Intervista a Marco Grompi dei Rusties

I Rusties non sono soltanto una delle band italiane più significative del panorama underground ma grondano di storia del rock vissuta sulla propria pelle. Ne abbiamo parlato con Marco Grompi, leader della band.

Dopo essere stati interpreti di punta in Italia del repertorio di Neil Young, I Rusties hanno pubblicato due album composti interamente da brani originali: Move Along (2009) e Wild Dogs (2011) – Tube Jam Records.

Pietro Bizzini : Mi piacerebbe sentirti descrivere il giorno in cui hai sentito per la prima volta un disco di Neil Young? Quali sono state le tue sensazioni? Dov’è nata la passione per il rock?

Marco Grompi : Dev’essere stato verso la fine del 1978, ai tempi delle scuole medie, a casa di un compagno di classe che aveva fratelli maggiori dotati di una vasta collezione di LP. In quel periodo ascoltavo il pop e la discomusic che passavano in radio e che tutti i dodicenni di allora ascoltavano: roba tipo i Bee Gees, qualcosa dei Pooh (!), al massimo Rod Stewart!

I Rusties ©Fabio Gamba - Phocus Agency

Ripensandoci ora, ero alla vigilia di favolose scoperte: Bob Marley, Pink Floyd, Genesis, Led Zeppelin…! Quel giorno il mio amico scovò nel mucchio dei vinili quelli di Harvest e Comes A Time. Fu lui a suggerire di ascoltarli perché “suo fratello diceva che Neil Young era uno bravo”. Quando la puntina cadde sul solco e partì Out On The Weekend fu una fascinazione istantanea: il suono caldo di chitarra acustica, basso e batteria, poi quell’armonica sofferta e infine quella voce esile, incerta… Non avevo mai ascoltato nulla di simile. Lo stesso incanto avvenne con la prima traccia di Comes A Time, Goin’ Back. Pur non capendo tutto subito, m’innamorai di quel suono e di quella malinconia. Ma la vera folgorazione rock avvenne due anni dopo, quando andai al cinema sotto casa per assistere a una proiezione di Rust Never Sleeps aspettandomi di vedere in azione “quel” Neil Young folk, capellone hippie bucolico e intimista, e ritrovando invece sul grande schermo un rocker più vicino al sound punk, affiancato da strani ominidi che sembravano usciti da Guerre Stellari e da una band ruvida e scorticata come i Crazy Horse alle prese con brani tipo Hey Hey My My, Cortez The Killer, Powderfinger, Like A Hurricane, The Loner, Cinnamon Girl. Quella chitarra mi “parlava” e c’era davvero molto “di più dell’immagine che salta all’occhio”.

Da quel giorno recuperai tutta la sua discografia a ritroso scoprendo le meraviglie di Zuma, On The Beach, After The Goldrush, Everybody Knows This Is Nowhere, Tonight’s The Night e tutta la sua magnifica produzione anni ’70 e ’60, compresi CSNY e Buffalo Springfield. Da allora Neil Young è sempre stato un punto di riferimento imprescindibile, specialmente per quanto concerne la sua attitudine nei confronti della Musa Ispiratrice e il rispetto della Musica in generale (indipendentemente dai generi).

Tanti anni di gavetta, quali consapevolezze e quali problematiche hanno portato ai Rusties?

Tante le consapevolezze, che talora coincidono pure con le problematiche a seconda del punto di vista da cui ci poniamo ad osservarle. Tra queste:

– sappiamo di poter contare solo ed esclusivamente sulle proprie forze;

– siamo in grado di metter in piedi uno show dei Rusties in qualsiasi circostanza tecnica, meteorologica, psicologica, politica, economica, temporale, farmacologica o ambientale;

– abbiamo imparato che Musica e business sono due cose ben distinte e che solitamente, quando sono costrette a scendere a patti, è la Musica a perdere;

– alla fine, nel caso dei Rusties, è la musica che vince sempre, ed è questo che per noi conta e che ci sostiene.

Quando create una cover di un mostro sacro del rock (in Wild Dogs c’è anche Adam Raised a Cain di Springsteen) come riuscite a trovare quella nota che vi permette di fare entrare quel brano dentro il vostro stile?

Quando affrontiamo un brano non nostro (e dal vivo, nel corso degli anni è successo spesso, anche al di là di Neil Young) non decidiamo a priori di “suonarlo alla Rusties”, ma semplicemente lo affrontiamo in un modo a noi congeniale cercando di rispettare e mantenere lo spirito insito nella versione originale. E’ come indossare un vestito: una canzone ti sta bene addosso se la sai “indossare”, se la interpreti adattandola alla tua personalità. E’ovvio che una grande canzone si presta ad essere “indossata” meglio, ma è anche più rischioso svilirla. La consapevolezza e l’accettazione dei nostri limiti come musicisti, decenni di ascolti diversificati (e diversissimi tra i membri del gruppo) e il massimo rispetto per la Musica in genere ci hanno consentito di forgiare più o meno consapevolmente un sound che ho la presunzione di reputare unico nel panorama europeo. Chi pensa che i Rusties abbiano mutuato il loro sound esclusivamente dalla lezione di Neil Young evidentemente non ha mai assistito a un nostro concerto nè ascoltato le nostre canzoni.

Qual è stata la scintilla che vi ha fatto passare dal “periodo cover” a quello dei brani originali targati Rusties?

Quando facevamo Neil Young, in molti ci dicevano che eravamo “più Young di Neil” non tanto per spirito emulativo bensì per la nostra presunta capacità di saper sviscerare l’essenza di alcune sue canzoni attraverso un sound allo stesso tempo evocativo e riconoscibile ma anche estremamente personale. Ad un certo punto ci siamo detti: “dato che abbiamo anche delle canzoni nostre, perché non proviamo a mettere al loro servizio queste nostre presunte capacità?” I risultati sono (per ora) Move Along e Wild Dogs, due album di cui andiamo particolarmente fieri anche per la ampio spettro sonoro delle canzoni che raccolgono

Come siete riusciti ad entrare in una etichetta estera come la Glitterhouse?

La Glitterhouse non è la nostra etichetta, ma il nostro distributore all’estero: Move Along e Wild Dogs sono CD (ed anche, ovviamente, mp3) pubblicati dalla Tube Jam, una piccola etichetta indipendente italiana e distribuiti all’estero tramite il Glitterhouse Mail Order Service. Quando nel 2005 pubblicammo Younger Than Neil (un album tributo a Neil Young per i suoi 60 anni), gli organizzatori dell’Orange Blossom Special di Beverungen (uno delle più importanti vetrine europee per la cosiddetta “americana music”) ci invitarono a fare un set dedicato a Young all’interno della decima edizione del festival. Quella nostra performance (poi immortalata nel CD dal vivo Live In Germany) impressionò molto i tipi della Glitterhouse e, tra le altre cose, ci ha anche dato in seguito la possibilità di esibirci in alcuni tra i maggiori festival e club tedeschi.

Riguardo all’ultimo album, ho letto ottime recensioni in gran parte delle riviste musicali, ed affettivamente è un disco molto maturo in ogni suo aspetto. Qual è l’ingrediente segreto che vi ha permesso di esprimervi al meglio?

La totale libertà espressiva, il completo controllo artistico sulla musica e su come realizzare l’album e la caparbietà nel fare le cose esattamente come avevamo in mente, senza sottostare ad alcun condizionamento esterno. Essere indipendenti dovrebbe significare questo. E noi abbiamo avuto la fortuna e la possibilità di essere genuinamente indipendenti in età matura. Essere fuori dai “giri che contano”, lontani dalle mode e assolutamente lontani da ogni idea di business ha fortunatamente anche qualche lato positivo.

Il Fehmarn Open air è stato un grandissimo riconoscimento alla vostra carriera ma non disdegnate anche date in posti “minori”. Come riuscite ad affrontare un mondo della musica con spazi angusti per band che non abbiano il marchio di MTV?

Spesso occorre fare di necessità virtù: sappiamo bene che non capita tutti i giorni di aver la fortuna e l’opportunità di poter suonare di fronte a un pubblico attento ed entusiasta di dodicimila persone. Ovviamente sono momenti meravigliosi e destinati a rimanere indelebili nella memoria, ma la convinzione, l’attitudine e la concentrazione con cui affrontiamo un concerto sono le medesime, indipendentemente dal fatto che ad ascoltarci ci siano dodici o dodicimila persone. Su MTV (e, più in generale, sul modo in cui la televisione in genere tratta la musica) ho opinioni tali da rischiare la querela, e siccome non mi piace l’idea di trascorrere del tempo tra tribunali e avvocati, preferisco non esprimerle pubblicamente. Del resto chi ama davvero la musica sta alla larga da MTV e dalle band con il loro marchio.

Cristina Donà e Mary Coughlan (rabbiosissima in Wild Dogs), quante vibrazioni hanno portato nei vostri ultimi due dischi queste superbe artiste?

Cristina Donà

Conosco Cristina Donà da vent’anni e ci lega da sempre una profonda e solida amicizia. Abbiamo cominciato assieme nella prima metà degli anni ’90 esibendoci come duo acustico nel circuito dei folk club e in piccoli festival della scena locale lombarda. Nel corso degli anni abbiamo continuato a frequentarci più o meno assiduamente e spesso abbiamo creato situazioni in cui abbiamo potuto condividere il palco, con o senza i Rusties. Move Along è una canzone che avevo scritto ai tempi in cui suonavamo assieme e mi è sembrato naturale pensare alla sua voce quando abbiamo deciso di registrarla. A prescindere dalla nostra amicizia, la reputo una delle più grandi artiste sulla scena non solo nazionale e la sua interpretazione di Move Along è davvero da brividi.

Ho conosciuto Mary Coughlan durante un suo tour italiano intorno alla metà degli anni ’90: a quei tempi lavoravo per un’agenzia di concerti come road manager e sono stato in tournée con lei e la sua band in diverse occasioni. E’ una delle interpreti, nonché una delle voci più straordinarie ed emozionanti che conosca e, dopo aver ascoltato il nostro album Move Along, mi ha chiesto se i Rusties sarebbero stati interessati a registrare con lei del materiale per un suo possibile prossimo album.

Mary Coughlan

E’ stata lei a proporre Razor Love, uno dei brani di Neil Young che più mi emoziona (ma che i Rusties non avevano mai affrontato prima). Una volta in studio abbiamo registrato due brani, in presa diretta, in un pomeriggio. La sera prima della session avevamo tenuto un concerto assieme sulle rive del Lago di Endine e lei era rimasta molto impressionata da Wild Dogs, rabbiosissimo brano che avevamo inciso in quei giorni per il nostro nuovo album e che quella sera avevamo eseguito sul palco in anteprima assoluta. Alla fine delle registrazioni in studio è stata lei a chiederci se poteva provare a cantare Wild Dogs. Il risultato è ciò che si sente sull’album.

Sono ancora incredulo all’idea di aver suonato sul palco e in studio con una delle artiste più straordinarie che mi sia capitato di conoscere anche perché, aldilà della stima e del genuino affetto reciproco che ci lega, proveniamo da mondi musicali abbastanza distanti: lei è una fascinosa chanteuse jazz/blues che si è sempre fatta accompagnare da musicisti professionisti (e talora anche da vere e proprie orchestre) di altissimo livello. Da parte sua è stato coraggioso e generoso mettersi in gioco coi Rusties, e ho la sensazione che potremmo collaborare ancora in futuro.

Nella vostra esperienza pluridecennale, come avete visto evolversi il rock italiano? Che strada sta prendendo? E quale prenderanno i Rusties?

Dopo la sbornia dell’indie rock degli anni ’90 (cha portato alla ribalta pochissimi fenomeni di pregio, ma anche alla pubblicazione di schifezze immonde, dando l’illusione a chiunque di poter “vivere di rock”) ho la sensazione che ci sia stato un ripiego su sonorità ma, soprattutto, attitudini assai poco rock. Oggi, negli USA, gruppi come Wilco, Decemberists o My Morning Jacket finiscono nella Top 10: in Italia, se fai rock da almeno quindici anni, puoi ritenerti fortunato se ti fanno suonare (gratis) nelle birrerie di provincia. Qui da noi il rock è sempre stato penalizzato da scelte e circostanze tali da impedire la nascita di una vera e propria cultura rock di massa. Non basta contare le centinaia di migliaia di fan di Springsteen, di Vasco o di Ligabue per poter parlare di “cultura rock”. E questo è da ricondursi anche al fatto che i mass media (radio, TV, quotidiani, stampa generalista) hanno da sempre trattato la materia rock esclusivamente come fenomeno di moda e di costume, o in termini squisitamente “numerici”, guardandosi bene dall’approfondirne i contenuti e ignorandone totalmente la portata culturale.

Credo che oggi il rock più genuinamente interessante prodotto in Italia sopravviva grazie alla passione e alla perseveranza di piccoli gruppi di veri appassionati che non hanno mai avuto la visibilità di palchi e vetrine davvero importanti. Nel cosiddetto underground si muovono e vivono realtà interessantissime eppure assolutamente “invisibili” al mondo della discografia, ormai interessata a dare un’esposizione mediatica solo ai “fenomeni” preconfezionati a tavolino o nei talent show televisivi.

La strada dei Rusties è sempre la stessa: forse impervia, talora insidiosa, spesso poco “trafficata”, ma certamente “aperta” e ricca di sorprendenti “incroci”. E noi confidiamo sempre che ci possa portare ovunque, perché è lungo il percorso che s’impara che ciò che conta davvero è quanto ti godi il viaggio, indipendentemente dalla destinazione.

Pietro Bizzini

(ndr. I video Youtube inizialmente inserite non sono più disponibili. Ci scusiamo)

MOVE ALONG, The Rusties – Pop Rock – maggio 2009 – Tube Jam Records

WILD DOGS, The Rusties – 2011 – Tube Jam Records

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