Pascoli. La voce alla poesia: Nebbia.

Diversamente dalla protettiva siepe di Leopardi, la nebbia pascoliana come gli altri elementi della natura e del paesaggio, celano la proiezione dell’Umana pena di se. Nello sguardo di Pascoli e nei suoni dei suoi versi, l’eco di un emozionante vissuto personale ed universale.

Nebbia (da “Canti di Castelvecchio)

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba, [[scialba: pallida]].

tu fumo [[fumo: il vapore acqueo che forma la nebbia]] che ancora rampolli, [[rampolli: scaturisci, vieni fuori]]

su l’alba, [[su l’alba: verso l’alba.]]

da’ lampi notturni e da’ crolli

d’aeree frane! [[crolli… frane: la nebbia si forma, verso l’alba, dopo i temporali notturni, che qui sono rappresentati attraverso una metafora che rimanda al fragore dei tuoni.]]

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch’è morto! [[quello… morto!: il passato luttuoso.]]

Ch’io veda soltanto la siepe

dell’orto,

la mura [[la mura: il muro (uso arcaico del femminile per il maschile).]] ch’ha piene le crepe

di valerïane. [[valerïane: piante che crescono spontanee nelle fessure dei muri.]]

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre [[ebbre: piene.]] di pianto!

Ch’io veda i due peschi, i due meli,

soltanto,

che dànno i soavi lor mieli [[soavi… mieli: il miele è metafora della poesia. Si noti la rima meli : mieli che presenta una libertà d’accordo tra una vocale e un dittongo e che, per questo, si avvicina ad una assonanza.]]

pel nero mio pane. [[nero… pane: il pane nero è il pane fatto con farina non setacciata, meno pura: e quindi è un pane più povero (proseguendo la metafora iniziata al v. precedente, Pascoli fa riferimento alla semplicità del poeta, alla poesia che non è una fonte di grandi guadagni).]]

Nascondi le cose lontane

che vogliono ch’ami e che vada!

Ch’io veda là solo quel bianco

di strada, [[bianco… strada: è la strada del cimitero]]

che un giorno ho da fare tra stanco

don don di campane…

Nascondi le cose lontane,

nascondile, involale al volo

del cuore! [[Involale… cuore: nascondile alle aspettative del cuore (involale al volo: figura etimologica).]] Ch’io veda il cipresso

là, solo,

qui, solo quest’orto, cui presso [[cui presso: presso il quale.]]

sonnecchia il mio cane.

Pubblicata per la prima volta sulla rivista napoletana «Flegrea» del 20 settembre 1899, Nebbia è una delle poesie fondamentali per comprendere la pascoliana poetica del “nido”. La nebbia non è più, come in alcune poesie di Myricae (da Arano a I gattici) un elemento atmosferico che connota i paesaggi autunnali e viene utilizzato con finalità impressionistiche, come ‘velo’ che sfuma e rende meno nitidi i contorni delle cose; qui – come nel poemetto Nella nebbia – il fenomeno atmosferico assume un chiaro valore simbolico: la nebbia deve isolare il poeta, circondarlo come se fosse un “nido”, impedirgli di vedere ciò che è più lontano (nello spazio e nel tempo), permettergli di osservare solo le cose vicine e familiari (la siepe, il muro, gli alberi da frutto dell’orto, la strada del cimitero, il cipresso).

Antitetica, nel suo significato, rispetto all’Infinito leopardiano (per il poeta di Recanati la siepe, impedendo la vista, permette all’immaginazione di spaziare liberamente; per Pascoli – che pone la parola siepe in posizione di rilievo, al termine del v. 9 – la nebbia deve impedire di guardare e di pensare a ciò che sta lontano), la poesia, caratterizzata dall’anafora, in apertura di ogni strofa, dell’imperativo «Nascondi», è tutta costruita sulla contrapposizione tra ciò che è esterno rispetto al “nido” (e quindi doloroso, luttuoso, fonte di lacerazioni) e ciò che sta all’interno di una dimensione chiusa e protetta: e mentre per alludere a ciò che sta fuori Pascoli adopera una espressione indefinita (cose lontane, ripetuta in ogni strofa), ciò che sta dentro è indicato con precisione e appartiene all’universo affettivo e simbolico che attraversa l’intera poesia pascoliana (dalla siepe al muro, dagli alberi da frutto al cimitero e al cipresso, fino al cane).

nebbia.jpg

Nella nebbia (da “Primi poemetti”)

E guardai nella valle: era sparito

tutto! Sommerso! Era un gran mare piano,

grigio, senz’onde, senza lidi, unito.

E c’era appena, qua e là, lo strano

vocío di gridi piccoli e selvaggi:

uccelli spersi per quel mondo vano.

E alto, in cielo, scheletri di faggi,

come sospesi, [[come sospesi: come se non avessero radici (degli alberi si vedono solo i rami più alti, non il resto della pianta, immerso nella nebbia).]] e sogni di rovine

e di silenzïosi eremitaggi. [[eremitaggi: luoghi spersi e solitari]]

Ed un cane uggiolava senza fine,

né seppi donde, forse a certe péste [[péste: rumori di passi]]

che sentii, né lontane né vicine;

eco di péste né tarde né preste, [[né… preste: né lente, né veloci.]]

alterne, eterne. E io laggiù guardai:

nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

Chiesero i sogni di rovine: – Mai

non giungerà? – Gli scheletri di piante

chiesero: – E tu chi sei, che sempre vai? –

Io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante

con sopra il capo un largo fascio.[[ fascio: carico.]] Vidi,

e più non vidi, nello stesso istante.

Sentii soltanto gl’inquïeti gridi

D’uccelli spersi, l’uggiolar del cane,

e, per il mar senz’onde e senza lidi,

le péste né vicine né lontane.

La nebbia genera intorno a colui che guarda da una altura uno spettacolo inquietante e misterioso: nella vallata tutte le cose sembrano annegare in un mare «piano, / grigio, senz’onde, senza lidi, unito». Si intravedono degli oggetti e si sentono dei rumori, che giungono da luoghi imprecisati. Tra questi rumori, si possono udire (ma senza alcuna certezza: forse, v. 11 e v. 19), dei passi di qualcuno che cammina: è un’ombra errante, che ha sopra il capo – come il vecchio che, con il suo cammino faticoso e doloroso che si conclude con l’«abisso orrido, immenso» della morte, rappresenta l’esistenza umana nella Ginestra leopardiana – un pesante fardello.

Si precisa così il senso del poemetto, in cui la nebbia non ha più, come nell’omonima poesia dei Canti di Castelvecchio, la funzione di isolare e di proteggere, ricollegandosi al simbolismo del “nido”: qui Pascoli vuole presentare, con un’immagine dominata dall’angoscia, il senso della vita umana: un errare faticoso in un mondo indecifrabile, un mondo che, secondo l’immagine di origine cristiana, è una valle (v. 1) di lacrime.

Testi e note tratti dall’antologia poetica “Giovanni Pascoli” (Firenze, Le Monnier-Univerità, 2011), di Giovanni Capecchi.

STRU_Capecchi_Pascbis.jpgL’antologia di Giovanni Capecchi su Giovanni Pascoli si propone di dar conto dell’importanza e della complessità dell’opera pascoliana, prestando la dovuta attenzione alle raccolte poetiche “principali” (da Myricae ai Primi poemetti, dai Canti di Castelvecchio ai Poemi conviviali), senza trascurare le poesie giovanili – analizzate mettendo in evidenza elementi di continuità con la produzione successiva e aspetti originali e unicamente legati ad una stagione vitale e a tratti goliardica – e il lungo tramonto da poeta bifronte, “vate ufficiale” che canta il Risorgimento nazionale ma anche uomo che sperimenta la solitudine di fronte alla morte che incombe e la vanità di tutte le cose.


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Giovanni Capecchi
Giovanni Capecchi è nato e vive a Pistoia (Toscana). E’ professore associato di Letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha dedicato i suoi studi soprattutto all’Ottocento e al Novecento, seguendo alcuni filoni di ricerca: l’opera di Giovanni Pascoli, la letteratura e il Risorgimento, la letteratura della grande guerra, il romanzo nel Novecento.

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