TAHRIR, Liberation Square – Place de la Libération, film di Stefano Savona

Se avessi scritto questo articolo tre settimane fa, appena uscito dal cinema, avrei detto semplicemente: andate a vedere questo film di Stefano Savona, è splendido. Ed è quello che effettivamente ho detto agli amici – ma mi sembrava troppo poco per scriverci sopra, ché appunto non avevo voglia di dire altro che questo: andate…

TAHRIR_Poster1-748x1024.jpgDa allora però quelle immagini mi sono rimaste in memoria, e si sono incrociate con altre, terribili, che di nuovo arrivano, sono arrivate dall’Egitto. E mi è tornato in mente, anche, un articolo de Le Monde, letto all’uscita del cinema e di cui avevo appuntato la conclusione, che mi aveva particolarmente colpito: … Un étrange sentiment saisira donc le spectateur à la vision de ce film qui lui fait revivre sur le vif un événement dont il ne peut désormais partager ni la liberté ni l’incertitude.

Mi ha colpito, quella conclusione, e mi colpisce tanto più alla luce dei più recenti eventi (i morti di Port-Saïd, e nelle successive manifestazioni di protesta): perché a me invece sembra che, proprio per quegli eventi, proprio, anche, per i ripetuti affrontamenti interreligiosi che si sono succeduti nei mesi che hanno seguito «la rivoluzione» di cui si narra nel film, proprio per via della crescita dell’integrismo religioso, che tanto spaventa – con più o meno cognizione di causa –, proprio per tutti questi accadimenti realmente inquietanti, o se si vuole, contro di essi, questo film costituisce un formidabile messaggio di «luce» (attenzione alle virgolette, con l’aggiunta di una piccola confessione : ho finito con il togliere la parola «speranza», che non mi pare del tutto adatta, come cercherò di spiegare più in là).

Vorrei dunque, finalmente, provare a dire perché : nel contempo facendo al film un po’ della pubblicità che merita. Cominciando con un’osservazione meramente cinematografica : se questo film mi è tanto piaciuto, al di là, prima che per quel che racconta, è per il come lo racconta – come film in quanto tale, insomma.

Con rispetto a quel che racconta, in effetti, Tahrir è «soltanto» un documentario, appunto, sulla rivoluzione egiziana, cioè sugli eventi che si sono accavallati l’anno scorso fra il 25 gennaio (prima convocazione delle ormai famose «giornate della collera») e l’11 febbraio (dimissioni di Mubarak), ed anche dopo, con epicentro moltiplicatore Il Cairo, piazza Tahrir, e di cui i media, e poi anche diversi registi, hanno ampiamente raccontato.

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Ma ecco che questo film si distingue per una feconda originalità.

Innanzitutto – e non è un caso se impiego di preferenza il termine «film», piuttosto che «documentario» – perché con quegli eventi racconta una storia coinvolgente, accattivante: partecipiamo all’incertezza, ora angosciosa ora entusiasta, entusiasmante, che ha impregnato quelle giornate – Tahrir, proprio come un bel film, è imprevedibile, anche per noi che pur sappiamo, nel bene e nel male come è andata a finire (in senso puntuale… i giochi non sono ancora conclusi), così com’è imprevedibile, nel suo svolgersi (il film, la storia, è difficile distinguerli), per coloro che ne sono stati gli attori, e per il regista, Stefano Savona, che alle prime notizie sulle manifestazioni decide di recarsi al Cairo, armato di una semplice Canon 5D, per filmare nel modo più diretto possibile quel che stava succedendo a piazza Tahrir: non sapeva, non lo sapevano gli attori, che si stava montando un’autentica, ma originale, rivoluzione «di piazza», in un senso che non potrebbe esser più stretto. E – ed è il «secondo» fra i grandi meriti del film – abbiamo l’impressione di non saperlo neanche noi, che pur sappiamo…

Tuttavia – ed è il «primo», grandissimo merito del film – anche se «narrativamente» potente, Tahrir è originalmente, ma autenticamente, fedelmente un documentario. Voglio dire : il pathos, il brivido, l’emozione che si provano mentre la pellicola scorre non sono elementi aggiunti, come un’abile spolverata di parmigiano, ma sono essenziali alla struttura profonda della cronaca, fattitivamente prima che emotivamente. Il film, insomma, è documentario : nel senso che il suo essere (apparentemente) intrattenimento, congegno, coincide con il suo essere documento, inchiesta.

Chiunque faccia un documentario, o più in generale ricerca sul campo, taimage_sorties_id34.jpg di qualsiasi genere, si misura con un problema forte, ineludibile, e anche di più – iscritto nel cuore stesso dell’ «osservare»: lo sguardo di chi indaga, o ancor più semplicemente, il fatto stesso di guardare, inevitabilmente modifica il comportamento di chi è guardato, osservato, indagato.

Un documentarista può allora manipolare questo «limite», farlo scomparire in un’ubriacante estetismo, di fatto mettere in scena i propri oggetti di indagine, quasi fossero attori, e spingerli a rivelare un messaggio che è più di chi indaga che di colui che è indagato (in questo senso, se parlo francese, il maestro è Raymond Depardon, penso in particolare a La vie moderne, che, sia detto fra parentesi – eppur quanto è bella quella luce, quelle immagini… -, non mi è affatto piaciuto – anche se forse ho avuto il torto, me lo sono chiesto, di cercarci un documentario sui contadini delle Cévennes, quando magari Depardon voleva effettivamente far altro, parlare di sé…).

Altra strada: non cercare di occultarlo, il limite, ma anzi ammetterne esplicitamente l’esistenza, farlo entrare in gioco, come elemento che provoca azioni e reazioni: la modificazione, insomma, diventa motore. Sempre per restare in Francia, e in tempi recenti, penso a Mafrouza – fra l’altro, si tratta di nuovo dell’Egitto, qui una bidonville di Alessandria: Emmanuelle Demoris, la regista, è là (difficile non pensare a Jean Rouch), anche se certo con delicatezza, discrezione. Ed ha fatto un indimenticabile documentario.

Ora, Stefano Savona – e noi con lui – percorre una terza strada, possibile per via di una felice intuizione e di una buona, come dire, «fortuna». Il regista «non è là», o meglio, scompare dietro la macchina, si limita a filmare, dirigere: e gli attori, certo, recitano – ma perché sono, appunto,
«attori». La piazza Tahrir – lo capiamo dopo pochi minuti, seduti come fossimo a teatro – ci si rivela come una porta, un portentoso palcoscenico aperto sul mondo: i protagonisti di quella rivoluzione hanno (e danno) la sensazione di star vivendo e dando vita a qualcosa di unico, e come si fa in queste occasioni ci si veste a festa, si dà il meglio di sé, si recita, e questa finzione non è una finzione, perché fa parte della straordinarietà dell’evento, come quando si è innamorati, o in preda al furore poetico. Non a caso, uno dei momenti più forti, più belli del film (che, mi viene in mente adesso, ricorda una scena di Mafrouza), è quando uno dei personaggi, mi sembra Ahmed, legge una poesia che ha scritto: la poesia e la rivoluzione si incontrano, entrambe animate dall’amore, come le due uniche cose per cui valga la pena di vivere.

«Non è là» Stefano Savona, eppure non potrebbe essere più «là» di così, è in mezzo a quella folla, partecipa – verrebbe da dire – alla rivoluzione (per questo dico che è stato anche «fortunato», perché, certo spinto da un felice intuito, è arrivato là proprio in quel momento, mentre la realtà si fondeva con la scena…), filma e filma, con grande intelligenza e perizia – straordinarie per nitidezza le sue immagini – e con grande intelligenza le seleziona. Uomini e donne, molte donne, più o meno velate, svelate, austere e meno austere, con la loro bellezza e gioia di vivere, e finalmente a parlare, in libertà, insieme fra loro, come insieme agli uomini, anche loro, finalmente, liberi. Liberi di parlare.

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Quindi, anche e soprattutto, Savona con estrema finezza va dietro ad alcuni fili, azzeccatissimi, quattro o cinque personaggi, appunto, di cui segue (e noi sempre con lui…) gli itinerari, captandone essenzialmente la parola – e sembra a tratti che sia proprio quella parola, libera dopo tanti anni di oppressione, la vera protagonista.

Ma non c’è nessuna retorica, nessun a priori ideologico, almeno, io non ne ho percepiti: né in chi filma, né in chi si è lasciato filmare. Lo sappiamo, e lo sappiamo anche durante il film: la piazza, la folla possono farsi facilmente paurose, tremende, e anche «quella» piazza, ahimé, ha avuto i suoi dérapages, i suoi momenti bui. E poi, certo, le tensioni interreligiose esistono e possono riesplodere, come può avanzare l’integrismo, farsi conquistatore, e le donne tornare ad essere sottomesse, o ancora è ben possibile che s’affermi un pericoloso nazionalismo – non lo si nasconde, nel film, né si vuol dare di quella folla in rivoluzione un’immagine edenica : semplicemente, si sono avute la possibilità e l’intelligenza di coglierla, quella folla, in un suo momento magico. La piazza Tahrir, che vediamo, insieme a centinaia di migliaia di persone, uomini e donne, copti e musulmani, è una gigantesca agorà, all’ateniese, la miracolosa Atene del V secolo a. C., con in più l’eredità assunta, rivendicata, dei cinquemila anni di storia, di cui l’Egitto si fregia, tutta tesa a chiedere, a discutere di democrazia, di giustizia, e libertà: e questo non solo vediamo, ché abbiamo quasi l’impressione di esserci, là, palpitando con la folla, dentro la folla, contagiati dalla sua freschezza – e non c’è nulla che ci spaventi. Forse, mi verrebbe da aggiungere, perché quella folla non è una, ma tanti : individui, insieme certo, perché uniti in nome di qualcosa, ma diversi, perché quel qualcosa si chiama libertà.

Per tutte queste ragioni, insomma, il come e il quel finiscono per coincidere, e il più fedele dei documentari si vede come un appassionante, bellissimo film : dove anche, ovviamente, s’imparano tante cose sull’Egitto – fra altre, appunto, a non averne paura.

Certo, chi ama la libertà, e l’Egitto, non può non soffrire, da allora, nel vedere come l’esercito abbia sequestrato la «rivoluzione», o ancora come gli integristi (che però sono fra loro diversi) avanzino nella conquista della società, riesplodano i conflitti interreligiosi, etc. Ma la «luce» di cui dicevo all’inizio vuol significare proprio questo – e cioè che le «rivoluzioni», o almeno, alcune di esse, e senz’altro quella che è partita dalla e nella piazza Tahrir, realizzano qualcosa anche, soprattutto, nel fatto di farsi, di poter far coabitare la gente discutendo, in un modo nuovo, e gioiosamente, amorosamente : e anche quando, anche se, per parafrasare les Rita Mitsouko, les révolutions finissent mal, en général…, quello «stare insieme», a me sembra, è già una vittoria. E forse anche, a ben pensarci, una speranza : per via di quella gente, di quel desiderio di libertà, qualcosa laggiù può, deve ancora succedere. Può succedere ovunque…

(I film, come i romanzi, finiscono, e uno si domanda, quasi fossero reali, come continuino a vivere, dopo, questo o quel suo personaggio… Qui ce lo domandiamo con tanta maggior forza che Ahmed, Noha, Elsayed, e gli altri, le altre di cui non ricordo o non conosco il nome, sono reali. Dove sono finiti, cosa è successo dopo il film ? Ecco, penso spesso, da tre settimane, che sarei felice un giorno d’incontrare Stefano Savona, per chiedergli diverse cose sul suo film, ed anche notizie dei suoi personaggi, di quegli «attori», oggi.)

Giuseppe A. Samonà

p.s. Place de la Libération, Liberation Square, non è un vezzo: è con questi due sottotitoli che ho trovato, e poi visto questo film a Parigi. Immagino, e spero, che circoli anche in Italia, con il titolo: Tahrir, Piazza della Liberazione.

Il sito ufficiale del film: http://www.tahrir-liberationsquare.com/index.html

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.