“Chi l’ha visto?” La morte in diretta, dal cinema alla televisione

La crudele cronaca TV del programma di servizio « Chi la visto? » della morte di un’adolescente, ripropone il tema del rapporto tra spettacolo, diritto all’ informazione e rispetto del pudore e del dolore delle vittime.

Il cinema d’autore aveva già trattato, con garbo e lungimiranza, il tema (ovvero) la tragedia consumatasi sotto gli occhi di milioni di telespettatori mercoledì scorso: protagonista il programma serale “Chi l’ha visto?” di Federica Sciarelli.

In questi giorni si sovrapporranno le discussioni e i corsivi sulla tragedia della giovanissima Sarah, e soprattutto sulla inopportunità di aver seguito con le telecamere fino in fondo il volto di una madre impietrito dal dolore e dalla incredulità. Sarà pure “odiosa la tv che non ha permesso ad una mamma straziata di cercare la compostezza dei sentimenti, che non le ha dato il tempo di dominarsi” (come scrive Francesco Merlo), sarà pur vero che alla Sciarelli è capitata l’occasione della vita (professionalmente parlando), ma va preso atto che la difficoltà di gestire emotivamente quell’accavallarsi di veline d’agenzia, di presunte verità sotto l’egida dei verbi al condizionale, non sarà stata per nulla agevole. (I Vespa o lo Sposini di turno avrebbero pagato milioni per un’ opportunità simile).

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Quantunque la Sciarelli avesse chiesto più volte alla madre della povera Sarah se era il caso di proseguire la diretta, di certo riteniamo che il collegamento andava interrotto almeno venti minuti prima, consentendo alla signora di uscire di scena, previa una maggiore accortezza da parte del legale di famiglia che non ha difeso al meglio l’immagine della sua assistita. E intanto un’altra storia italiana è passata al setaccio mediatico di una informazione bramosa. Non un reality, certo, ma l’affermazione della realtà, costi quel che costi. I tragici protagonisti assenti (la giovane Sarah e la madre sgomenta) svolgono nel contesto quasi un ruolo sussidiario, ben lontano dalla pietas che invece richiederebbe, nel silenzio più profondo.

L’affermazione di questi sentimenti potrebbe compiersi attraverso il sottrarsi, lo scomparire e il ricomporsi dentro. Quasi come nella parabola che il regista francese Bertrand Tavernier realizza col suo film “La mort en direct” (“La morte in diretta”, del 1979), a metà tra la fantascienza e il melodramma. Roddy (un magnifico Harvey Keitel) è l’operatore di una rete televisiva, il quale accetta di farsi inserire una microcamera nel cervello, trasformandosi in una specie di telecamera vivente. All’inizio è felice di fare di ogni visione un proprio film: utilizza lo straordinario potere di riprendere gli ultimi giorni di Katherine (Romy Schneider), malata terminale. Ma poi Roddy entrerà in crisi, con un finale dai toni intensi fra i due protagonisti. Oltre a riflettere su una certa dissolutezza tipica dei mass media e Tavernier l’ha girato oltre trent’anni fa, il film“La morte in diretta” ammonisce che il reale è diventato una “totalità indifferenziata, un processo chiuso in cui soggetto e oggetto sono termini che non hanno più senso”.

Forse questo ci suggerisce, in fondo, anche la visione di “Chi l’ha visto?”: occorrerà che tutti cogliessimo questa ulteriore lezione.

Armando Lostaglio

P.S. Domenica 10 ottobre

DALLA MORTE IN DIRETTA AGLI AVVOLTOI IN DIRETTA

Come era prevedibile, la tv della domenica pomeriggio non poteva esimersi dal raccattare e farsi portatrice di altre verità, di altri segreti, sulla tragedia della piccola Sarah consumatasi in Puglia. I professionisti dell’accattonaggio (perché di questo si tratta in fondo), non perdono occasione di dire e ridire della tragedia, cercando di carpire i particolari più reconditi (“ma l’ha violentata subito o dopo ore?”), indugiando (come a Canale 5 dalla D’Urso) con il primo piano sulla cugina in lacrime. Gli Sgarbi e Sposini (immancabili all’Arena di Rai Uno) si vestono da psicologi e giudici-equilibristi su una vicenda che neanche Hitchkock avrebbe immaginato. E le telecamere pronte sui volti del dramma. E’ pur vero che queste persone, affrante del dolore, si prestano al massacro presentandosi davanti alle telecamere, ospitando tecnici e cavi nei salotti di casa. Ma è pur vero che non si pone un limite al privato, nessuno si pone il problema, fino alla prossima tragedia. Gli immancabili commendatori dei pomeriggi tv continueranno a profanare la memoria e l’ afflizione nome degli “ascolti”, che fanno passare come diritto di cronaca e di espressione. Fino alla prossima tragedia.

Armando Lostaglio

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Armando Lostaglio
ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica - Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l'imbrunire (2012); Il genio contro - Guy Debord e il cinema nell'avangardia (2013); La strada meno battura - a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.