Barbara Serdakowski: « Katerina e la sua guerra ». Cosa c’è nei silenzi tra madre e figlia.

Tutti i libri, si sa, trasportano da qualche parte, ma se in più un libro lo leggi in treno, se lo leggi andando da un non-luogo ad un altro luogo che non è casa tua, allora il viaggio finisce col diventare un tutt’uno col libro. Se poi il libro lo leggi in treno dall’inizio alla fine, lo cominci al buio e lo finisci al buio di un viaggio di notte, allora viaggio e libro sono una cosa sola. E non sai più se quello che ti fa viaggiare è il treno oppure è il libro.

Katerina e la sua guerra di Barbara Serdakowski dura tre ore e mezzo. Precise. Fuori tutto è nero e non so nemmeno dove sono. Anche in questo libro non sai dove sei, nessun riferimento a luoghi reali, non hai appigli spaziali né geografici. Sei in un luogo altro, come è la lingua italiana per l’autrice, un’altra lingua, non la sua d’origine. È strano, non sai nemmeno esattamente in che periodo sei, nessuna data, solo le stagioni. Ma sai che c’è stata una guerra folle, e poi uno sfollamento, e molta violenza. Sei nel nostro secolo, quindi, nel secolo appena finito.

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Quando ad un certo punto il mio treno si è fermato nel nulla ho pensato per la prima volta che un treno, anche quando è fermo, sembra che si muova. Mentre leggevo a treno in sosta guardavo fuori dal finestrino per assicurarmi che i sassi tra i binari fossero immobili e composti al loro posto, che non fossero diventati di nuovo dei «paesaggi liquidi»… Ma ecco, queste non sono parole mie, sono parole del libro, parole di Katerina, ma no, nemmeno le sue, sono parole della vera protagonista, l’altra donna, la prima, la madre di Katerina. Quella che voleva chiamarsi Miriam, che mentiva per gioco e per giocare a essere ordinata : «Il passato si poteva rifare. Finalmente avevo capito. […] Da fuori si potevano fare pacchettini molto accettabili, indolori, si poteva perdonare senza pensieri riposti, ma che dico perdonare, il perdono non diventava più necessario perché la ‘colpa’ si cancellava, finiva in fumo, era come se nulla fosse mai successo». Siamo alla cinquantaquattresima pagina del libro, la madre decide che tacerà per sempre alla figlia neonata la sua guerra e la loro fuga insieme.

Ci sono due donne in questo libro, una madre e una figlia, ma in realtà per me sono tre. Perché c’è anche questo sguardo libero dell’autrice Barbara Serdakowski, sempre teso a capire, autrice che ho sentito parlare in un’aula piena di poesia. Del suo Katerina e la sua guerra aveva detto «questo è un mio libro duro». Si confondono, queste tre donne : una agile, l’altra stanca, la terza viva. Per poi fondersi tutte nel corpicino ancora senza aspetto di una piccolissima donna che si annuncia appena. Lei nascerà, ma fuori dal libro, fuori dal treno.

È un libro che mi ha fatto pensare anche a Pirandello e all’immagine della donna-madre che si salva e si staglia sopra tutto nei Giganti della montagna, o alla Sibilla Aleramo del romanzo Una donna. È un libro potente, che mi fa pensare ai prigionieri raccontati da Primo Levi, nei momenti in descrive l’assurdo viaggio in treno di disperati che più che fuggire vengono trasportati, sballottati da un non-posto ad un altro da uomini « eretti e rigidi», “organizzati”, che sventrano «le file di gente da un lato all’altro, rastrellando tutto al loro passaggio». Siamo alla trentanovesima pagina. I disperati intanto vagano tra campi che non profumano mai e tra case che sono solo tende. Sono profughi, una parola degli anni ’90, piena di consistenza e di storia. Assurdo e frammentato, il viaggio raccontato dalla madre di Katerina si svolge con una bimba sempre in braccio e l’immagine di un morto sempre in testa. Nessuno sa dove li porteranno né perché stiano camminando, sfiniti dalla paura di dover tornare indietro e con un’inerzia che li spinge a sopravvivere anche se hanno perso tutto. Sconfitti dalla storia e dalla miseria, anime che ormai tacciono e obbediscono, che non scelgono il paese di accoglienza e non decidono nemmeno cosa lasciare e cosa tenere. Vivono ormai in un mondo dove «si poteva piangere in mezzo alla gente senza che nessuno ti si avvicinasse. Senza che nessuno avesse la curiosità di conoscerne il motivo».

La scrittura di questo tragico racconto è armoniosa, e il talento di Barbara Serdakowski sta tutta nel ritmo. Regolare eppure capace di sorprese, come il ritmo binario e ironico del treno. Tutto, tranne le parole, rimane vago in queste pagine: se non si sa in quale paese approda infine la madre, non si sa nemmeno precisamente da quale paese fugge. Alcune scene di furti e irruzioni in case rassegnate fanno pensare ai racconti non-lirici della scrittrice bosniaca Azra Nuhefendić, Le stelle che stanno giù. Anche qui di stelle se ne vedono poche, ma meravigliose. Le origine polacche dell’autrice rimandano forse all’idea generica di un’Europa dell’Est, ma nulla di più si dice, né sul dove né sul quando, e quel che in questo libro accade potrebbe di nuovo accadere. In un buio opaco e costante, rare apparizioni di luce squarciano l’anima e le regalano commozioni, come «i fiori e dei bicchieri nuovi» portati da Lui nell’appartamento troppo piccolo, perché lui “sapeva sempre cosa fare”.

Se un libro lo leggi come se fosse un film, con una durata precisa, scandito dagli eventi della trama, allora quando esci dalla pagina sei stordito, e tutto si confonde. Avevo voglia di rimanere sul treno, avevo voglia di rimanere sul libro. Verso la fine del libro, mi sono abituata al dondolio del treno e tutte le angosce mi sono apparse dissipate, i gesti hanno cominciato a ripetersi di madre in figlia, nelle manovre incoscienti che suggeriscono una continuità possibile, una specie di eredità nella vita di ogni donna. All’annuncio dell’imminente arrivo in stazione ho verificato quanto mi mancasse alla fine. Una pagina e mezzo : bene. Ho accelerato il ritmo di lettura. Ho chiuso il libro solo all’arresto del treno, e ho pensato che era uno dei rari momenti in cui il mondo mi offriva la rara perfezione della corrispondenza. Coincidenza tra pensiero e realtà, tra il gesto e l’idea. Solo dopo che il treno si era già fermato ho messo i miei bagagli con gli altri sulla linea del corridoio e ho seguito la fila per scendere. Sono scesa per ultima, il treno era vuoto, il viaggio finito. Faticoso viaggio, il mio e quello della neonata, profuga inconsapevole nelle braccia della madre che la salva da due guerre, quella vissuta e quella raccontata. Ma non la salva dal dolore, perché non si può salvare nessuno dal dolore, si può solo insegnare che la felicità resiste.

Questo libro è tutto intento a parlarci del femminile, di come e del perché la donna senta e ragioni in flashback apparentemente illogici eppure fluidi. Fa pensare che tutte le madri hanno non-detto qualcosa alle loro figlie, e che a differenza forse del padre – figura mitologica capace di silenzi impenetrati –, il silenzio tra donne parla, sempre. Fin dal primo non dialogo, «come due persone che si fanno domande senza usare parole» (siamo nella prima pagina), c’è qualcosa che la figlia ascolta e ignora, e c’è qualcosa che la madre sa e non dice. Il silenzio tra donne è pieno di cose da non dire. Un piacere e un sapere che si tramandano, ma senza nessuna maledizione, perché la Storia è una casualità e nell’agilità della figlia potrà compiersi il miracolo della vita felice. La Storia incombe sui personaggi come una grande casualità, che li modifica, li sollecita, li provoca, li sfinisce, li rimprovera, li consola e li comprende. Ma questo libro non crede nel destino, perché non c’è dolore che sia trasmissibile, e forse il fato non esiste più. Solo il sentimento si può trasmettere, ed è questo sentimento di angoscia che passa in effetti di madre in figlia, una sorta di paura costante di perdersi, di non saper fare le cose semplici. Una paura che si può cullare sulle onde di un treno e lasciar affievolire, si può sminuire ed abbracciare in una casa nuova.

Queste due sono donne si lasciano trovare, qui sta la loro somiglianza. Si lasciano fare dall’amore, si abbandonano con istantanea fiducia agli occhi di chi “guardava parlando con l’anima”. E in un bicchiere colorato in regalo, in un fiore davvero non colto, respirano insieme il mistero della morte, la vicinanza della vita, l’assottigliarsi delle angosce. Se il femminile domina nel romanzo è come elemento di bellezza e rinascita, e il silenzio primordiale della prima madre sull’orrore taciuto e sulla perdita muta, trova un senso nel ripetersi differente delle cose antiche. Il dolore del non-detto perde negli anni la sua potenza devastatrice e da incubo solitario si fa lacrima condivisa. Così la terza Miriam sarà forse salva davvero. Libro di letteratura migrante, iscritto nel filone dei racconti della cosidetta “seconda generazione”, La guerra di Katerina si accosta in parte a Lezioni di tenebra di un’altra autrice di origine polacca, Helena Janeczek, che scelse per raccontarsi l’italiano.

Ma Barbara Serdakowski si spinge fino ad immaginare il futuro della terza generazione. Se Katerina ha ereditato un silenzio consapevole e indigesto, sua figlia non potrà che ereditare un silenzio inconsapevole e quindi digeribile. Sarà un silenzio che non finge di ignorare l’orrore di un ricordo ma che davvero lo ignora, che lo conosce solo per intuito ma non per esperienza. Un silenzio innocente che forse perderà i rumori di fondo, come «i profughi in cammino perdevano a poco a poco scarpe, calzini, maglie, pentole, libri, stracci, anche delle valigie, che nessuno raccoglieva. Tutti avevano le stesse cose che non servivano a niente». Questo silenzio non serve più a niente. Siamo alla cinquantasettesima pagina. Ci si avvia alla fine e si esce dal silenzio, nella giovane coppia innamorata ci sono
«conversazioni senza fine, su tutto, su tutti, ore di frasi, di parole, di idee, di ricordi, e anche, per la prima volta, sulla madre». Siamo alla novantanovesima pagina. La vita normale si prepara a riprendere, il treno della disperazione diventa un treno per l’elegante Vienna, un treno in cui
«non si notano le ore» e ci si sente «protetti dentro il vagone dai colori ocra e rame». Mi guardo intorno, il mio treno è modesto, non è né come il primo della miseria né come il terzo del sogno. La fuga dei profughi è lontana, nella vita normale ci sono solo fughe di vacanze o viaggi professionali, come il mio.

Annunciano l’arrivo. Il libro si chiude sotto i miei occhi come un viaggio che mi riporta allo stesso punto, ma in una sezione temporale diversa. Gli anni, le ore sono passate e non hanno cancellato niente, hanno solo maturato una forza importante. Se la Storia non farà nuovamente irruzione con l’assurdo di una guerra senza senso, senza paese e senza motivo, le donne potranno continuare il loro silenzio parlante. Un silenzio che, stavolta, non parlerà di orrore ma parlerà di gioia.

Ilena Antici

Katerina e la sua guerra
di Barbara Serdakowski

Robin Edizioni
Romanzo
110 pag. – Euro:10,00
ISBN: 978-88-7371-514-6

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2 Commentaires

  1. Barbara Serdakowski: « Katerina e la sua guerra ». Cosa c’è nei silenzi tra madre e figlia.
    come sempre sai cogliere qualcosa di più con grande sensibilità, è bellissimo il fatto che fai suscitare un grande desiderio di leggere il libro, di quelli che ti fanno pensare « ora, oggi, vado a comprarlo » e già solo questo lo trovo un fatto molto positivo. brava

  2. Barbara Serdakowski: « Katerina e la sua guerra ». Cosa c’è nei silenzi tra madre e figlia.
    Brava ilena…è il romanzo bello o la recensione tua?

    un gran voglia di andare a verificare…

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