempo e naturalmente per molti, anche irrazionalmente, questo tempo non è contemplato. Il tutto sotto la pressione di un racconto quotidiano dei media che tende, per motivi di spettacolo, a drammatizzare più che a suscitare speranze. Siamo nell’era della post-verità e spesso i cittadini sono orientati, specie nel cuore dell’eterna polemica politica italiana, a riconoscere una realtà che più che fattuale è frutto di pregiudizi non sempre fondati e di manipolazioni sulle quali i populisti sono da sempre dei maestri.

Ma torniamo a questa massa di voti degli elettori del PD che si sono riconosciuti non solo nella riforma costituzionale, ma anche in un modello politico che lo sottintende e che avrebbe voluto spingere per una modernizzazione delle istituzioni politiche italiane, per una maggiore efficienza, per avvicinare l’Italia ai modelli considerati più avanzati dell’Europa e che probabilmente mantiene, non senza spirito critico, una sua posizione europeista.

Va aggiunto che se il No alla riforma, va considerato come un no anche se non soprattutto al premier Renzi e al suo modello di politica, appare difficile non considerare che dietro a quel Si, specie dei sostenitori del PD non vi sia un’adesione proprio a Renzi e al suo modello. Lo stesso Diamanti rileva che la percentuale del Si corrisponde in grande misura ai consensi (clamorosi) che il PD di Renzi raccolse in occasione delle elezioni europee. 41% fu allora, 41% è oggi. Con una differenza che al referendum il Si ha raccolto oltre due milioni di voti in più rispetto al PD delle europee. Probabilmente frutto del concorso dei piccoli (numericamente) alleati al PD in questo referendum e di voti fuoriusciti da altre aree politiche e di consenso.

Questo vorrebbe dire che la divisione politica verificatasi il 4 dicembre, corrisponde pienamente ad una divisione che vi è nel Paese, dove da una parte, c’è un tentativo di rinnovamento della politica per giungere ad una transizione democratica verso la terza o forse vera seconda repubblica a cui si contrappone l’insieme delle forze conservatrici e populiste che a questo progetto, per diversi motivi si contrappongono.

Certo, occorre non semplificare troppo il senso dei dati elettorali e referendari, dietro i quali vi sono sempre diverse e contraddittorie motivazioni, ma appare evidente che da un lato c’è un progetto politico che corre sul filo dell’europeismo, su una visione liberale e sociale per il futuro del paese, che mira alla sburocratizzazione, al meno tasse ma più diritti (come dirà nella sua direzione Renzi), dall’altra parte il coacervo di forze conservatrici e populiste penano ad esprimere una visione chiara e definibile per il futuro del Paese.

In quel 60% di no ci sono molte cose. Una delusione verso Renzi, a cui forse si chiedeva troppo, dopo venti anni di nulla della politica italiana con una stagnazione economica protratta oltre ogni ragionevole possibilità e poi una crisi economica mondiale che a breve “festeggerà” i suoi dieci anni. Con una sinistra che per tutto il periodo berlusconiano si era dimostrata assolutamente inadeguata per proporre alternative. La Lega e M5S (i populisti) sono abilissimi a cavalcare la contestazione contro il governo o i governi (compreso Monti e Letta), eccellenti nel facile sport dell’opposizione, ma non appare chiara quale sia il loro progetto di governo e quello che emerge dalle loro intenzioni appare pericolosissimo, come quando si propongono l’uscita dall’Euro se non peggio, l’uscita dall’Europa. Quando come la Lega propongono di alzare muri per impedire i flussi emigratori o come nei grillini che cambiano nella loro “liquidità politica” a giorni alterni posizione politica o di proposta.

L’ultimo “capolavoro” di Grillo è stato proporre di andare al voto con l’Italicum dopo averlo definito per mesi una legge fascista e che andava soppressa “in culla” prima ancora di essere provata.

Forza Italia appare una forza politica erosa da mille ambiguità. A partire da un leader che mantiene il suo appeal su una parte degli elettori, ma che non ha costruito una sua classe dirigente, che ha sistematicamente eliminato i suoi “delfini”, fino all’ultimo, Parisi, che sembrava avere delle buone credenziali per porsi alla guida di una rinascente destra. Altra ambiguità è quella di sedere con i Popolari europei ma al contempo di aspirare ad un’alleanza con la Lega che pretende di uscire dall’Europa. L’aspirazione moderata di Berlusconi cozza duramente con il suo persistere a cercare di unire la sua forza politica con gruppi xenofobi, lepenisti e post fascisti come la Lega appunto e Fratelli d’Italia.

Dietro questo 60% c’è certamente un insieme rancoroso e disperato, che fatica a riconoscersi nella politica, che ha perso ogni senso dello Stato, tanto da non voler o poter accogliere un referendum che avrebbe arrecato indubbi vantaggi al Paese. La negatività di questa folla senza più speranza non avrebbe mai potuto offrire il senso positivo di un si. Tuttavia il PD, che paradossalmente esce rafforzato da questo voto, non deve innamorarsi di questo dato e deve costruire un dialogo con i cittadini, un dialogo che non indispettisca. Galli della Loggia dal Corriere consigliava, opportunamente, a Renzi di non eccedere nei messaggi sul tutto che va bene, mi permetto di aggiungere che mediaticamente non è utile ostentare i rapporti, necessari per un capo di governo e segretario del primo partito in Italia, con Grandi uomini di impresa come Marchionne o con noti bancari, la gente è ormai sensibile ad alcune figure e fa presto a far lavorare la parte più irrazionale di sé.

Matteo Renzi

Al contempo il PD deve procedere subito anche ad un rinnovamento nei territori, lavorare con la sua base, per fare questo diventa ineludibile che si metta fine all’equivoco di due PD in lotta fra loro sotto lo stesso tetto. Non sono conciliabili un PD teso al rinnovamento della sinistra, alla modernizzazione del Paese con uno rappresentato da Bersani o peggio D’Alema che mantengono una visione conservatrice se non decisamente reazionaria.

Renzi, che è coerente (merce rara in politica) non sarà del governo che è passato a Gentiloni, un uomo che ha una splendida biografia, che ha chiesto a tutti partiti di dare una mano al governo nascente per fare una legge elettorale e il necessario per i terremotati e pochi altri impegni.

Naturalmente, dopo aver detto continuamente che se vinceva il no, non accadeva nulla e che ci si sarebbe seduti ad un tavolo per fare una nuova legge, come al solito, i populisti (Salvini e Grillo) hanno fatto marcia indietro evitando di assumersi responsabilità, almeno Berlusconi pur dall’opposizione si è dichiarato disponibile per la realizzazione di una nuova legge elettorale. Tocca ancora una volta al PD di cantare e portare la croce per il bene del paese.

Gli studi del voto, in testa Diamanti, dimostrano che chi ha votato no, voleva semplicemente dire no a Renzi ma non ha voluto dire Si ai partiti che quel no sostenevano, forse ad eccezione dell’elettorato grillino, che ancora sembra credere ed accontentarsi di sostenere una robusta forza di opposizione, ma che probabilmente prima o poi dovrà domandarsi sulla capacità di Grillo e dei suoi di essere forza di governo, specie considerando che il maggioritario, a questo punto, sembra archiviato e che con il proporzionale difficilmente i grillini (che rifiutano qualsiasi intesa) potranno mai governare.

Tutto questo spiega la fretta di Renzi e i suoi di andare al voto. Il braccio destro del premier uscente, Lotti, dice che bisogna ripartire da questo 40%, che se fosse confermato direbbe che il PD resta la prima forza politica in Italia. Personalmente, io insisto il punto non è il 40, ma quel 60% che cerca risposte e che sta perdendo anche le domande.

L’errore che non deve fare il PD è quello di piegarsi alla ragion di Stato, di tirare avanti fino alla fine della legislatura, occorre fare il necessario come ha spiegato accogliendo l’incarico il neo premier Gentiloni, fare una legge elettorale, senza attendere il 24 gennaio e la decisione della Consulta, una legge omogenea che favorisca la stabilità dei governi e la rappresentanza (si potrebbe ripensare al Mattarellum), e di andare al voto senza esitazioni. Ogni giorno regalato ai populisti costituisce un pericolo per la democrazia, una minaccia per l’Europa e per la libertà.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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