Se la religione non parla all’umanità

La crisi della Chiesa e delle Religioni innanzi alla globalizzazione. La fine del dialogo interreligioso. Benedetto XVI espressione del difensivismo del Vaticano in tempi da “guerra di religione”. La politica e la chiesa in Italia. L’importanza della laicità e del primato dello Stato. Un concordato da abolire.


La fede non ha frontiere.

vatican.jpgPer i credenti Dio guarda l’umanità nel suo insieme. Le gerarchie religiose parlano a tutta l’umanità, anche quando considerano i propri fedeli come degli illuminati, dei privilegiati, degli eletti da Dio, non possono fare a meno di considerare quei precetti validi, giusti, idonei e necessari per tutta l’umanità. Non può essere altrimenti. Il fondamento di qualsivoglia religione è la morale. La morale si fonda sul complesso di principi e precetti che regolano il comportamento personale e collettivo in rapporto ad un pensiero religioso, filosofico, culturale, politico. La morale spinge i soggetti e la collettività ad una scelta etica tra il bene e il male. Questa dicotomia, tra il bene e il male, in linea di principio e in forza ai principi appunto morali, non è suscettibile di mediazione. Se una cosa è “male” non può essere “bene” e non può essere “abbastanza bene” oppure “poco male”. Fondandosi su principi assoluti, naturalmente i fautori di quei principi li ritengono validi per tutti (erga omnes) e, pertanto, non possono rivolgersi a qualcuno si e ad altri no, poiché quel principio morale, quella valutazione etica è valida per gli europei come per gli africani o gli asiatici, per tutti. Ancor più quando questi principi sono emanati da un’autorità religiosa che si fa interprete di un disegno divino, questa volontà non può essere soggetta a modifiche interpretative o a mediazioni di comodo, non può essere rivolta solo ad alcuni figli di Dio.

In realtà, ad eccezione del Buddismo, che ha limitato la sua partecipazione agli avvenimenti politici (nel senso di prendere e di essere parte dell’azione, in questo caso politica e sociale) in una zona ampia ma delimitata dell’Asia, attualmente nel martoriato Tibet, va detto che le grandi religioni hanno esercitato un’ascendenza sui popoli anche in chiave politica e spesso con disegni imperialisti ed egemoni.

Non solo. Non può essere negata la circostanza che intorno a ciascuna religione si sono agite diverse interpretazioni delle sacre scritture (La Bibbia, Il Corano, Il Vangelo, ecc.). Diversità che spesso hanno determinato, nella Storia, scismi, guerre, persecuzioni a volte anche molto cruente.

Ancora oggi è così.

Curiosamente, in un mondo che va superficialmente e pericolosamente semplificandosi, attraverso l’attuale, inquietante processo di “globalizzazione”, che riversa sull’umanità luci ed ombre dagli incerti confini e dai preoccupanti possibili sviluppi, la Chiesa, le chiese, presentano, ancora una volta, il loro “peccato originale”, di essere soggetti politici di occupare uno spazio di temporalità nella storia politica e culturale dell’umanità.

Nulla d’illecito. E’ evidente che la chiesa proponga i suoi principi morali chiedendo che siano anche applicati all’attuale realtà che contraddittoriamente è sì globalizzata nel suo insieme, ma che presenta al suo interno una frammentazione culturale, sociale, come mai si era registrato nella storia dell’umanità ed in particolare di quella parte occidentale, intesa come area culturale e non geografica, dell’umanità.
Probabilmente una rigorosa morale, potrebbe anche essere utile a riunire, ricomporre, questa umanità coriandolarizzata, producendo un’etica condivisa e comuni forme di vita e di regole morali e pratiche comportamentali. Bisogna chiedersi se, però, le chiese o, almeno, la “nostra” chiesa stia procedendo in questo senso.

Quale è oggi il contributo della Chiesa di Roma?

 

Indubbiamente, l’era della globalizzazione ha avuto il suo vero battesimo di fuoco con l’11 Settembre, con un atto politico/religioso, il sacrificio di uomini islamici, che abbattono il simbolo del “Grande Satana” occidentale: Simbolicamente colpiscono “i crociati” nella loro casa.

Un certo Islam, quello più duro ed intransigente, quello che dai tempi di Maometto si è riformato poco o nulla, affidandosi spesso ad una letterale ed anacronistica interpretazione del Corano, dichiara la “sua” guerra di religione. Significativamente, dopo alcuni altri episodi cruenti contro il “Grande Satana” l’attenzione di questa minoranza islamica si è rivolto al fronte interno dei paesi arabi e musulmani, ancora una volta, falchi e colombe si battono sull’interpretazione delle “sacre scritture”, non cogliendo il fatto che in questa Era (svincolata da un ordinamento politico del mondo, dopo la fine dei blocchi est-ovest, si è creata una nuova frontiera, tutta economica e poco politica, tra nord e sud del mondo) diviene essenziale ricercare quelle convergenze etiche che vi sono tra le religioni. Penso ai tanti immigrati musulmani che si trovano a fare i conti con usi, costumi, tempi e modi di vita del tutto diversi dai loro.

 

Nella Chiesa cattolica, ad esempio, sembra passato un secolo da quel Concilio Vaticano secondo con cui Giovanni XXIII e Paolo VI, definitivamente offrivano la mano a quel dialogo interreligioso che dalla fine del controverso papato di Pio XII era parso indispensabile. N’è passato di tempo dalle preghiere collettive sulla pace, ad Assisi, nella terra di S. Francesco, quando Giovanni Paolo II, e diverse altre autorità religiose, pregavano insieme alla ricerca di un dio comune a tutti che ascoltasse e desse risposte all’intera umanità. Sempre più oggi l’intransigenza appare come il tragico minimo comune denominatore delle diverse chiese. La nostra Chiesa con il suo ultimo conclave e la scelta di Ratzinger quale Papa, ha espresso tutta la sua riduttiva volontà difensiva, come se si fosse alla vigilia di una vera e propria guerra di religione. Una scelta rapida, mossa dal timore di un male imminente. L’alternativa era il “progressista” Monsignor Martino liquidato in solo due votazioni. Come se in un mondo chiuso tutto nella disperata protezione di un’identità non più difendibile, finanche la Chiesa avesse scelto, mediocremente, di mantenere un suo “minimo potere” rinunciando a riformare e a riflettere su di un mondo che è, a dispetto di tutte le attuali politiche protezioniste, inevitabilmente e definitivamente cambiato. Eppure le chiese di derivazione cristiana, sono state sempre storicamente più aperte ad una visione della morale che si aggiorni interpretativamente, nel rispetto dei suoi principi, nello spirito di una pragmaticità che ben è sintetizzata dal dittico: “Ora et Labora”.
Invece, la chiesa ha chiuso un ciclo che aperto da Giovanni XXIII (il Papa buono), fu continuato, sia pure tra luci e ombre da Paolo VI (il Papa del dubbio) e poi da Giovanni Paolo II (il primo morto prematuramente, molto di positivo lasciava intravedere su questa strada) cui si deve, tra l’altro, il grande merito di aver dato “colpi mortali” a quella tragica esperienza che fu il “socialismo reale” e di aver sostenuto con forza, anche con azioni esemplari, il dialogo interreligioso.

Tutto ciò finisce con l’attuale Papa.

 

Si potrebbe parlare di restaurazione, ma non è così, il mondo va avanti e non si sta restaurando. La Chiesa come invitava vanamente, l’arcivescovo Martini, avrebbe dovuto dare segnali nuovi e forti su temi come la vita e la morte; il libero arbitrio, riconsiderare, specie per quel sud del mondo, sempre più prostrato ed affamato, le politiche sulla famiglia e le scelte in favore di un consapevole controllo demografico, riconsiderando “tabù” quali gli anticoncezionali.

Avrebbe dovuto impegnarsi, nel nome del Vangelo, ora che il “nemico” comunismo è stato definitivamente sconfitto, per uno sviluppo del mondo sostenibile, chiedendo un riequilibrio economico tra le diverse aree del pianeta. Così non è stato. Il dialogo interreligioso si è spento tra arroganti attacchi ai musulmani, riconciliando S. Pietro con gli ex scomunicati di Lefebvre, nemici giurati del Concilio, compreso il “negazionista” Williamson, cosa che, di fatto, ha precluso ogni dialogo con il mondo ebraico. E che dire delle sconsiderate e punitive posizioni manifestate in Africa e in Brasile, fino alla pretesa di santificare il quantomeno controverso Pio XII. Il Santo Padre, ridimensiona la sua figura limitandosi ad una sistematica ingerenza nei fatti, anche minimi, della politica italiana.

Tutto ciò impone anche una riflessione ai partiti italiani.

Al cospetto di una Chiesa così fragile e debole, non è concepibile che i partiti rimangano timidi, sulle scelte etiche (orribile il teatrino messo su per il caso Englaro, n.d.r.). I partiti, penso in particolare al PD, che appare il più confuso nelle sue scelte, non può abdicare, solo per motivi di equilibri interni, su scelte etiche ed ideologiche chiare. Se si è laici, lo si deve essere sempre. La laicità è un principio che non può essere oggetto di mediazione politica. Allo stato dell’arte, va chiesto se non sia il caso di riconsiderare lo stesso Concordato che, ancora oggi, appare un dogma intoccabile. Si pretende di modificare o cambiare la Costituzione ed è invece tabù, anche solo il mettere in discussione il Concordato di Mussolini. Eppure in una Italia le cui frontiere sono inevitabilmente, aldilà delle demagogie governative, sempre più aperte, bisognerebbe chiedersi se non occorre un approccio diverso sul tema delle fedi religiose, consentendo e favorendo tutti i culti nel rispetto dei nostri principi costituzionali, ma ribadendo con ancora più forza il primato temporale dello Stato. Andrebbe detto ad una politica italiana, che continua a subire un’anacronistica ingerenza della Chiesa, che mostra un’assoluta incapacità di parlare al cuore degli uomini, di fare i conti con la mutata realtà economica e sociale, che è l’ora di finirla di compromettere colpire, mi si perdoni il bisticcio di parole, la sacra laicità del nostro Stato. Perché se è vero che la nostra politica fatica ad interpretare la società, altrettanto va detto per la Chiesa che appare lontanissima dal cogliere i bisogni della sua comunità. Eppure, appare evidente che in questa fase sarebbe necessario riprendere quel dialogo ecumenico, parlare all’umanità uscendo dai particolarismi della politica italiana ed estera, farsi portavoce, di quei principi morali che non sono suscettibili di modifiche, ma che vanno interpretati alla luce della mutata realtà. Ed insieme alle altre chiese cristiane riprendere quel dialogo interreligioso, necessario anche in questa fase d’incontro e a volte scontro tra diverse civiltà.

the-vatican-counsel.jpgMolti segnalarono all’epoca quale errore quello del Conclave di voler sbrigativamente un papa, che con ironia fu chiamato il “Pastore tedesco”, quasi a guardia di una Chiesa in crisi. In realtà quel Pastore ereditava una Chiesa molto più in salute di oggi. Fu illusorio immaginare un uomo forte a reggere la Chiesa di Pietro, occorreva viceversa, un uomo coraggioso. Benedetto XVI non ha questo coraggio, e le sue recenti crisi interiori lo dimostrano. Occorreva un Monsignor Martino, magari pervaso da dubbi, ma sinceramente più adatto alle sofferenze del nostro mondo. Capace di parlare tra quelle sempre più confuse frontiere dell’umanità.

Nicola GUARINO

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.