La siciliana Avola nel racconto: Il cortile.

Erano anni, ormai, che non entrava in quel cortile. D’altra parte un cortile non è un luogo di passaggio, è uno slargo più o meno ampio la cui unica entrata è anche l’uscita e in cui si va di proposito.

Da quando erano morti i suoi genitori, e lui, sposandosi, aveva cambiato casa e città, non era più tornato ad Avola, nel cortile che era stato per lui la culla della sua infanzia, il parco giochi che aveva scandito i suoi momenti di spensieratezza, il campo di calcio con il terreno non ancora asfaltato che aveva ospitato per lunghe ore le sfide fra tre contro tre o cinque contro cinque.

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Quel cortile che già di primo mattino era animato dagli uomini che sistemavano sulle carrette gli attrezzi per il lavoro e più tardi sarebbe stato invaso da venditori ambulanti di mercanzia di vario genere e soprattutto si sarebbe riempito del ciarlare delle vicine di casa che, finiti i lavori domestici, avrebbero chiacchierato con le comari nell’attesa che si facesse mezzogiorno per cominciare a preparare il pranzo e l’odore della salsa o del sugo sarebbe trapelato attraverso i muri; quel cortile che già dal primo pomeriggio era pieno di ragazzi che, dopo avere trangugiato in fretta e furia il pranzo e fatto alla meno peggio i compiti, vi si riversavano per giocare in tutti i modi aspettando che arrivasse la sera per cenare assieme alla famiglia e ritornare poi a giocare alla luce dei pochi lampioni; quel cortile che il giorno 19 del mese di marzo diventava un territorio da custodire, uno spazio inviolabile, dedicato alla luminaria in onore di San Giuseppe, che ospitava una catasta di rami di ulivo da accendere la sera, magari gettandovi sopra del sale per farli meglio scoppiettare, e da difendere dagli attacchi dei ragazzi dei cortili vicini che volevano portare via le frasche o quantomeno incendiarle prima dell’ora convenuta; quel cortile che in estate, alla fine di luglio, a partire dal martedì di Santa Venera, e nel mese di agosto, era pieno di mandorle stese al sole ad asciugare e di piatti di pomodoro da essiccare; quel cortile che, quando fu asfaltato, si animava già alle tre del mattino per iniziare di nascosto dai vigili urbani la cottura del pomodoro accendendo il fuoco sulla sabbia sparsa sull’asfalto onde evitare che potesse essere danneggiato; quel cortile che ad autunno inoltrato si riempiva di zingari che compravano capelli, o meglio barattavano i capelli, che nel periodo delle castagne cadevano alle comari dalle loro folte chiome, con arnesi o masserizie di plastica, il tutto alla fine di lunghe ed estenuanti contrattazioni; già, quel cortile in cui la vita germogliava ad ogni momento non esisteva più, era scomparso, dileguato nel volgere di pochi decenni.

E se ne accorse un giorno di aprile, quando, avendo deciso di vendere la sua vecchia casa, vi condusse un probabile acquirente. Il cortile era vuoto, deserto, non c’erano più le carrittarie che avevano ospitato le carrette e gli animali, non c’erano più le porte ravvicinate delle varie abitazioni in cui si sentiva il respiro dei vicini, non c’era più l’odore del sugo messo a cuocere sui fornelli, non c’era traccia di biancheria stesa al sole ad asciugare su un filo sorretto da un’asse ficcata in una crepa del muro. Non c’era nulla che gli ricordasse il tempo passato, non una persona, non una voce, solo garage, saracinesche grigie, portoncini signorili in alluminio preverniciati, piani soprelevati, e nient’altro.

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Non stettero neanche a parlare del valore o del prezzo di vendita della casa, chiese invece all’eventuale compratore quali motivi lo spingessero all’acquisto di quella vecchia costruzione e, venuto a sapere che aveva intenzione di trasformarla in un ricovero per la sua automobile, gli comunicò che la casa non era in vendita. Già, non poteva vendere la sua vecchia casa per lasciarla diventare un garage anonimo con la saracinesca grigia.

Entrò. Alla luce fioca di un paio di lampadine impolverate appese a dei fili pieni di ragnatele, scorse le poche stanze vuote che non aveva dimenticato, la vecchia cucina con la tannura e soprattutto la sua stanzetta di una volta, un bugigattolo vuoto con degli oggetti sparsi sul pavimento. Riconobbe i suoi vecchi giocattoli: il tuppettu con la lazzata, il carramattu e la batteria musicale fatta con i fustini vuoti del detersivo e i relativi coperchi di latta.

Raccolse tutto e uscì fuori alla luce del giorno. Si ritrovò ad attorcigliare la lazzata attorno al tuppettu e con un lancio magistrale lo fece ruotare per lunghi minuti, era ancora bravo a maneggiare quelle diavolerie. Prese poi il carramattu, ne osservò i tre cuscinetti arrugginiti che fungevano da ruote, e iniziò il suo vagabondaggio per il cortile seduto su quella asse di legno cigolante, le mani sul manubrio e un piede sull’asfalto per darsi meglio la spinta e correre, correre e correre. Sistemò la batteria mettendo il fustino sottosopra, alla stregua di una grancassa, vi adattò il coperchio di latta, a guisa di piatto, e, non disponendo di bacchette, cominciò a percuoterli con le mani. E percuoteva e suonava, suonava e faceva rumore, e mentre suonava tutti i ragazzi che abitavano nei piani innalzati sui garage scesero nel cortile e si misero attorno a lui per meglio osservarlo e ascoltare il rumore che produceva. Chi era costui?

Salvatore Di Pietro

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