Quando i poveri erano ricchi e i ricchi poveri, oggi invece…

C’erano i ricchi e c’erano i poveri – i poveri eravamo noi. (Figli di padri operai e madri casalinghe). I ricchi erano quelli del quartiere a fianco. (Padri professionisti – avvocati, medici, ingegneri – o commercianti, e madri insegnanti). Si nasceva ricchi o poveri così come si nasce biondi o bruni, alti o bassi, belli o brutti. Come finisce quell’amore che fino a un istante prima era la cosa più importante, anzi l’unica, al mondo: senza un perché.

Capire chi era ricco e chi era povero era un gioco da ragazzi. Noi poveri avevamo le case con il tavolo di fòrmica e le tovaglie di plastica. I ricchi invece li riconoscevi subito, perché in casa avevano i tappeti. Nascere poveri tutto sommato era bello, perché si aveva la certezza di essere dalla parte giusta del mondo. Invece, a me, i ricchi facevano un po’ pena. Non solo perché erano nati dalla parte senz’altro sbagliata del mondo. Ma anche perché i loro figli si vestivano come dei cretini (lo dico senza voler offendere nessuno, intendiamoci, né i figli dei ricchi né i cretini). Avevano le scarpe firmate. E i giubbotti alla moda. E piangevano se non potevano comprarsi la cosina nuova.

Invece, tanto per dire, il mio amico del cuore, povero come me, si vestiva ereditando i capi dei parenti che morivano – “c’hai un giubbotto nuovo?”, “Eh sì, è morto mio zio”. Insomma, noi poveri eravamo senz’altro meglio – persino la morte ci portava felicità. I nostri padri erano operai con delle mani grandi, grandi da poterci stritolare qualcuno, e quando si incazzavano urlavano da far tremare i muri, altro che discorsi. Insomma, non c’era confronto. I figli dei ricchi non erano mai contenti, noi invece eravamo sempre contenti – di cosa, non so.
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E poi i ricchi erano malvisti. Andavi in chiesa e i preti non facevano altro che dirne male (e la vera gioia sta nel donare, non nel ricevere, e gli ultimi che saranno i primi, e poi la storia della cruna dell’ago e tutte quelle tiritere lì. Poi, appena fuori dalla Chiesa, vedevi il parroco che parlava a voce bassa bassa con la signora ricca, e lo si capiva che le stava chiedendo certi favori, le stava parlando di cose importanti che i poveri non potevano sapere e nemmeno immaginare). Andavi nella sezione del Partito (quale partito? Ma che domande. Il Partito. Io c’andavo a giocare a ping-pong. Il tavolo era proprio in mezzo ai libroni di Marx e di Lenin). E nella sezione, figuriamoci un po’, non c’è nemmeno bisogno di dirlo: i ricchi erano proprio il fumo negli occhi. Il fumo negli occhi. Insomma, prendevano botte da tutte le parti, poveri ricchi. Mentre noi poveri eravamo francamente benvisti. Un mio amico figlio di ricchi mi aveva detto un giorno: guarda che essere poveri, per un cristiano, è una condizione di privilegio. Insomma, ci invidiavano tutti.

Poi il tempo è andato e diciamo siam vecchi, ma cosa siamo – ed essere poveri è diventato una cosa brutta. Chi lo sa perché. Saranno stati gli anni Ottanta e la Milano da bere e Reagan e la Thatcher, e poi Drive In con le donne mezze nude e i comici che le guardavano con gli occhi esorbitanti. E la televisione di Berlusconi che strillava che non ci vuole l’invidia sociale e poi gettava il ponte per l’union sacrée tra ricchi e poveri: signore ricchissime che in televisione si commuovono per le condizioni dei poveri – “ricevo oggi una lettera, guardate, dalla signora Maria, mi viene da piangere mentre la leggo, ma mi dite come si fa a vivere in queste condizioni qua!”, strillavano, e facevano capire che tutta la colpa era dei partiti della Sinistra, “queste Sinistre”, mentre invece il Capo – il più ricco tra i ricchi – avrebbe avuto un pensierino dolce per tutti, belli e brutti. Sarà stato quello. Può darsi. Fatto sta che d’improvviso essere poveri è diventato veramente brutto.

Nel frattempo, mentre gli anni passavano e tutto questo accadeva, io sono diventato grande e da grande mi sono trovato a non essere povero. Certo, nemmeno ricco ricco. Diciamo una via di mezzo. Come tanti. Però per ragioni davvero casuali, per l’azzardo della vita, mi è capitato e mi capita ogni tanto di trovarmi a frequentare dei ricchi. Ma dei ricchi ricchi, mica come quelli che io consideravo tali da bambino solo perché avevano i tappeti e i figli vestiti come dei cretini. E ho scoperto un sacco di cose che non sapevo.

La prima è che i ricchi non sono poi tanto male. (Cioè, c’è anche gente in gamba tra i ricchi, giuro che è vero. E i ricchi spesso hanno persino il buon gusto). La seconda è che una buona parte dei ricchi mi ha scavalcato a sinistra. Io sono sempre rimasto più o meno della mia idea: giocare a ping pong tra Marx e Lenin mi piaceva, e giocoforza votavo quel partito lì (il Partito).
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Però nel cuore mi sentivo un’altra cosa – un (aspirante) socialista liberale. E per me erano i fratelli Rosselli e Piero Gobetti, più di Gramsci, ad essere come le gambe delle donne per Truffaut: i compassi che misurano il mondo. E quando sei un (aspirante) socialista liberale hai un sacco di problemi. Intanto, sei solo al mondo – perché i fratelli Rosselli li hanno fatti fuori subito e non è che in giro ce ne siano rimasti molti altri. E poi perché non vai bene a nessuno. Soprattutto quando frequenti i ricchi. Per i ricchi di destra (ce ne ne sono, ce ne sono, anche se può parere strano) sei comunque catalogato nella voce generica “comunista” (si sa, il tempo è poco, la gente è assai occupata, ci sono mille cose da fare e non è che si possa stare lì a fare tante distinzioni); e in quanto tale il tuo sogno è quello di spolpare viva la gente a forza di tasse per mantenere eserciti di famelici parassiti statali o di burocrati di partito, a scapito della libera iniziativa, in dispregio del merito individuale, del buon senso e del realismo economico. Fine del discorso.

Per i ricchi di sinistra (che di solito, in quanto ricchi, si possono permettere il lusso di non avere dubbi di alcun tipo e di essere estremisti), invece sei uno che non ha capito la teoria del plusvalore (del resto, è vero che in sezione giocavo a ping-pong e quindi ho prestato poca attenzione), che non ha capito come funzionano le cose e sei un leale servitore della borghesia e non stai dalla parte degli ultimi e non ti muovi in direzione ostinata e contraria e non hai letto l’ultimo decisivo saggio dell’economista controcorrente e ti ostini a non capire che è l’orrida logica del profitto la causa di ogni male e insomma, sostanzialmente (per fare una sintesi) non hai capito un emerito cazzo e sei un mezzo fascista nemmeno tanto mezzo. E quindi, un’altra cosa che ho capito è che con i ricchi è meglio se non discuto di politica.
Ma soprattutto, frequentando i ricchi, ho capito la cosa più importante di tutte. E cioè la ragione per cui i ricchi sono ricchi e i poveri sono poveri. Adesso la spiego anche a voi.

Una sera di qualche tempo fa, mi sono ritrovato invitato ad una speciale serata parigina. All’opera. C’era una rappresentazione esclusiva. Grandi interpreti. Mi hanno fatto trovare un biglietto. A mio nome. Mi sono goduto lo spettacolo. Ho fato finta, come tutti, di essere un vero esperto. Nell’intervallo, c’era un rinfresco. Champagne di ottima qualità (ho guardato la marca), e cibarie raffinate, prelibatezze clamorose. Uomini alti e abbronzati con matasse vaporose di capelli candidi –segno evidente di abitudine al potere. Donne spavalde, abili nel gesto di proiettare all’indietro le magnifiche chiome con un rapido gesto del capo, affermate, portatrici sane di ricchezza.

E poi, dopo la fine della rappresentazione, a cena. Con piatti di qualità raffinatissima, ve lo dico io. Ero a fianco di una coppia; lui, amministratore delegato di un’importante azienda, ormai in pensione; grande conoscitore d’opera, mi ha a parlato a lungo di Bellini e di Catania, e del suo amore per l’Italia, e del suo rimpianto di non parlare l’italiano, la più bella lingua del mondo (“avec le français, bien sûr” ), questa lingua così musicale. E la moglie, donna intelligente, affermata nella sua professione, a un certo punto, tenendo in mano l’ennesima coppa di champagne, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: ma com’è possibile, com’è possibile che nella situazione in cui siamo (nella crisi terribile, nel pieno della competizione globale che ci vede ormai perdenti su tutta la linea, accidenti), com’è possibile che i sindacati non capiscano che ormai certi lussi – un tempo possibili – non possiamo più permetterceli?

Solo a stento ho potuto terminare la mia coppa di champagne, tanto sono rimasto colpito dalla sua indignazione. Le ho dato ragione. Signora, è incredibile che i sindacati non capiscano la situazione in cui ci troviamo. Che non capiscano che certi lussi, e ci siamo capiti, molto semplicemente-non-sono-più-possiibili, tutto lì!
A quel punto, ultimo sorso e sono tornato a casa. In tutta la serata mai, dico mai, ho messo mano al portafogli (che volgarità, del resto, sarebbe stata!). Zero spese. Ho fatto mentalmente il conto: dunque, il posto all’opera, tutto quello champagne e il succulento rinfresco, poi la cena prelibata, raffinatissima, il taxi per tornare a casa… Mumble mumble.
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Ci siamo sparati più o meno un quattrocento-cinquecento euro a testa in una sera, tutto questo a spese di non si sa chi. Certo non nostre. E allora finalmente ho capito perché i ricchi sono ricchi e i poveri no: perché i ricchi amano le cose belle – l’opera, lo champagne – ma non sono mica così scemi da pagarle. Perché se sei ricco alla sera ti invitano (perché a tutti conviene avere amici ricchi) e a tua volta tu hai amici con case bellissime e terrazze fantastiche per i fine settimana e le case al mare o in montagna per le vacanze e insomma finisce che non tiri fuori mai una lira (o quello che è). Invece i poveri non solo hanno dei gusti francamente scadenti (e diciamolo una buona volta!), ma sono sempre lì a pagare qualunque cosa facciano. (Provate un po’ voi ad entrare nel baretto di periferia pasoliniana e pretendere di non pagare: vedrete che festa che vi fanno. Invece, all’opera, a me quasi facevano gli inchini). E allora a questo punto, visto che insistono in questa mania di tirare fuori un sacco di soldi per qualunque cosa, è francamente inutile che i poveri si lamentino di essere poveri.
(Questo ho capito – mentre rientravo a casa, e dal cielo ormai diventato scuro cominciava a piovere).

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

2 Commentaires

  1. Quando i poveri erano ricchi e i ricchi poveri, oggi invece…
    Signor Puppo, mi ha incuriosito il suo articolo perché con tutti i best seller che ho letto di recente ( the price of inequality by Steaglitz, le capital au XXIe siècle di Piketty, etc…) questo binomio ricchi e poveri mi fa leggere tutto ciò che contenga queste due parole. E perché conosco bene Parigi, il resto d’Europa, e quegli italiani che hanno lasciato la patria. Bene, condivido la parte in cui dice che i ricchi, io direi ingiustamente, lei perché sono furbi o semplicemente ricchi, non pagano quasi niente, un po’ meno quella che tratta da cretini i poveri, poiché questi lo meritano, perché questa frase in parte implica il disprezzo per l’onestà, anche se il suo articolo magari vuole essere anche ironico. Per quanto riguarda il buon gusto, beh, difficilmente si trova tra i ricchi, forse ancor meno tra i poveri, chissà. Ma chi è il ricco oggi? le assicuro che i vestiti più costano e più, paradossalmente, sono pacchiani, c’è un po’ il ritorno del ricco alla povertà, cioè al povero che si veste male,ma stavolta è il ricco che paga, e salato, il povero li prende per due soldi i suoi vestiti… glielo dice il figlio di uno stilista

    • Quando i poveri erano ricchi e i ricchi poveri, oggi invece…
      Grazie per il commento. E lo riconosco, lo ammetto: nel dar dei cretini ai poveri (perché pagano tutto fino all’ultimo centesimo), c’era da parte mia un intento ironico. Paradossale. Se a lei non è risultato così evidente come doveva essere nelle mie intenzioni, vuol dire che l’ironia l’ho praticata maluccio.
      Però una cosa vorrei precisarla: non vorrei che mi venisse attribuito quello che lei definisce « disprezzo per l’onestà », ecco, quello proprio no. L’onestà è una cosa bellissima. Bellissima. E merita sempre e solo ammirazione e rispetto.
      Quanto al fatto che i cosiddetti « ricchi » spendano un sacco di soldi magari per vestirsi malissimo, sono completamente d’accordo con lei. Io non sono ricco, però pensi che capita pure a me: di guardarmi nello specchio e dirmi « ma perché ho comprato questa roba qua? ». Un cordiale saluto, maurizio

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