Gli eretici

Paradossalmente il « berlusconismo » tiene in piedi il governo e l’opposizione. In assenza di progetti politici e di nuove ideologie, il confronto si stringe su inevitabili personalismi. La sinistra deve riflettere sui suoi errori e sulle sue radici culturali.
Il punto di vista di Carlo Patrignani.

Per quante ne faccia e ne dica, Silvio Berlusconi da vent’anni domina sul Bel Paese: l’Unto dal Signore che si diletta con ‘il bunga bunga’ ha il suo maggior alleato nell’anti-berlusconismo che altro non è se non la mancanza di ‘cultura di governo’ della sinistra connessa e derivata da un ‘vuoto’ di pensiero, di progetto di società alternativa al modello capitalistico-mediatico del Cavaliere.

E quando ci si chiede, giustamente, perché di fronte al degrado prima culturale (la donna fatta oggetto e l’immigrato delinquente, sono gli aspetti più aberranti) poi politico (affari, mazzette e corruzione regolano ogni attività) prodotto dal ‘berlusconismo’ la gente non si ribelli, la risposta è semplice: perchè non c’è tuttora un’opposizione credibile portatrice di un progetto alternativo. La mancanza di ‘cultura di governo’ da parte della sinistra non è un dato opinabile: nel 1998 e nel 2008 i governi di coalizione di centro-sinistra guidati da Romano Prodi, che per due volte ha battuto Berlusconi alle elezioni, sono stati irresponsabilmente interrotti (al ventesimo mese) prima del tempo dai suoi stessi sostenitori.

I nomi dei cecchini sono noti, tanto che loro stessi hanno pubblicamente ammesso il loro fallimento: parlo di Fausto Bertinotti (defini` Prodi ‘un poeta morente’) e di Walter Veltroni che a novembre del 2007 decisero di dare il benservito a Prodi anche se il Governo deflagrò a febbraio del 2008 con le dimissioni del guardasigilli Clemente Mastella, la cui consorte fu raggiunta da un avviso di garanzia emesso da un magistrato il giorno prima di andare in pensione per illeciti compiuti come Presidente del Consiglio Regionale della Campania.

La catastrofe elettorale del 13-14 aprile 2008 (‘Sinistra Arcobaleno’ cancellata dal Parlamento e il Pd a ‘vocazione maggioritaria’ all’opposizione) ancora non ha esaurito i suoi devastanti effetti. E’ risaputo che in politica se e quando si determina un ‘vuoto’ di pensiero, di progetti, idee, proposte, questo ‘vuoto’ viene riempito dai fenomeni cosiddetti ‘populisti’, sicché chi urla di più diventa nell’immaginario ‘il nuovo capopololo’.

Da Di Pietro a Vendola, da Moretti a Grillo, da Santoro a Travaglio a Flores d’Arcais: ognuno di costoro o a volte insieme credono di incarnare l’opposizione salvo rivelarsi un manipolo di intellettuali senza truppe. La disaffezione e l’indifferenza della gente verso quel che succede sta tutta qui, nell’assenza di una ‘classe politica’ credibile, affidabile, onesta e coerente.

Questo ‘vuoto’ di pensiero, progetti, idee e proposte unito all’‘anti-berlusconismo’ fatuo e violento, sono i punti di forza di Berlusconi che, a suo piacimento, un giorno mostra i muscoli ed un altro si presenta come vittima: il risultato di questa rincorrere ogni atto e dichiarazione fa si che si parli sempre e comunque di Berlusconi, dei suoi vizietti, delle sue barzellette, delle sue escort e cosi’ via. Inseguire il Cavaliere sul suo terreno, come l’esposizione mediatica o la compravendita dei voti, è cio’ che il Cavaliere, al di là delle sue lamentele, vuole: si parli di me, bene, male, malissimo, purché se ne parli.

Un po’ come il Papa e le sue giornate: entrambi hanno sempre l’apertura dei telegiornali e le prime pagine dei giornali, e lo stesso dicasi per i rispettivi apparati, vescovi e ministri, prelati e deputati.

Come se ne esce, allora? Di certo non con appelli e fiaccolate (tanto a firmare e marciare sono sempre gli stessi!), meno che mai con sermoni ed editoriali, peggio ancora contando sulle sentenze della magistratura (non ha insegnato nulla Tangentopoli che doveva liberarsi da tangenti e affari?) che, sia chiaro, deve operare in piena autonomia ‘sempre’ per far rispettare ‘sempre’ le leggi dello Stato.

Se ne esce riacquistando la fiducia della gente spesso sedotta e abbandonata. Sembrano parole fatte, forse è vero, ma non vedo altra ‘via d’uscita’ se non come stanno cercando di fare per un verso, il leader del Pd, Pier Luigi Bersani e per l’altro, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, rimettendo al centro la grande questione civile del lavoro e dell’occupazione , ma riappropriandosi dei valori universali: libertà, uguaglianza, giustizia sociale, per costruire un progetto ed una proposta di società che sia alternativa e non una fotocopia del modello capitalistico-mediatico di Berlusconi e dei vari Marchionne, Mercegalia e Scaroni.

E per farlo mi servo del pensiero e dell’azione di due protagonisti eretici laici e…geniali della ‘sinistra’ italiana, e per questo un po’ dimenticati, Riccardo Lombardi e Bruno Trentin.

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Riccardo Lombardi e Bruno Trentin

“Viviamo e vivremo sempre di più in una società post-keynesiana o postsocialdemocratica. I problemi che essa suscita sono solo in parte un prolungamento nel tempo di quelli passati e il peggiore degli errori sarebbe di orientarsi su posizioni nostalgiche di un passato non più recuperabile. Occorre percio’ suscitare una domanda sociale qualitativamente diversa (non già, s’intenda bene, più povera ma più ricca di quella di ieri) nella società e nella classe operaia e promuovere una risposta da parte dello Stato qualitativamente diversa”. Sosteneva (1981) Lombardi teorico di “una società più ricca perchè diversamente ricca”, proposta lanciata nel 1967.

A vent’anni dalla sua morte, in un convegno, il sociologo del lavoro, Luciano Gallino affermava: “La cosa che più mi ha colpito è che in questo discorso del 1967 Lombardi non parla solo di programmazione socialista, di programmazione dell’economia da parte di forze socialiste. Parla anche dell’importanza della programmazione, della pianificazione capitalistica. Badate che non possiamo ragionare più sul capitalismo, dice, come se fosse il capitalismo di trenta o quarant’anni fa, perché oggi anche il capitalismo ha bisogno di pianificazione e di programmazione giacché deve prevedere con anticipo di parecchi anni cosa succederà sul mercato. E’ avvenuto che anche il capitalismo non abbia dato retta a Lombardi”.

La stessa idea di programmazione e pianificazione delle risorse, la pretendeva dallo Stato: le cose sono andate in maniera opposta. “Si pensi alla crisi Fiat che maturava con tutta evidenza da alcuni anni, mentre Governo e Confindustria – evidenziava Gallino – hanno perso un anno e mezzo per vedere come si poteva sopprimere l’art.18 (Legge 300) o comprimere di qualche altro punto il costo del lavoro o dei contributi previdenziali. Dinanzi alla situazione attuale, possiamo constatare quanto sia costata questa doppia mancanza di programmazione.[…]

La programmazione da parte delle forze politiche, dello Stato, del Governo presuppone un avversario, un interlocutore che sia a sua volta capace di programmare, che ragioni di orizzonti ampi, che eviti la logica del giorno per giorno”.

Dieci anni prima, nel 1958, l’Ingegnere ‘acomunista’ rifiutava il concetto di “forza produttiva del lavoro”, l’equivalente di “produttività” di oggi. “Il lavoro in quanto riducibile al prodotto del lavoro (come altro potrà misurarsi la forza produttività del lavoro se non in termini di prodotto?) ridiviene un feticcio”, ammoniva.

Pertanto « qualsiasi tentativo di definire la finalità della scienza economica che prescinda dal concetto di ‘alienazione’, è destinato alla sterilità”.

Affermazioni che trovano a più di 40 anni di distanza la loro attualità. Il punto centrale è il capitalismo, il modello capitalistico che non ha mai saputo o meglio voluto distinguere ‘i bisogni’ dalle ‘aspirazioni’ della gente: quel che conta per il capitalista è il profitto e la produttività. Un modello che prescinde in toto dal lavoratore come persona umana, portatore di ‘beni materiali’ necessari alla sopravvivenza (salario, casa, vestiti) ma anche e soprattutto di ‘beni immateriali’ (studio, conoscenza, formazione, tempo libero per se e per far l’amore) indispensabili alla costruzione di un’identità. Per Lombardi, lo “star meglio” non coincideva con l’“aver più” beni materiali di consumo. “… E’ il tipo di benessere, il tipo cioè di consumi che noi vogliamo cambiare, sono veramente le basi delle aspirazioni e delle preferenze e delle soddisfazioni da dare a queste preferenze che noi vogliamo cambiare, perché il socialismo è un progetto dell’uomo, soprattutto, è un progetto dell’uomo diverso, che abbia diversi bisogni e trovi il modo di soddisfare questi bisogni ”.

Il lascito di Trentin non si discosta da quello di Lombardi. Il capitalismo è una realtà intrinsecamente contraddittoria, tanto che “la condizione subordinata non si supererà mai totalmente. Ma questa condizione oggi è segnata in particolare dal fatto che il lavoratore non possiede le conoscenze necessarie per governare la propria attività e fare dei passi avanti in questa direzione vuol dire compiere una rivoluzione culturale ben più importante della statizzazione dei mezzi di produzione”. E ancora, “nelle nuove tecnologie vedo la possibilità per una persona di esprimersi più compiutamente. E vedo la possibilità, almeno potenziale, di impadronirsi di una problematica che può allargarsi a tutte le altre relazioni dell’esistenza”.
Il lavoro è al centro di ogni riflessione.

“Negli ultimi secoli la persona si è andata identificando in gran parte con il suo lavoro e il lavoro si pone come elemento di identità individuale, determinante dell’esistenza”. Ad esso, per Trentin, fanno capo “ineludibili legami con il mondo della natura e con il prossimo che danno senso all’uomo come nodo di relazioni, l’altro come primo bisogno. L’identità della persona si definisce fondamentalmente nel rapporto con gli altri, e il rapporto con gli altri, per l’80-90% si realizza sul lavoro”.
In questa ottica Trentin è stato un sostenitore del “salario di qualifica” e non è potuto che essere critico acceso di molti aspetti dell’egualitarismo. Dell’egualitarismo Trentin apprezza la carica dirompente ma da esso prende nettamente le distanze perché si tratta di un’azione sindacale che “in nome di un’assurda autonomia del salario, separava la retribuzione tanto dalla condizione di lavoro quanto dalla professionalità”.

Il lavoro nei paesi occidentali avanzati, ancora in una quota minoritaria ma significativa, si trova di fronte, secondo Trentin, a un cambiamento di natura, un cambiamento profondo. L’innovazione tecnologica e la nuova organizzazione industriale promuovono un lavoro qualificato, creativo che si propone come fattore insostituibile della competitività delle imprese, perché gestisce le innovazioni, la trasmissione della conoscenza. Questo lavoro ha spazi di autonomia e di creatività, ha in sé un’incessante capacità di apprendere e proprio per questa sua diversa natura, più ricca e promettente, almeno in potenza, deve essere flessibile ed adattabile. A questa necessità, che è poi la necessità del cambiamento, Trentin sostiene che le imprese possono rispondere in due modi. Con un elevato turnover dei lavoratori, licenziando e assumendo, cioè sostituendo le forze vecchie con forze nuove, oppure con un processo di costante riqualificazione del lavoro, sostenuto da un profondo patrimonio professionale, continuamente ripensato e ricostruito. E la strada che egli indica come unica strada meritevole di essere percorsa, non può che essere la seconda, perché la prima via è comunque percorribile da pochi ed è piena di sprechi. “Chi non ha i soldi è inesorabilmente tagliato fuori. E spesso è tagliato fuori anche chi ha superato una certa età. Perché non si tratta solo di adattarsi a una macchina diversa, in molti casi si tratta di ricominciare daccapo.

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Susanna Camusso, segretario della CGIL

Il problema va risolto attraverso l’accordo con l’impresa, ma anche con l’intervento dello Stato e con il contributo economico degli stessi lavoratori. I quali debbono intervenire per garantirsi questo patrimonio di conoscenza, esigerlo”. È infatti su questo discrimine che oggi si gioca la divisione della società, tra chi sa e chi non sa. Il lavoratore acquista in questo modo “ un’impiegabilità, sostanziata da un investimento dell’impresa, del lavoratore e della collettività in una formazione permanente e in una politica di riqualificazione , capace di garantire in luogo del posto fisso, prima di tutto un’occasione di mobilità professionale all’interno dell’impresa e, in ogni caso una nuova sicurezza che accompagni il lavoratore il quale dopo un’esperienza lavorativa possa affrontare in condizioni migliori, di maggiore forza contrattuale, il mercato del lavoro”.

Carlo Patrignani

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Carlo Patrignani
Carlo Patrignani vive a Roma. Laureato in Scienze Politiche con una tesi in Diritto del Lavoro, giornalista professionista (18.61987) presso l'Agi (Agenzia Giornalistica Italia) di Roma e collaboratore con riviste (Lavoro e Informazione di Gino Giugni), quotidiani (l'Avanti!) e settimanali (Rassegna Sindacale della Cgil). Autore di due libri 'Lombardi e il fenicottero' - L'Asino d'oro edizioni 2010 - e 'Diversamente ricchi' - Castelvecchi editore 2012. Oggi in proprio, freelance.