Les Choses, di Georges Perec

1243-medium.jpgLa casa che avremo: divani inglesi, mobili in stile tardo impero, lampadari in art decò, tappeti maghrebini, la grande scrivania di mogano con alle spalle la biblioteca in legno chiaro intarsiato e i libri anch’essi in raffinate rilegature, il giradischi sotto la finestra che si apre sul giardino fiorito tutto l’anno che un’anziana signora curerà per noi; ampie stanze, corridoi finemente arredati e un profumo fresco e delicato che ti accolga ad ogni rientro. Lavorare, ma non troppo, e soprattutto avere un posto importante ma non subordinato agli ordini di un direttore stressato dagli indici di guadagno, ad ogni modo avremo denaro a sufficienza per poterci permettere un lavoro che non prenda molto tempo. Passare le serate con gli amici, bere birra nei nostri bar preferiti, fumare Gitanes fino a bruciarsi le dita e poi camminare, per ore ed ore marciare tra le vie familiari del quartiere latino fino a vedere i primi raggi del sole che sfiorano la cupola del Pantheon.

Questo il libro che avremmo voluto fosse scritto su di noi e invece la storia è un’altra.

La casa che abbiamo è stretta, i muri stinti ci opprimono, le tende sono da cambiare, i dischi e i libri (non molti a dire la verità) sono ammassati alla buona su una mensola che sporge da un ritaglio di cucina, l’unica finestra dona sul grande albero nel giardino che però non è il nostro (ma è già qualcosa per Parigi) e che a volte somiglia ad una giungla. Di certo ce ne sarebbero di lavori da fare, ma per un motivo od un altro non ci siamo mai motivati a cominciare. Ad ogni modo non possiamo dire di essere tristi, abbiamo amici fedeli, lavori che ci lasciano il tempo di dedicarci ai nostri sogni e di viaggiare nel resto della Francia, bisogna solo abituarsi a delle formule e a dei volti prestabiliti. Sempre le stesse domande, “cosa ne pensa del nuovo prodotto x ?”, “quante volte a settimana guarda la televisione?” ecc.. ecc.. ma d’altronde è questo il mestiere degl’intervistatori per le compagnie di statistica. Les_choses_1.jpg

La vita da studenti è finita ma di certo non è cominciata quella da adulti, la differenza è che ora abbiamo uno stipendio e una casa nostra, chi l’avrebbe mai detto quando ci conoscemmo nei corridoi della Sorbona. Siamo ancora giovani, e lo saremo ancora per un po’, almeno finché lo vorremo. E che dire delle serate passate davanti alle vetrate dei negozi della rive gauche a guardare i vestiti di tweed e le camicie di seta, o quelle scarpe italiane che neanche con tutte le paghe dell’anno potremo comprare, con gli occhi pieni di futuro e le tasche vuote. Cercare per terra qualche biglietto della metro non usato o camminare fino a casa parlando di quei sogni che si fanno da svegli, poi una volta arrivati a casa, nel letto che prende quasi tutta la camera, continuare a fumare l’ultima sigaretta in due fino a che il sonno non inghiotta l’ultimo discorso.

Poi un giorno decidere che tutto questo non è abbastanza e mentre vediamo gli amici che decidono di cambiare vita, che prendono dei lavori seri, che si trasferiscono in case più grandi arredate come quelle dei loro genitori, dirsi ancora una volta che è il momento di cambiare. La campagna forse, un luogo tranquillo, dove poter passeggiare e vivere semplicemente, “si, ma resisteremo?” E la sera con chi parleremo, in quale bar andremo? No, meglio di no, meglio rimandare…fino a quella mattina in cui l’annuncio sul giornale dice che cercano due insegnanti per la Tunisia: la nostra occasione. Allora fare le valigie, inviare i libri e i dischi, sentirsi euforici alla vista delle coste africane e del mar Mediterraneo, entrare in un altro mondo con la voglia di calarsi completamente nella realtà “coloniale”. Purtroppo questa volta è molto peggio della realtà: il villaggio dove ci hanno assegnato l’incarico è un vecchio paesino perduto nel deserto a duecento km da Tunisi, nessuno per parlare, la mini-società europea divisa da quella araba. E così inizia un’ anno di sofferenza, di passeggiate sempre uguali e mai interessanti, di gite fuori porta che lasciano più tristezza che altro, un anno aspettando il momento in cui l’anno scolastico volga al termine per poter finalmente tornare in quel buco che così tanto ci manca.

Decidere alla fine che anche per noi è arrivato il momento di cambiare, di “evolversi” come gli altri, non si può restare prigionieri di una vita in potenza per tutti gli anni a venire. Chissà perché, ma rendersi conto che qualcosa è finito, che un periodo si è chiuso, che il sogno è entrato nella sfera dell’impossibile, rassegnarsi così ad una vita come quella di tutti gli altri ed abbandonarsi ogni tanto, solo qualche volta, ad un ricordo nostalgico di un passato assassinato.

perec.jpgQuesto il libro dice, né più né meno. Certo si potrebbero scrivere delle pagine sulla critica del consumismo sfrenato, sugli effetti dell’omologazione culturale, sui problemi dell’individuo nella società massificata del dopoguerra. Non che sarebbe un discorso vacuo, ma per una volta, delegando completamente alla lettura del testo il compito di spiegarsi, ci limiteremo a seguire la storia di questi due anonimi ragazzi nella Parigi dei primi anni sessanta. Le reazioni al gaullismo, il dramma della guerra d’Algeria, la sensazione di essere i primi a non avere un ideale per cui lottare e morire, tutto questo c’è ma quale recensione può parlare meglio di come non abbia già fatto lo scrittore? E poi soprattutto: la fine della giovinezza, o meglio la transizione. Il passaggio da un età ad un’altra, da un mondo all’altro, proiettati verso un futuro da fiaba a lieto fine, ma costretti in un presente dove arrivare a fine mese non è evidente e dove comprare una camicia è un investimento serio. Definire “Les Choses” romanzo di formazione è sicuramente riduttivo nella misura in cui, in questo libro la formazione è terminata, ma il problema è che non ha dato certezze. Non ci sono traguardi importanti alla fine del percorso, solo un avvenire fatto di vita normale da accettare o rifiutare, chi non crede alla differenza della gioventù non troverà in questo libro una valida lettura. E anche chi volesse approcciarsi con un occhio da giudice della morale e del costume resterà spiazzato dalla schiettezza disarmante con la quale il desiderio è idealizzato e assunto a motore del vivere quotidiano. Troppo facile tacciare l’opera di scarso approfondimento o di espressione pura e semplice delle aspirazioni piccolo-borghesi di due adulti in formazione. Soltanto una lettura sincera porterà ad assaporare a pieno il gusto di questa piccola epopea dei giorni nostri (o comunque di un passato di poco cambiato), che non si propone di dare giudizi, ma soltanto di raccontare e di rappresentare.

Sabato Angieri

georges-perec.jpg Les Choses. Une histoire des années soixante (Julliard, collection Les Lettres nouvelles, 1965, prix Renaudot)

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