“Perdersi in una lontananza infinita”. Pirandello e la fuga dei suoi personaggi

Parte 2 di “Il viaggio come ricerca di sé. Pirandello e la fuga dei suoi personaggi”. Nella narrativa pirandelliana ci sono alcuni personaggi, i cosiddetti “viaggiatori immaginari’’, che proiettano sulle rotte di un viaggio, che cercano attraverso i finestrini di un treno, una loro dimensione diversa. Dalle novelle “Il viaggio” e “La carriola” fino al romanzo “Suo marito”, gli itinerari di uomini e donne tra fuga dal presente e dalla quotidianità e ricerca di una nuova – e più autentica – identità.


Link alla parte 1: Il viaggio come ricerca di sé. Pirandello e la fuga dei suoi personaggi
Da L’“Umorismo” alla novella “Il viaggio”.

I VIAGGIATORI IMMAGINARI

NE LA CARRIOLA E SUO MARITO

Il protagonista di un’altra novella, La carriola, così come Adriana Braggi ne Il viaggio, della quale ci eravamo trovati a riflettere nella prima parte del presente articolo, di ritorno da Genova per un viaggio di lavoro, si ritrova a vivere quelle stesse sensazioni di intenso lirismo nell’ammirare il paesaggio che gli si apre fuori al finestrino del treno sul quale sta viaggiando:

Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato.

Leggendo queste parole, torna alla memoria l’eco de L’infinito di Leopardi: l’espressione «lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi» sembra riassumere il senso più profondo del verso leopardiano «io nel pensier mi fingo»
[[Giacomo Leopardi, L’infinito, in Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, Roma, Newton, 2010, pag. 120.]], ossia lo spazio, limitato visivamente da quanto l’occhio riesce a vedere, appare al protagonista infinito, in virtù dell’immaginazione che lo porta a illudere i limiti del panorama che gli si apre di fronte, tanto che alla sua vista si concedono «interminati spazi» e, in quell’illusione, il suo pensiero si finge, cioè fa sua quell’infinità, moltiplicando a dismisura le sue possibilità immaginative.

I due protagonisti delle novelle prese in considerazione illudono i limiti della natura che si trovano ad esplorare, immaginando quegli spazi come se fossero sterminati, attraverso un processo chiaramente illusorio che li porta ad alienare sullo spazio tutto quel che sentono dentro. Pirandello, dunque, ricrea sullo sguardo dei suoi personaggi il senso dell’infinito che sprigiona mirando l’“oltre”, ossia lo spazio che si apre dietro i limiti di quanto l’occhio fisicamente riesce a vedere e verso quanto lo sguardo, come capacità immaginativa
[[Si tratta di quella che lo stesso Giacomo Leopardi, in un passaggio del suo Zibaldone, si trova a definire come «vista doppia»: «l’uomo sensibile e immaginoso (…) vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono». (Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4418, in Op. cit., pag. 2382). Ed è la stessa che il medico, scienziato, la stessa che lo psichiatra dell’Analisi collettiva, Massimo Fagioli, definisce come “capacità di immaginar’’e che sorge alla nascita con la fantasia di sparizione, in tutti gli esseri umani.]], riesce a intuire.
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Lo scrittore d’Agrigento, così facendo, mette alla prova i suoi protagonisti, personaggi comuni, quotidiani, ossia «la gente più scontenta del mondo» [[Luigi Pirandello, Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Milano, Mondadori, 1954, pag. 7.]], stimolandoli a cercare tutto quel che «il guardo esclude» [[Giacomo Leopardi, L’Infinito, in Op. cit.]]. Non solo li allontana dal loro contesto, ma li costringe a curiosare su quell’oltre, su quell’altrove indefinito, che affascina e immediatamente spaventa. Ed è l’attrazione verso questo altrove indefinito, verso lo sconosciuto, il vero motore della dialettica che muove il flusso continuo, il fiume carsico, fulcro del pensiero umoristico pirandelliano. Detto in altri termini, il coraggio di chi lotta contro il congegno ordinato delle cose viene supportato da un processo di pura fantasia, poiché la possibilità di rendere la propria vita diversa si basa su una certezza illusoria che esista una diversità, di cui non si conoscono connotati e forme, pur avendo la certezza che tutto ciò da qualche parte ci aspetta.

Per questo i personaggi pirandelliani sono tormentati, perché sanno che oltre i limiti, di là dalle forme e dai falsi idoli, esiste un’altra realtà. Loro sanno che la loro vita potrebbe essere diversa, ma lo sanno fino a quando possono ancora immaginarla diversa, ossia fino a quando è rimasta in loro ancora un po’ di quella fantasia, di quella magia, il lanternino che è acceso in tutti noi da bambini, che ci consente di formulare un’immagine su quel che è stato e che, nostro malgrado, non è più, essendo la fantasia «una attività dell’uomo per la quale egli fa di ciò che non è, che non è più, che è scomparso, che si è allontanato, un qualcosa che è una immagine non materiale, una memoria» [[Massimo Fagioli, La marionetta e il burattino, L’Asino d’oro Edizioni, Roma 2011, pag.163. Fagioli ha formulato e ridefinito negli anni il concetto di fantasia come fantasia di sparizione che insorge alla nascita e come attività di rapporto che «fa di una inesistenza fisica una esistenza psichica. Di una non realtà fisica una realtà psichica». Luigi Pirandello nella sua vita di scrittore cercò in vari momenti di inseguire la fantasia e di rappresentarla, ricerca che nutrì l’intera sua carriera. Non potendo in questo contributo approfondire la questione, si rimanda al testo di Giovanni Macchia, La stanza della tortura, per un dovuto approfondimento sul concetto di fantasia nell’opera di Luigi Pirandello.]]. Se la fantasia si spegne, l’uomo impazzisce. Se ce ne è ancora troppo poca, è più facile adagiarsi alla mediocrità. Se invece si ha la forza di lottare contro i falsi idoli, i concetti, vuol dire che di fantasia ce ne è ancora tanta, vuole dire che è ancora viva quell’ “immagine non materiale, una memoria’’.

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Il caso, questo, anche di Silvia Roncella, la famosa scrittrice protagonista del romanzo Suo marito, la quale finalmente lontana dalla morsa stretta e asfissiante della vita coniugale, lontana da quel marito tanto ridicolo quanto cieco, finalmente sente vibrarle dentro l’infinito di tutte le cose e a tratti è spaventata da quanto riesce a sentire ora che dentro di lei potrebbe accadere di tutto, ora che la vita e la fantasia sono un tutt’uno e ogni cosa è investita da «vapori di sogno» e che ella oramai in quella «lontananza infinita» e «abbandonata a quella nuova sua sorte, o piuttosto, all’estro del caso, e ormai così senza più alcuna voluta consistenza interiore, l’animo suo poteva cambiarsi in un punto, rivelarsi da un istante all’altro capace di tutto, delle più impensate, inattese risoluzioni» [[Luigi Pirandello, Suo marito, in Tutti i romanzi, Roma, Newton, 2011, pag. 398.]].

In entrambe le novelle, come nel romanzo appena citato, si usa l’“infinito”, più che come concetto astratto, come aggettivo per descrivere la lontananza. Scrive Pirandello: «l’infinita lontananza». Quegli spazi, infatti, non sono solo sterminati, ma sono soprattutto lontani, irraggiungibili, lanciati in un vuoto che subito crea angoscia. Allo stesso tempo potremmo azzardare una seconda interpretazione di questa lontananza, ossia riferita a quel che si lascia, giacché la bellezza di ogni viaggio non è tanto quel che si va a cercare, quanto piuttosto l’angustia di tutto quel che si butta alle spalle e, se gli occhi possono tingersi di tale suprema visione di infinito, è perché si sono liberati dalle maglie soffocanti, dalla marsina che stringeva la vita di un tempo.

Tanto che, ne La carriola, novella appena citata, Pirandello descrive non solo il senso di infinita lontananza che apre il cuore dell’impiegato di ritorno da Genova, ma ne sottolinea anche la difficoltà per quello di mettere da parte gli impegni, la routine, i doveri, il lavoro, per lasciarsi andare alle proprie sensazioni:

M’ero portate in treno, nella busta di cujo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.

Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano.

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Pirandello, dunque, riconosce la possibilità a tutti gli esseri umani di poter realizzare questa pienezza, quest’esperienza creativa, questa sensazione che è pari a quella dei poeti, quella che si prova andando a curiosare oltre la siepe, sia che si tratti di scrittrici nel pieno del loro successo, come il caso di Silvia Roncella, ma lo stesso può accadere a una semplice vedova relegata in un borgo dimenticato dal mondo o a un semplice impiegato: «Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono agiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti»
[[Luigi Pirandello, L’umorismo, Milano, Garzanti, 2011, pag. 210-211.]].

Nel commentare alcune novelle, il critico Lucio Lugnani ha definito questi personaggi pirandelliani come dei «viaggiatori immaginari», ossia come coloro che compiono un viaggio, o magari no, ma anche nella semplice possibilità di vivere quello spostamento realizzano il senso della loro identità più profonda, fino a quel momento per loro sconosciuta.

Questa identità, diversa da quel che si era, nascosta dalle maschere che la società impone e invisibile per la maggior parte delle persone, si può ricreare allorché quel personaggio sia disposto a spostarsi, nello specifico ad allontanarsi dal nucleo dove questa oppressione ha avuto origine. Perciò, la ricerca di sé trova una metafora perfetta nel viaggio. Viaggio immaginato su una linea che tende verso l’infinito, poiché, scriveva Pirandello in un memorabile passaggio de L’Umorismo che qui riportiamo, l’uomo ha in sé possibilità infinite di realizzare uno scarto rispetto al passato:

Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono anch’essi illusioni, sono le condizioni dell’apparir della nostra individualità relativa; ma nella realtà, quei limiti non esistono punto. (…) I limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente[[ Ivi, pag. 207.]].

Dunque, se Pirandello concentrò gran parte delle sue pagine nel cercare di rappresentare l’identità umana più profonda, ora possiamo dire che quella ricerca fu tanto riuscita proprio perché essa non opponeva limiti alle sue possibilità. Lo scavo sulla psiche del personaggio è una lavoro che non si finisce mai di raffinare, mentre si tenta di ricreare sulla pagina quel movimento infinito, incessante, a tratti straripante, di ogni uomo che, guardandosi attorno, non si accontenta di quanto lo sguardo include, ma va alla ricerca di tutto quel che esclude, alla ricerca cioè di quell’altrove indefinito che si apre oltre la siepe, sotto le maschere e le forme, oltre i falsi idoli, in definitiva oltre i limiti del razionale.

Bibliografia:

– L. Pirandello, L’Umorismo, (1908), Milano, Garzanti Libri s.p.a., 2011.

– L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Verona, Arnoldo Mondadori Editore, 1954.

– L. Pirandello, Novelle per un anno, Milano, Garzanti, 1994.

– L. Pirandello, Tutti i romanzi, Roma, Newton, 2011.

Luoghi e paesaggi nella narrativa di Luigi Pirandello. Atti del Convegno di Roma, 19-21 dicembre 2001, Roma, Salerno, 2002.

– Massimo Fagioli, La marionetta e il burattino, Roma, L’Asino d’oro edizioni, 2011.

– Giacomo Leopardi, Tutte le opere, Roma, Newton, 2010.

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Ilaria Paluzzi
Ilaria Paluzzi è nata in un piccolo paese vicino al mare, in Abruzzo. Verso i 18 anni si trasferisce a Roma dove consegue la laurea in studi umanistici. Attualmente vive tra l'Abruzzo e il Lazio, tra ilmare e la città. Per diverso tempo ha collaborato con varie testate giornalistiche. Attualmente ha deciso di dedicarsi unicamente alla narrativa. Recentemente è uscito il suo primo romanzo, 'Riva', edizioni Bookabook. Collabora come autrice per la collana Dafni&Cloe, mentre lavora ai prossimi progetti. Nel 2016 ha ideato e curato 'Gente di mare', progetto editoriale itinerante. Oggi il mare continua a scorrere in tutte le sue storie, in un modo o nell'altro, come l'estate che mantiene vivo col suo profumo il più lungo inverno.

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