Gondole e Gargano

Forse è l’acqua. Nostalgie de la mère (saggezza di veterinario). La mère. La mer. Il mare. La nostalgia mi possiede da prima che il tempo, dilatandosi, le creasse uno spazio.

Potrei non averne per l’Italia? Eppure non è di quella imparata sui banchi di scuola che io sono nostalgico, non di quella che Bossi vorrebbe smembrare e Napolitano (mi sembra fu lui a dirlo, quand’era «solo» Ministro dell’Interno) difendere « anche con l’esercito, se necessario »: l’opulenta filosofia del primo mi repugna, ma quella del secondo (che la logica aristotelica mi costringe ad accettare) non mi appartiene. La mia Italia delinea e sfuma i suoi confini nel tempo, vive di terra e di cielo, di acqua, chiude e apre parentesi, pesca lontano, e quindi è anche infinita: popolata di morti, illustri e meno, di futuri cantori, di viaggiatori, di emigranti, verso fuori, verso dentro, di Italiani, di Marocchini, di Senegalesi, di Rom, di Romeni… Socialmente, potrei dire, sogno un’Italia multirazziale.

Certo se sento parlare l’italiano mi commuovo (la mia patria è la mia lingua, diceva Pessoa). Però mi commuovo anche se sento parlare lo spagnolo, l’ebraico, l’arabo dell’Egitto, o persino il greco, che non capisco, fatte salve alcune amate immagini che riemergono dal mondo antico. Ricordo ad esempio la parola « oreo », pronunziata da un vecchio monaco barbuto di fronte al mare che bagna la penisola Calcidica e il ricordarla, alla greca, mi risuona di più che non il pronunziare la parola « panettone », alla milanese. E non parlo ovviamente di politica, né voglio regalare a Bossi la Padania (in corsivo, a ricordare che è un paese che non esiste): se mi sento più a mio agio con « minchia » che con « pirla » è solo per abitudine; e quando mi dicono – me l’hanno detto recentemente – che Milano è città affascinante, non ho difficoltà a crederlo (ci ho passato solo due giorni). Ma per me, da sempre, la «patria» (fra virgolette, eh, ché la parola neanche mi piace) è il luogo verso cui tornare, è l’altrove, il «laggiù» da sognare.

Ed io sogno l’acqua, un’acqua che monta e che invade, ma come una carezza, dolcemente, facendo saltare i confini, dissolvendoli nei tramonti rossastri, o nel volto di qualcuno da amare. In questo senso ho scoperto, nella mia nuova condizione di emigrato, di pensare, più che all’Italia, al Mediterraneo. In questo stesso senso, sento di essere più vicino, nel modo di sognare, agli Spagnoli, ai Greci, ai Francesi della Camargue, agli Arabi del Mahgreb, o di Alessandria dalla lunga storia, che non a tanti Italiani.

Mediterraneo, sogno di bar con gli amici a commentare la gente che passa, di un mare così largo che può arrivare sino alle coste del Messico o del Guatemala o persino sognare se stesso, immaginandosi dove non esiste (passeggiate nella panciuta Umbria). Così riconosco l’altrove che mi identifica nei film di Toto’, nella musica della Tosca, negli sproloqui di Raimu, nelle pagine di Stendhal e Kavafis, di Mahfouz e Yehoshua, o anche di Borges, moltissimo, con i tanghi rioplatensi, lontananza paesana. La storia è vasta, vasta come il mare.

Anche se poi ridiventa piccola, veloce come un viaggio di poche ore, che bastano, in questa vastità, a svegliare il brivido dell’apertura, del salto, di un’indefinibile contraddizione. Arrivare con l’aereo da Montréal a Parigi è passo per certi versi (per altri no) più breve che passare dalla Francia all’Italia. C’è scritto sui treni, sotto il finestrino: « Ne pas se pencher dehors »; cioè: « don’t lean out of the window », « nicht hinauslehnen ». Ma in italiano: « E’ pericoloso sporgersi ». Come dire: « io ve l’ho detto, ma poi sono affari vostri ». L’avventura comincia.

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Mi manca il mare. Quello della Sicilia o di Sorrento, che ho ritrovato a Trieste e che, ne son sicuro, ritroverei a Genova (che, e ne ho vergogna, non conosco). Forse non è un caso che i miei cuori italiani battono in Sicilia e a Napoli, ma anche a Venezia, città dell’acqua per antonomasia. Uno alla volta, a turno, questi tre cuori devo tornare a frequentarli, per riscoprirne gli amici e il ritmo segreto. Per riscoprire che niente è cambiato ma che c’è sempre qualcosa di nuovo, un imprevisto, uno spiraglio. Così, quest’estate, ho cercato Venezia. E ho ricordato – camminando in avanti – le sue calli a labirinto, i suoi campi in agguato, i palazzi corrosi dalle acque. Ho passeggiato, passeggiato voracemente, per seminare le mie scorie (chi parte ne possiede molte – e anche chi resta, credo): i miei labirinti in agguato, fondamenta intaccate… Voracemente, ma i piedi per terra li poggiavo piano, solitari e notturni, per non appesantire tutta quella bellezza: perché, dicono, proprio questa bellezza rischia di scomparire, inghiottita impietosamente da quella stessa laguna che l’ha resa possibile.

(« Salviamo Venezia », consigliano gli esperti; e si affannano a concepire nell’aria cabale e disegni perché il miracolo continui a galleggiare. O se invece…? Mi sembra, guardando da lontano… – Venezia s’inabissa lentamente, opponendo al tempo la sola resistenza efficace: la resa. Cede, Venezia, ma con dignità: e forse la sua sublime agonia terminerà col sole. No, non è il tempo il nemico di Venezia, non i ritmi violenti della natura, quelli che in altri universi hanno fatto giustizia di Atlantide e Cnosso. Lo spazio, lo spazio degli uomini, dei pronipoti arricchiti di Marco Polo, oggi miliziani col telefonino, aggrappolati ai loro mezzi gusci rossi, portafogli ripieni e ignari del Giorgione: l’Italia che ci ha tradito, e che ormai, « arrambando » – it means nothing, but it sounds so good – è arrivata anche a Venezia – ma forse da tempo; perché da molto non ci venivo – . È quella la vera minaccia, non la laguna rigurgitante di Veneziani, né gli smarriti turisti col sacco a pelo. Si, « salviamo Venezia ». Ma non, come consigliano gli esperti, dalle acque, tutto sommato innocue. Salviamola, e presto, dagli stronzi… «Ecco, non dovevi dirlo, hai rotto il ritmo soave di questa prosa un po’ onirica…» … «Lo so, ma non potevo farne a meno, per questo l’ho messo fra parentesi…»).

Eppure, contro tutto e contro tutti, avvinghiata al suo stesso scivolare, Venezia vive della propria bellezza, visione onirica e scolpita nel tempo, oltre il tempo, in una specie di quasi immobile presente. Bellezza di dettagli, solitari e notturni, perché nascosta dietro l’angolo, o nei pochi respiri che precedono l’alba: due innamorati timidi e quattro conchiglie frantumate sulla spiaggia sonnolenta di San Nicoletto, un gatto sdraiato a spiare il giorno che nasce, a Torcello, lo sciabordio allunato dell’acqua, profumo d’oriente, di avventura e di calma, lo scricchiolio delle corde dei battelli, piazza San Marco, allunata anche lei, che sbuca fuori deserta, mentre aspetta con due o tre vagabondi che il sole ricominci a scaldare. Ho passeggiato, passeggiato per tre giorni. Barcollando fra la terra e l’acqua. Ero io a tremare, o questa terra, e l’acqua? Una sera, al tramonto, ho preso una gondola per passare dall’altra parte, oscillando. Non sapevo neanche come si chiamasse, ma era già lì, di fronte, come per caso: un movimento dell’onda, un sussulto, fosse caduta fra le mie braccia l’avrei raccolta, o forse saremmo caduti insieme. Invece lei, come equilibrandosi in un dedalo di cristalli, si è impercettibilmente avvitata su stessa, con grazia leggera. Sorrideva, credo felice della sua prodezza. E la gondola si è adagiata lungo la banchina, e ognuno, barcollando, ha ripreso il suo cammino. Io sono tornato nella mia città lontana, ma ancora malfermo sulle mie gambe, e ancora non so se sono io, o la terra; ancora, il passo è incerto, dondolante, come già fu quello del grande Veneziano, quando scendeva dal suo battello nei lontani paesi delle spezie. Né sapevo perché.

Poi, una sera di inizio settembre, ho sentito una canzone che si chiama « Tarantella del Gargano »; e Venezia, forse trasportata dalle acque, è riapparsa, ricongiunta (come alle origini) a Napoli, alle Puglie, alla Sicilia. Ed anche è tornata, dolcemente imperiosa, la mia antica nostalgia metafisica: dell’odore dell’acqua, delle mille acque magiche mai possedute, del sorriso in cui si specchino gli infiniti volti e che mi porti, ci riporti, indietro. Ora, la notte, aspetto: dal silenzio, che continua la musica del mare, potrebbe spuntare una gondola. (Questo, forse, non avrei dovuto dire, scrivere : perché Venezia, come dice un mio amico poeta, è troppo bella per poterne parlare… Allora ecco, se fosse così, e un po’ penso anch’io che lo sia, me ne scuso : e shhhh…)

Giuseppe A. Samonà

Pubblicato il 8 agosto 2012

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.