Italiani al voto! L’enigma della sinistra…..sinistra.

Ho votato, tracciando una croce, almeno un milione di volte. La prima, nel 1983. Elezioni legislative. A quel tempo io ero un ragazzo e c’erano la Diccì e il Piccì che erano i partitoni grossi grossi. C’era il Piessei che non era tanto grosso, ma con Bettino Craxi segretario voleva comandare lui e basta, pochi discorsi.

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Poi c’erano i partiti piccoli: il Pierreì, i Socialdemocratici e il Pielleì. Rispettabili ma che a me sembravano messi lì per fare numero. Un po’ come quando giochi a pallone e alla fine giocano anche quelli più scarsi perché bisogna arrivare a undici per squadra. E c’erano i Radicali che erano piccoli come risultati ma grossissimi per capacità di fare un casino, ma ve lo giuro, veramente incredibile. Io ascoltavo spesso Radio Radicale. Le litanìe, le giaculatorie di Marco Pannella, con il suo italiano perfetto e le sue citazioni alluvionali – Ernesto Rossi, Altiero Spinelli i nomi più gettonati – mi facevano lo stesso effetto di una canna. Con la differenza che erano gratis, legali, e (almeno a mia conoscenza) non procuravano danni alla salute. Poi c’era il Movimento Sociale Italiano che veniva chiamato l’Emmeesseì oppure, con una piccola licenza , “il MIS” – e quelli erano “i fascisti” e basta. Stavano lì per la stessa ragione per cui nei film western ci sono i cattivi.
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Sono andato a votare al seggio e ho tracciato la croce in alto a sinistra: Partito Comunista Italiano. A dire il vero, io non mi sentivo comunista comunista. Anzi, a scuola mi davano fastidio i discorsi dei sinistrorsi duri e puri che reclamavano il famoso sei politico o quelle scemenze lì. Se uno non sa un tubo perché devi dargli la sufficienza, scusa? E quelli che difendevano l’Unione Sovietica mi sembravano dei perfetti cretini, come si poteva difendere quella cosa lì con i Gulag e la miseria nera e i morti e il filo spinato? Ma figuriamoci.

Però, a parte questi piccoli dettagli, mi sembrava che quel partito fosse pieno di gente in gamba, mentre gli altri, mmm, mica tanto. E che quel partito avesse a cuore le vite della povera gente. E questa secondo me era una bella cosa. Nel pomeriggio ho incontrato un mio compagno di liceo che era di famiglia benestante, era vestito per andare a giocare a tennis con la maglietta e i pantaloncini tutti firmati e la racchetta nella custodia sgargiante, e ha sgranato gli occhi con viva preoccupazione e mi ha detto: “siamo sull’orlo di una dittatura comunista”. Perché fin dal mattino giravano voci di un poderoso successo del PCI e del clamoroso sorpasso sulla Democrazia Cristiana.
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Il poderoso successo ci fu, il sorpasso no. (Quello ci fu l’elezione successiva, un anno dopo, pochi giorni dopo la morte di Enrico Berlinguer. Nelle elezioni europee che, combinazione, non contavano un fico secco. Ma fu solo un battito d’ali. Da lì cominciò il declino elettorale del PCI, e poi venne la caduta dell’odioso muro e la svolta della Bolognina e il cambio del nome del partito e tutto il resto).

Io, dopo quella prima elezione del 1983, posso dire di aver votato ben quattro partiti diversi. Il PCI, l’ho detto. Poi il PDS, poi i DS e adesso il PD. Come? Dite che non vale, che è sempre lo stesso? In effetti. Difficile darvi tutti i torti. Però la tentazione di cambiare l’ho avuta tante volte. Intanto, non vi dico quante volte mi sono detto: “voto radicale”! Entusiasmato dalle battaglie per i diritti civili, folgorato dall’eloquio pannelliano. Ero proprio sicuro al cento per cento e lo proclamavo ai quattro venti: “io voto radicale”, porca miseria! Poi, non so come mai, ma ogni volta, proprio in prossimità del voto, succedeva qualcosa che mi faceva cambiare idea.

Pareva che Pannella lo facesse apposta, a selezionare gente particolarmente sgradevole (per me, intendiamoci – per me). Saccenti, pedanti figli di papà con il ditino alzato, gente la cui smodata ambizione carrieristica si vedeva a un chilometro di distanza: Francesco Rutelli, o Giovanni Negri, per rendere il concetto. E allora desistevo, mi davo da solo un controordine – controordine, compagno Puppo! A noi piace fare così – e di nuovo in alto a sinistra, via.

Una gloriosa sconfitta dietro l’altra.
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Poi in anni assai più recenti e in momenti diversi sono stato tentato da SEL – da una parte – e da Scelta Civica, dall’altra. Ma alla fine sempre lì sono tornato, al punto di partenza. Al partitone, allo spezzone più grosso della sinistra, nelle sue varie forme. E votare mi è sempre piaciuto tantissimo. Mi piace l’odore delle scuole dove si vota, soprattutto quando fuori piove. E l’odore delle schede, e il gesto che si fa per aprirle e ripiegarle. Anche per questo, domenica scorsa, ho fatto il segretario di seggio qui a Parigi, dove abito, in una delle sezioni elettorali allestite per i cittadini italiani. È venuta tanta gente. Tutti in fila e quasi tutti timidini – perché le elezioni sono un rito, una messa, e i riti intimoriscono sempre un po’, anche i miscredenti.

Per chi vota la gente, lo si capisce al volo, niente di più facile. Professoressa democratica: occhiali, impermeabile beige, borsa da cui spuntano dei fogli. L’unico dubbio è: voterà Lista Tsipras oppure Partito Democratico? Tertium non datur (e nemmeno quartum né quintum). Una di queste professoresse democratiche aveva un’enorme voglia di parlare di politica e di schierarsi. Si è rivolta a noi, poveri componenti della sezione elettorale “sono contenta di aver votato, soprattutto questa volta, perché il mio è un voto contro tutti i pop…” (“Signora”, intervengo, “lei capisce, in questa sede non è possibile commentare il voto né discutere…”). Di fronte al mio sorriso imbarazzato raccoglie il documento e fila via (“Tutti i populismi”, deve dirsi tra sé e sé, uscendo dalla scuola). La signora ha votato PD, chiaro.
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Poi c’è quello che è incazzato nero che più nero non si può. Prende la matita e già mi odia per il semplice fatto che io mi ostini ad esistere. Fa per entrare in cabina, poi si volta e dice: “come mai una matita?”. “Scusi?”. “Sì, dico, come mai proprio stavolta ci date una matita?”. Ecco, ci siamo. Di fronte a tale affermazione per un attimo ho la tentazione di rispondere: “le diamo una matita perché noi siamo messi qui dalla Casta appositamente per fregare lei. Chiaramente modificheremo il suo voto ove mai esso non dovesse corrispondere agli ordini dei Poteri Forti”. Invece gli rispondo così: “trattasi di matita detta copiativa, caratterizzata da una mina il cui segno è indelebile. Ogni tentativo di cancellare il segno della succitata matita (“succitato” va assolutamente usato in contesti di natura burocratica e amministrativa, ndr) è vano; produrrà al più un’abrasione evidente che tradirà la manovra.

Quanto all’osservazione “come mai proprio ora”, la invito ad ascoltare una canzone di Giorgio Gaber di una trentina d’anni fa, che parla di elezioni: una bellissima matita lunga sottile marroncina perfettamente temperata (quasi quasi me la porto via, conclude Gaber). Lei sa chi è Giorgio Gaber?”. Lui mi guarda un po’ stravolto, e a quel punto entra in cabina e vota. Movimento Cinque Stelle, è chiaro. E mi odia a morte.

Poi arriva un signore anziano, con l’aria male in arnese. Presenta la fotocopia di un documento. Ha 83 anni, è nato in Egitto, parla un misto di francese e italiano. Di fronte ai dubbi degli scrutatori insisto: il nome compare nel registro, la fotografia è perfettamente visibile, può votare! (Come si fa ad avere il coraggio di mandare via una persona così?). Apre la scheda davanti a me e comincia a votare, per carità, gli dico io, vada in cabina! Va bene, dice lui, ma tanto io voto Forza Italia, io voto Silvio Berlusconi! (Un po’ me l’aspettavo, dico la verità, ma che c’entra).
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Poi ci sono le elettrici che io ho battezzato, un po’ sbrigativamente, le “femmine di Renzi”. Si tratta in genere di donne giovani, belle e molto ben vestite. Borsetta e scarpe con forte tacco di gran marca, acconciatura perfetta, fondo tinta “clone” che riproduce l’incarnato della pelle al naturale. Mentre io, completamente imbambolato, consegno loro la scheda, esse mostrano sul bel viso una evidente dichiarazione programmatica: “i miei sono di destra e io non mi sono mai veramente interessata di politica, ho sempre votato quello che mi dicevano i miei ma adesso voglio votare Renzi perché mi sembra l’unico che può cambiare le cose”. Seguo la loro scia di profumo mentre si allontanano – e in cuor mio le saluto: “arrivederci, amiche… Compagne! A presto!”.

Poi il giorno è finito come finisce ogni giorno. E sono arrivati i risultati e il Partito Democratico al quarantuno per cento, mentre in Francia i confratelli (per non dire i compagni) del Parti Socialiste si prendevano una batosta di quelle che non si scordano. E il Movimento Cinque Stelle al ventuno virgola qualcosa, senza nemmeno la forza di gridare alla congiura. E Forza Italia che porta chiaramente il marchio della sconfitta e tutti gli altri molto indietro. Ha vinto chiaramente e nettamente il PD, poche carabattole; e da lì è cominciata la gara a mettere quello che è successo in qualche bella casella facile da capire, facile da spiegare.
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Ho sentito dire: il PD è la nuova Democrazia Cristiana. Può darsi (e per chi viene dalla storia del PCI questa sarebbe proprio un bello scherzo, una bella eterogenesi dei fini); ma per chi ha meno di trent’anni e la Democrazia Cristiana non l’ha mai vista né conosciuta, si deve trattare di un’affermazione un po’ stralunata, una frase che non significa nulla.

E ho trovato Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, che ha scritto: “la protesta anti-sistema grillina (…) non si àncora a destra, bensì a sinistra. (…) Per i suoi contenuti e i suoi accenti la retorica dei 5 Stelle ha un marchio inconfondibilmente di sinistra”. Il che mi ha fatto pensare una cosa. Secondo me, i grillini hanno effettivamente preso molto dalla retorica di sinistra; solo che ne hanno accuratamente selezionato proprio tutto il peggio.
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La convinzione assoluta di essere gli unici onesti e disinteressati in un mondo di stronzoni, il famoso complottismo che vede macchinazioni e oscure manovre dappertutto, e che deresponsabilizza l’individuo (la colpa è sempre degli altri, di altri innominabili); la sindrome della pallottola d’argento – come dicono gli americani – che porta a fantasticare per ogni problema di soluzioni inverosimili, portentose e miracolose a portata di mano, tenute nascoste dalla Casta cattiva.

Tutto questo complesso di fesserie è stato (ed in parte è ancora) un accessorio della sinistra: e ora i grillini lo hanno sposato proprio in pieno, senza se e senza ma. In questo senso, secondo me Galli della Loggia coglie un elemento vero.
E poi il 4% della Lista Tsipras salutato da Barbara Spinelli che dice, “non c’è più una sinistra (bum! Ndr), c’è un partito che assomiglia molto alla Democrazia cristiana (ri-bum!, Ri-ndr) e poi ci siamo noi che siamo l’unica sinistra (e ti pareva, ndr) e oggi cominciamo a lavorare con questa lista che crescerà come opposizione nel Paese”.

E capisco quindi che per Galli della loggia la sinistra in Italia sarebbe pari al 66% (tanto si ottiene, più o meno, sommando i risultati di PD, M5S e Lista Tsipras), cioè due terzi dell’elettorato (mica male. Ma troppa grazia Sant’Antonio: mi pare un po’ troppo). Per la Spinelli, invece, sarebbe pari al 4% (il risultato ottenuto dall’ “unica sinistra”) e quindi, contrariamente alle apparenze, la sinistra avrebbe perso anche questa volta.
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Ma porca miseria. Vuoi dire che noi di sinistra perdiamo anche quando sembra che vinciamo? E allora, nel leggere le sorridenti e incoraggianti riflessioni della Spinelli, a me è venuta in mente una storia che si raccontava tanti anni fa, dopo una delle tante “poderose avanzate” del Partito Comunista che venivano salutate dall’Unità con titoli mirabolanti, con potenti grida di vittoria.

La storia è questa. La sezione del PCI, nella periferia genovese, per festeggiare il successo elettorale, la “poderosa avanzata”, organizza una gita a Portofino. I compagni partono, con berrettino in testa (perché il sole di Portofino fa male ai poveri), la colazione al sacco. Arrivano nel porticciolo e camminano in fila, guardando le barche clamorose che vi sono ancorate. Il capo sezione indica loro, con il dito, le signore che prendono il sole, gli uomini a torso nudo con il foulard e i vaporosi capelli bianchi da ricchi che sorseggiano lo champagne, ed esclama: “compagni, guardate! Guardate! Ecco quelli che hanno perso”.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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