Solstizio di Deidier e il suo punto di declinazione esistenziale.

Uscito di recente (nel 2014) per la Mondadori “Solstizio” del poeta Roberto Deidier. Il suo sole metaforico, come dice il titolo, taglia le esistenze tra luci e ombre, in una sorta di accensione regolatrice delle attività umane, scandendo in una sorta di calendario dell’anima i riti e i movimenti del nostro tempo.

In un panorama italiano così disorganico e magmatico, nella mancanza di un sicuro orientamento che la critica attuale non sembra propensa a sollecitare perché poco incline alla ricerca che non sia occasionale o legata a celeri monitoraggi piuttosto che ad una cernita meticolosa, la poesia di Roberto Deidier risulta un esito singolare, tra i migliori degli ultimi anni.

Ci sembra che si possa senz’altro collocare in un intermezzo che non rompe affatto con la tradizione novecentesca e che non adotta neppure una tendenza sperimentale, ipermoderna, di tessitura sintattica. La forma è un effetto ciclico della sostanza di cui si nutre, di un’indagine visiva e immaginativa, che non si compie nella prassi gergale, ma nell’esperienza come strumento per mettere a fuoco, per dare un senso e un itinerario tracciabili.

Già il titolo dell’ultima raccolta, “Solstizio” (Mondadori 2014), si accorda con una fase fenomenica: come in astronomia il solstizio è il punto di declinazione massima del sole, questi versi sono l’irradiazione lungo una fascia di latitudini, di massime e minime altezze sull’orizzonte. Roberto Deidier impatta con un sole metaforico, con un’accensione regolatrice delle attività umane, in un calendario dell’anima nel quale confluiscono rituali e movimenti.

Roberto Deidier

L’atmosfera è colpita dai raggi di sole e dai tagli di ombra, e se l’io (o il tu, o il noi) si affaccia sulla superficie terrestre, figura una regolamentazione implicita, una meridiana del destino nell’affaccendarsi della gente comune, anche sconosciuta, vista di passaggio una sola volta.

Roberto Deidier (nato nel 1965) è un poeta colto, mai chiuso in una bolla che della scrittura faccia una sorta di vibrazione catartica ed autoreferenziale, tanto che ha dichiarato che la sua attività di critico e saggista è conciliabile con la sua poesia mediante la “schizofrenia”. “Quando faccio poesia (e accade quando vuole accadere, non sono un versificatore da tavolino), devo cercare di dimenticare l’eco dei poeti che amo e leggo e magari studio. Per esempio ogni tanto devo disintossicarmi da Penna, che con la sua bella musicalità ti entra nell’orecchio e non ti molla più” [[www.larecherche.it, intervista di Patrizia Stagnitta, 4 maggio 2012]].

Laureato in Lettere a Roma, alla Sapienza, il suo esordio avvenne nel 1989 sulla rivista “Tempo presente”, dove alcune poesie furono presentate da Elio Pecora, con cui instaurò un lungo e proficuo sodalizio. Nell’autunno di quell’anno, con gli amici Marina Guglielmi e Fabrizio Bolaffio, Roberto Deidier iniziò a pubblicare un piccolo quaderno di poesia, “Trame”, il cui titolo fu suggerito da Amelia Rosselli, prima lettrice dei suoi testi e prima collaboratrice della nuova rivista, che proseguì fino al 1996.

Nel 1999 Deidier approdò all’università di Palermo dove ha insegnato Letterature comparate e Letteratura italiana moderna e contemporanea. Dal 2014 è professore ordinario di Letterature comparate nell’università di Enna “Kore”.

“Solstizio” è una raccolta compiuta che segue l’apprentissage dei libri precedenti (tra tutti Una stagione continua edito da peQuod nel 2002), apripista di una poetica che si fonda sul lento vivere quotidiano, così come sulla memoria e sullo smarrimento, sulla passione rinvigorita o lasciata cadere, ma sempre con un tono placido, equilibrato, dove la dualità luce/ombra si innesta in un cortocircuito tra la percezione endogena e un riscontro esterno, depositato sulle cose.

Deidier conserva una sua cifra: quella pazienza, quell’imperturbabilità che non sono però il sintomo di un esangue ritratto, tutt’altro. La sua capacità di filtrare sta proprio nella placida compostezza con cui rielabora scrupolosamente ciò che accade, ciò che vede e sente. Nella bandella del libro è riportato: “Questo libro è un’opera al tempo stesso coerente e composita, che passa da brevi testi lirici ad altri di più ampia articolazione poematica, che osserva con sguardo acuto la realtà circostante, i luoghi e le città, leggendo il senso della vita come nelle declinazioni opposte del solstizio, e dunque nell’aprirsi dello splendore estivo e poi nel ritorno dell’oscurità invernale”.

Se luce ed ombra sono fulcri di questa poesia, la dimensione temporale e spaziale appare un’apertura verso la conoscenza e il dire. Deidier, in effetti, non si limita a circoscrivere tempo e spazio, ma aggiunge una reattività riflessiva. Ogni oscillazione del suo “Solstizio” diviene esortazione ad elaborare una volontà significante. Le virate del flusso immaginativo fanno pensare ad un noumeno, a qualcosa annidato al di là della facciata, oltre l’oggetto, dopo le cose. Tanto che Rinaldo Caddeo, disquisendo di
“Una stagione continua”, scrisse: “I nomi derivano da similari zone d’ombra e non si ritirano dietro le cose come nelle marine di “Stella variabile” di Sereni, ma le oltrepassano. Oltre l’inquieta obbedienza al corso delle correnti, delle insenature, dei porti di Saba, da cui occhieggiano discretamente i miti mediterranei”.

Ben presto Roberto Deidier ritorna alla religio dei fatti, allo svincolo per entrare nel segreto dell’accadere con un certo disincanto, tra vie, piazze, terrazze, marciapiedi ecc. E’ dunque il contingente che esprime il culmine dell’esperienza poetica, il punto di forza inesausto che viene inciso come il segno sulla lastra dell’acquafortista nel suo artigianale lavoro. Nell’accadimento circoscrivibile, il “Solstizio” di Deidier si rinnova nelle otto sezioni della raccolta, che si apre con una poesia tra le più rappresentative contenuta nella prima sezione,

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“La statua di sale”: “Sono fermo a metà strada e guardo indietro. / La vita, dove l’ho abbandonata, / Era disseccata come un tronco / Relitto dal mare e non ho conquistato / Una seconda città. Dalle piste / Ascolto guerre sempre lontane, / E lente corriere del benessere. / Sono fermo non so dove e non ho occhi”. Questo testo implica un’osservazione un po’ torbida, come se le macerie del mondo si rovesciassero sull’uomo, come se si fosse tutti spettatori di un male propagato, pur sapendo che il bene c’è come quella placidità alla quale istintivamente si tende.

L’oggettualità è minuta, composta da schegge visive, rarefatte, in un continuum che introietta gli oggetti, l’atmosfera notturna, l’ariosa sensazione che si effonde di stagione in stagione, ma anche una malinconica versione che capta il baluginare degli eventi, una risonanza lontana o vicina, che viene da un angolo espressivo che si incastona nella coscienza dell’uomo. Scrive Saverio Bafaro su “Capoverso” (2 marzo 2015) che “le cose attraggono il senso solo e mentre si intrecciano con la sfera umana. Non esiste un lascito metafisico dall’esterno, ma un effetto a volte più tangibile a volte più elusivo nella quotidianità dei vissuti”.

La solitudine del poeta afferra un contesto dimesso, affranto, che restringe l’obiettivo sul quale si delinea. Basta pensare a versi come: “Parlano, s’ascoltano in lingue, / Che non sanno comprendersi. / Ancora, nel traffico bloccato, / La cannula intubata alle narici / Del ragazzo investito, il riflesso / Azzurro dell’ambulanza sulle guance”. O ancora: “La notte filtra residui di colore, / Alle prime luci si ritrae la vita opaca: / Uno spiraglio segna il mio tracciato / Tra le porte, s’appartano le ombre”.

Deidier monta degli spezzoni come in una zoomata cinematografica, in un film muto che registra suggestioni, unità a se stanti, difficilmente riproponibili. La sua soggettività, come già detto, non assume mai una svolta personalistica, ma ritaglia un flusso con una lente d’ingrandimento. “Il sole scende dietro i piatti sporchi. / Il lavandino è un porto di liquami, / E nella penombra nuova / L’occhio inventa le sagome / Di chi un tempo è passato in queste stanze”. Il tempo è dunque ritratto, a testimonianza che lo sguardo nudo sa vedere dietro e prima, recuperare la pensosità, una spada nel buio del passato. I luoghi sono sì del presente, ma vivono a ritroso, impressi nella spremitura del ricordo, nella vaghezza del mai più, di ciò che purtroppo non torna se non per una ricomposizione allusiva. Questa poesia procede anche per sottrazione, perché il concetto di perdita non solo viene ammesso, ma risulta un richiamo e a volte perfino una seduzione. “Il passato è racchiuso in una scheda / E quella è la memoria, / Ordine del corpo e della stanza, / Un libro a posto nello scaffale pieno. / E per strada, non diventa ogni incontro / Già un ricordo, il marciapiede / Conduce a un numero, un numero / Qualunque…”.

Sono molti gli aspetti concentrici di “Solstizio”. Certamente una sospensione leggera dà impulso alla vita in ascolto. Ecco, Deidier è un poeta in ascolto. Fa nascere una contaminazione con l’altro e con le cose, spesso defilata, di chi sa attendere un amico, l’azzurro del cielo, la coda ferma sulla strada, la domenica della gita. Dal vocio, la “staffetta delle parole”, per usare un’espressione estrapolata da un testo tra i più belli (Mercurio), la fissazione degli ambienti, delle luci e delle ombre in alternanza, compongono una tavolozza nella sequenza da pellicola.

Le epifanie sono disvelamenti, buchi dai quali emerge una lingua leggera, ma non evanescente. Le tessere compositive di Deidier dispongono quello smalto esistenziale contro l’effimero susseguirsi dei fatti. Il dono della presenza si fa prospettiva, bisogno, mistero anche in un’apparente inutilità.

L’affermarsi rimane ancora attesa e sguardo, introspezione, racconto. “Dove più lontano campisce / Una finestra accesa / E una voce grida dabbasso, / Misuro l’ampiezza del buio invernale / Fino a toccarlo, fino a farlo mio”. Lo sguardo si rivolge in alto, al cielo senza stelle, di latte, alla scia di fumo nero, ad un rigore invernale o ad un calore agostano che distinguono campi magnetici per gli occhi, in una tensione che si pone sul limite di una nascita (l’alba, l’onda marina) e di una morte (il tramonto, il buio).

Un appunto dietro l’altro forgia la poesia di istanti dove le categorie della veglia, del sogno e della stessa visionarietà sono un mezzo necessario, tanto che la sezione La fossa dei leoni ne è completamente impregnata nell’attraversamento dei nomi celebri, di personaggi storici con i quali Deidier entra in contatto (quasi da archeologo ed escursionista, sottolinea Saverio Bafaro). Ma è la sezione Il secondo trapezio che fa pendere la poesia nella continua sospensione di chi cammina sul filo del rasoio, metafora di un pericolo e di un piacere, di un’esibizione della propria visuale immaginativa.

Sembra di trovarsi di fronte ad un incantamento, ad un’aerea di liberazione dalle oppressioni, ad un’iniziazione e ad un recupero di energia e vitalità, ad un moto di riflusso e ad un motivo di fuga dalla contingenza diurna e notturna. La poesia si corrobora di un certo piglio, acquisisce ritmo e si accende nel suo rovescio d’ombra: “Non capivo quanto fosse difficile / Quell’arte di giocare con le altezze, / Di passare da un vuoto a un altro vuoto / E farne corpo, fasci, movimento. / Così scorreva intera la sua vita, / All’inizio cercando perfezione / Poi per un’abitudine tiranna”. O ancora i bei versi finali del testo VI: “Ovunque ci dovessimo esibire / Insistevo a lasciare spalancati / Gli accessi e sgombri di tutti i corridoi: / La mia felicità cresceva quando / Lui saliva sulla scala di corda / Di nuovo sospendendosi dall’alto”.

Deidier intraprende un viaggio ideale e il trapezio è il collante tra il luogo dell’avvenimento e il luogo della parola, con un sentimento incisivo che unisce l’uno e altro aspetto. La voce del poeta e la tramatura di una storia rievocata sono al centro di uno spaccato esistenziale con metafore, espressioni figurate, simboli: “Non si calmava: Come faccio a vivere / Solo con questa sbarra tra le mani?”. Nel finale della sezione torna una tensione fosca, la preoccupazione per le sorti umane. Dietro il gesto atletico del trapezista si nasconde una gamma di azioni, una forza da dominare, un destino insito nell’individuo, e non di meno un dramma allusivo: “Me ne tornai a leggere il mio libro / Ma non ero tranquillo come prima: / Che quei pensieri non fossero stati / L’inizio di un tormento mai cessato?”.

Nella sezione Dieci poesie vissute a Palermo, il traino descrittivo consente a Deidier un’impennata lirica e un lascito fotografico: “Quando a una certa ora il pomeriggio / Filtra dalle serrande e con la luce / Grida allegre, scalpiccìo di rincorse, / Allora puoi pensare: questa è una città”. La natura dei versi attiene alla solita attesa e al solito sguardo delle prime sezioni.

Elio Pecora con Roberto Deidier alla presentazione di Solstizio.

Ma uno sfondo sognante, come di un uditorio personale, permette di cristallizzare le immagini e il sonoro su di un piano espressivo piuttosto efficace, intervallato da confessioni, considerazioni, quasi potesse essere l’avvio di un monologo, di una narrazione orale tra il concreto e il surreale. “Le botteghe del mercato sono grotte, / L’aria si fa più spessa tra le dita. / Il genio della piazza è quest’odore / Di spezie, frutta, carne rinfrollita: / Sotto i raggi incalza un nuovo sopore / Ma vociano tra i banchi, assale vita / Da questa piena che il mio sguardo inghiotte”.

Deidier si lascia andare ad un resoconto, vede e annota, introietta, e ogni verbo, ogni piccolo mondo, è un connotato da incasellare, un teatro di strada, una dimensione di quartiere. Del resto Palermo può essere considerata proprio una città nella città, snodo tra Occidente e Oriente, nota per la sua storia, architettura, gastronomia, punto di incontro nella versatilità dei popoli mediterranei. Il moto di queste poesie è parte di una realtà millenaria, di trasmigrazioni da una costa all’altra, di doppi regni, ma anche di vuoti urbani, del traffico del momento: “Viene dal corso un traffico che incalza, / Un peschereccio smuove le onde calme, / La gente senza fretta s’incammina”. “Un paesaggio d’altezze”, “l’alba del porto” e “un golfo stretto fra draghi dormienti” rifluiscono in uno spazio da riprendere nell’animata lingua di fuoco degli sbocchi cittadini.

Gli oggetti, come gli uomini, arrivano da una condizione preordinata, sono lanciati in una sorta di vuoto pneumatico, riempiti di aria e sospesi in una trasfigurazione, in un’accentuazione della vista e della visione del poeta. Deidier passa dall’osservazione alla veglia, ad una forza di rovesciamento specie nella sezione Derive di un tempo ordinario. “Rassegnato a una felicità sommessa / Alla calma infine raggiunta, mi porti / La sciagura dell’attesa, l’inquietudine / Della notte che si tramuta in giorno / E quale rabbia se il telefono non squilla, / Se muore la settimana senza te”. Oppure: “La dubbia sincerità dei ricordi / Come la luce sposta le ombre / Da una parte all’altra del giorno. / Il tavolo è ancora sgombro / E la sedia è vuota. / Nervosamente il cane del vicino / Sale e scende per gradini di metallo. / Ascolto le unghie”.

Tra soffioni, abiti, prati, vetri, tende, riflettori Deidier interseca le parabole del sentimento a quelle di figure interscambiabili in scene dominanti, diffuse. La cronaca dell’anima è un inno nella tagliente mobilità. Anche un sordido dolore avanza nel rapporto solidale ma non stabile, per cui l’unica possibilità di farlo rivivere è di ricordarlo: “Ti cedo la cosa più bella / Che ho. E mi sentivo come un santo / Nel ricevere offerte di fiori / In un giorno che non è la sua festa”. Quindi la sezione La fossa dei leoni: senza tempo, senza età, senza svincoli prettamente personali, in cui Abramo afferma: “Avevo appena appreso a dire il mondo, / A chiamare fiore il fiore, sole il sole / E luna e notte e tutta quella vita / che s’agitava nel fondo dei miei occhi / E non sapevo quanta poca fosse, / Quanto vero il deserto oltre il giardino”. In un’affermazione nell’affermazione, Abramo asserisce: “Sono colui che è assolto / Prima che sia pronunciata la sentenza. / Ma quando vedo aprirsi le mie pagine / Mi pesa addosso la mia più dura condanna”.

La volontà si presenta sotto forma di laica litania. La creazione dei personaggi apre una scrittura decisionista, con un principio sapienziale, ben calibrato. I toni sono quelli di un’annunciazione, come quando Mosè rivela: “Cos’altro potevo, se non salire fino in cima / Per allagare gli occhi di quell’acqua / Che a terra scarseggiava? / Quel paesaggio mi divenne un sospiro / Di voci confuse e pensai / Di ascoltarne una solamente. / Ma era il desiderio che parlava / Ho scambiato una musica per legge, / La prima musica del mondo”.

Molto bello il sogno di Elia, un tormento notturno nel quale l’ansia e il desiderio germinano visioni che superano ogni affanno, per cui tutto appare sotto l’eco di un mare in sommossa, mentre la guerra finale è ad un destino oscuro agli “inganni dello sguardo”, al serpente che rappresenta il maligno e al quale sottrarsi con un volo celestiale.

Da questi testi, che provengono dalla tentazione di tenere in bilico bene e male, ricerca, identità, tempi, piani e luoghi per oltraggiare il senso di finitudine, si passa ad un rasserenante e lirico prospetto con la penultima sezione, Amato sulla terra, dove viene recuperata la centralità dell’adesso, l’evento imponderabile, il reale e l’irreale, un volto confidente, una forma compositiva nell’orizzonte dei luoghi: “Dove vanno nel sonno le città, / Gli invisibili interstizi del cielo / Che catturano stormi e orizzonti, / E i popoli dell’acqua, come cessano / Le semplici funzioni della vita / E del suo rumore resta appena / Il lento roteare del pianeta”. Questa sezione è la migliore di “Solstizio”: qui Roberto Deidier svaria nel suo repertorio e ci propone una gamma di situazioni, descrizioni, fenotipi, con individui che abitano le tante stanze. L’interpretazione del fenomeno è un’apertura, una chiusa, un continuo mutamento di soggetti e oggetti, un interno, uno schema abitudinario o una trama paradossale: “Quanta fatica a nascondere i fatti / Che fino a tarda notte ci frugano / Lì dove restiamo spogli più che un pioppo / A dicembre, sotto un cielo in frantumi. / Le vite affannate non riscattano / Pazienze, saluti, messe a fuoco / Dolorose a ogni cambio di stagione”.

La luce dell’alba si alterna ad un cielo offuscato, al viaggio delle stelle lucenti o del mare nel moto perpetuo. Un punto cruciale è la domanda sui morti, sulla loro sorte, sul possibile ritorno o sulla “restituzione”, come viene definita. I defunti tornano a casa, quasi fossero gli stessi incrociati nei cieli curvi di Alfonso Gatto, in quei “venti d’anima” composti di volti e occhi. Medusa è la poesia che meglio incarna questa trazione: « … Non si può allungare la mano / Esitante fino a sfiorare le scaglie / Che riflettono una luce irreale, / E le lingue divise, rischiando i morsi / Comunque fatali e la repulsione / Ai lenti rituali della morte”. “Le pietre dei nostri occhi” stigmatizzano il patimento, il passaggio dal sottomondo della quotidianità alla parola eletta del divenire, appunto al dopo morte, allo smottamento non della storia, ma della condizione umana che si tramuta in altro sciogliendo il nodo del non detto. “La bocca dei morti è un pozzo sordo, / Una striscia di deserto nero”. Risuona un affermativo imperituro: “Ma la morte / arriva comunque, in differita / E l’onda salata ha lasciato sugli occhi / Una crosta, e alla pietà / Un silenzio duro, senza nostalgia”. E infine Musa, la sezione dove vengono ripresi tutti i temi precedentemente trattati.

Ecco alcuni dei vocaboli chiave che Deidier utilizza: passato, ricordo, distanza, silenzio, rumore, suono, fiato, stagione, volto, città. Compaiono “spettri acuti” e “aghi nella mente”. “Nel disordine del letto e in cucina, / Le volte che mi sveglio ancora presto / Non sentendo pigrizia né rancore / E indugio su una tazza scompagnata”.

Sandro Penna e Pasolini

Il linguaggio aleggia sulle cose, le alimenta di un ronzio, mentre le inquadrature delineano i contorni. Le persone si ergono sopra questo contatto in un infinito misurarsi con la partecipazione meditativa. La domesticità possiede ambiti accarezzati da un affetto invocato, da una fraternità propriamente poetica. Deidier sfida la dissolvenza con determinazione, con inserti poematici risarciti, talvolta, da una personale confessione. L’evanescenza del tempo, friabile e mai rimosso, segna la virtù di una forma essenziale, costruisce quella vitalità che consente la rinascita quando tutto, intorno, si dilegua.

All’interno dei componimenti il carattere della specificità concentra la scena, la rende una verità autonoma.

“Solstizio” si snoda nel luogo dell’assedio esistenziale, in un work in progress di memorie e presagi, con una forma sobria, mai privata di senso, seppure innestata in una lacerazione e in un punto di rottura, in un segreto palpito che proviene da fatti decodificati, da un ordine canonico stravolto. Ogni persona, con il poeta, si fa cellula e midollo, ed ogni attimo è un indizio, un reperto. Vengono in mente dei versi giovanili di Sandro Penna. “Notte: sogno di sparse / finestre illuminate. / Sentir la chiara voce / dal mare. Da un amato / libro veder parole / sparire… – Oh, stelle in corsa / l’amore della vita”. Direbbe Cesare Garboli che l’opera di Penna è una “riflessione sul desiderio”. Anche Roberto Deidier ha lo scopo di voler tradurre una specie di costrizione in una “numinosità narcotica” (per alludere ancora Garboli), in un sobbalzo volto a ricomporre, a ritentare la felicità.

Alessandro Moscè

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Alessandro Moscè
Alessandro Moscè è nato ad Ancona (Marche) nel 1969 e vive a Fabriano. Ha dato alle stampe le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro 2004), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali 2008, finalista al Premio Metauro), Hotel della notte (Aragno 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e la plaquette in e-book Finché l’alba non rischiara le ringhiere (Laboratori Poesia 2017). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. Le sue poesie sono tradotte in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano 2012), L’età bianca (Avagliano 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018).

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