La Vita Bona di due rapper napoletani: Co’Sang

Luchè sembra molto scocciato da questo gran parlare che si è fatto attorno a uno solo dei pezzi di Vita Bona, ultimo album del duo hip hop napoletano Co’ Sang (di cui l’altra metà è Nto). Il pezzo è Mumento d’onestà, in cui il duo si scaglia contro gli effetti collaterali di quello che ormai si è soliti definire gomorrismo, ovvero quel portato (distorto?) di uno dei libri più importanti di questi ultimi anni: Gomorra ovviamente.

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Una lettura del pezzo molto di comodo sembra dire Luchè e soprattutto la volontà di racchiudere un percorso più lungo, come quello dell’album, in una sola canzone o, addirittura in poche righe. Vita Bona è senza dubbio altro (sebbene i Co’ Sang non potevano non sapere cosa questo pezzo avrebbe scatenato), un cambiamento – non radicale, ma sempre cambiamento – rispetto a « Chi more ppe me » l’album del 2005 che li aveva scagliati nel gotha dell’hip hop italiano e che aveva fatto sì che Marianella diventasse qualcosa in più che un quartiere napoletano, rendendolo un luogo importante nella mappa musicale italiana. Certo sull’onda di quello che in quegli anni stava succedendo a Scampìa e anche di Gomorra, ma soprattutto di testi e musiche che avevano spaccato una cortina che voleva l’hip hop da Roma in giù un surrogato da non tenere d’occhio (un movimento che si prenderà qualche soddisfazione, con Fuossera, Alea, ‘A 67 e tanti altri).

I primi ascolti di Vita Bona sono stati strani, un album che ai primi giri nell’ipod faticava a entrarmi in testa, forse abituato alle sonorità che nel 2005 mi avevano accompagnate in giro per Napoli. Non fidandomi, comunque dei primi ascolti, l’album ha continuato a girare e piano piano i pezzi si sono fatti spazio in una play list in cui il rock faceva la parte del leone. Le sonorità sono cambiate, molto vicine a un paese, la Francia, che fa dell’hip hop e del rap un cardine della colonna vertebrale musicale del paese, a differenza del nostro. I testi invece raccontavano sempre quelli che sono i luoghi che i due Co’ Sang frequentano, una Napoli più piovosa che solare, vite difficili, rimpianti, speranze e l’amore per la prorpia terra comunque e sempre. Testi che a volte sono ambigui: « Nuje nun simm’ contro nisciun, simm’ a favor ‘e l’emozione! » (Mumento d’onesta) ma il testo, tutto, di « Riconoscenza », una dichiarazione d’amore alla propria città, o l’amarezza di « Casa mia » che riconciliano con la durezza del resto dell’album. Continuano ad esserci pezzi migliori e pezzi (uno o due) che sembrano (non me ne vogliano) incanalarsi in quel mondo dell’hip hop che non ho mai capito, quello delle lotte intestine, del parlarsi addosso, ma sono solo attimi, istanti che poco hanno a che fare con la totalità.

Le scelte delle collaborazioni sottolineano il cambiamento di cui abbiamo parlato, con le radici sempre lì, a Napoli. Akhenaton (IAM) uno dei punti di riferimento dell’hip hop d’oltralpe, con origini napoletane, in « Rispettiva ammirazione », ma anche Monsi du VI, giovane speranza musicale francese, che a Secondigliano ci ha vissuto un bel po’ di tempo, e che firma uno dei pezzi migliori. Poi gli amici di sempre Fuossera in « Nun saje nient’ ‘e me » e Marracash (Club Dogo) e El Koyote e una colonna della musica made in Naples come Raiz.

Non sono un fan accanito dell’hip hop, non è il mio mondo, ma ho voluto ascoltare quest’album e parlarne, ho voluto immergermi in questo (e altri) album, in una continua ricerca di quella che è la musica in Campania, di quello che è il racconto di Napoli fatto da chi ne ha fatto il proprio mestiere, la propria scelta di vita. E non me ne pento!

L’intervista a Luchè dei Co’Sang

Bando alle mezze misure, al politically correct e al volemose bene. Luchè, insomma, non le manda a dire, in un’intervista che avrei preferito fare telefonicamente, ma che per vari motivi è stata fatta via mail, così come via mail ci sono state puntualizzazioni (mie) e controspiegazioni di Luchè (disponibilissimo). Non le manda a dire, dicevamo, perché in poche righe metà Co’ Sang (l’altra è Nto), ci spiega perché l’hip hop, e il rap in particolare, in Italia, a differenza che in Francia , per esempio, non attecchiscono: perché il “90 percento dei rapper italiani sono scarsi” e perché le case discografiche non ci credono poi tanto. Ma non finisce qui, ovviamente il discorso non poteva non cadere anche su Mumento d’onestà, la canzone che li ha messi nell’occhio del ciclone per il loro pensiero su “chi ha sfruttato il fenomeno gomorra, vendendo alla povera gente un’utopia (quella di poter cambiare le cose con delle canzoni, brutte tra l’altro) con il solo scopo di darsi visibilità” e sul giornalismo italiano. Ma come detto nella recensione all’album, Vita Bona è anche altro, è un cambiamento nel sound del gruppo, una virata verso la Francia, appunto, che sfocia in due collaborazioni interessanti, una con un colosso del movimento d’oltralpe (Akhenaton) e l’altro con una giovane speranza (Monsi du VI), oltre a quella con Raiz e con Marracash dei Club Dogo e El Koyote ed è un atto di Riconoscenza alla loro città.

Chi more pe’ mme è del 95, Vita Bona del 2009. Cosa è successo in questi 4 anni?

Beh sono successe tante cose, in primis abbiamo fatto un bel tour di 45 date che per un gruppo hip hop proveniente dall’underground non è affatto male, in più si è allargata la nostra fan base che ci permette di far girare la nostra musica sempre di più.

Sempre Napoli al centro dei vostri testi. Sarebbe possibile farne a meno? Com’è l’accoglienza a Milano, per esempio?

Mah, nel disco Vita Bona, Napoli si intravede nelle nostre storie, sia personali che in terza persona, ma non potrebbe essere diversamente visto che è il background da cui veniamo ed il posto che ci ha cresciuti. L’accoglienza a Milano è stata sempre grandiosa in quanto lì abbiamo tanti amici per cui proviamo una stima reciproca e poi ci sono tanti figli di immigrati che tramite noi avvertono un legame con le loro terre d’origine.

Se i testi raccontano per la maggior parte i vostri luoghi e la società in cui vivete, come succedeva, in qualche modo anche in Chi more pe’ mme, il suono si è modificato. Siete molto vicini alla Francia, dove l’hip hop è una cultura ben radicata…

Si , il primo disco ha un sound molto più underground di questo, ma il tutto è frutto del fatto che “Chi more pe mme” è stato realizzato più di 3 anni fa, in quanto la sua concezione è durata almeno 2 anni. In tutto questo tempo il sound dell’hip hop è cambiato e noi siamo sempre stati degli attenti osservatori, e per essere considerati al passo con i tempi devi per forza dare uno sguardo a quello che c’è fuori dalla tua nazione, ovvero l’Europa e l’America. La Francia ha sempre avuto una scena hip hop fortissima, infatti nutriamo un grande rispetto per i francesi che sono riusciti a fondare un proprio movimento forte.

In Italia rap fa rima con polemiche. Leggevo della polemica tra Club Dogo e Assalti frontali, ma anche voi ci andate giù pesante. È abbastanza evidente a chi vi riferite quando parlate di gente che si è fatta i soldi sulla scia di Gomorra. Dall’esterno sembra che quasi sia fisiologico, che ce ne sia bisogno… non c’è il rischio di parlare solo a pochi?

Ma il rischio di parlare solo a pochi ce l’hanno un po tutti gli artisti non-commerciali.

Il brano-polemica di cui tu parli è “Mumento d’onesta”, ma è solo uno su 13 tracce, non è che noi facciamo polemica ogni volta che scriviamo un testo. Diciamo che in questo momento ci andava di chiarire il nostro punto di vista su cosa sta succedendo tra gli artisti di Napoli, nell’era post gomorra.

Orelsan, rapper francese, è stato denunciato dallo “stato”, dimostrazione della considerazione, dell’attenzione che si dà a questo tipo di musica fuori dall’Italia. Qui da noi continua ad essere musica per pochi. Quale credi sia il motivo?

Il motivo è in primis la mancanza di talento, il 90 percento dei rapper italiani sono scarsi. Il secondo è che la gente qui in Italia non è cosi profonda da interessarsi ad un movimento-stile di vita, che si differenzi dal modello di « essere Italiano » che si vede in tv. La massa qui somiglia ad un tronista di uomini e donne, non ad un rapper. Il terzo è che le case discografiche non sono in grado, né hanno il coraggio di investire veramente e di rendere la figura del rapper più imponente, più interessante, più matura. A loro serve solo un fantoccio che venda ai 12enni per qualche mese, e va bene cosi.

Monsi du Six e Akhenaton sono rapper francesi, ma con un legame con Napoli. Cosa vi lega? Solo questo legame?

Con Monsi ci lega un’amicizia che dura da diversi anni, visto che ha vissuto a Napoli per un bel po’, con Akhenaton ci lega una rispettiva ammirazione (titolo del brano che li vede assieme ndr) per i posti da cui proveniamo e dalla musica che facciamo.

Non volete essere etichettati come i rapper contro la camorra. Capisco quello che volete dire ma non rischiate un fraintendimento?

Di un fraintendimento non ce ne può fregar di meno. Essere etichettati come tali è semplicemente riduttivo e a dir poco pesante. Noi non predichiamo, non ci sentiamo in grado di poter dire cos’è giusto e cos’è sbagliato. Mettiamo solo la nostra vita in musica per far sì che la gente si rispecchi.

Veniamo a una polemica che vi ha colpito. Vabbè, diciamo chiamata! Non farò l’analisi del testo come ha fatto qualcuno, però non posso non notare come parlate ad esempio anche di magistrati oltre a cantanti “che vogliono sfruttare la scena”, insomma sembra un attacco a tutto quello che c’è stato dopo Gomorra. Il gomorrismo ha diverse facce, ma non si rischia di gettare tutto nello stesso calderone?

La parte dei magistrati è stato un errore di qualche giornalista che invece di andarsi a leggere il testo tradotto si è valutato capace di intendere il nostro dialetto, causando la diffusione errata di una delle nostre rime. Nto nella prima strofa del pezzo, dice « cantanti-magistrati sfruttano la scia di un marchio registrato », ecco, cantanti-magistrati , non solo magistrati, intendendo questi cantanti che assumono un ruolo quasi da magistrato, riducendo la loro musica ad una utopica battaglia contro la criminalità. Non vogliamo fare di tutta l’erba un fascio, abbiamo fatto solo un pezzo dove puntiamo chi ha sfruttato il fenomeno gomorra, vendendo alla povera gente un’utopia (quella di poter cambiare le cose con delle canzoni, brutte tra l’altro) con il solo scopo di darsi visibilità.

“Voi fate i nomi do sistema e non chill’ do stat’”, ma prima non si facevano manco quelli…

Questo è vero, adesso almeno si fanno i nomi, perchè qualcuno ha capito quanti soldi si possono guadagnare sulle disgrazie di un popolo, ma se non ci sarà mai un intervento preciso e veramente efficace (da parte dello stato), questo fare nomi non farà altro che dipingerci per sempre come un popolo di criminali. Fare nomi non cambia la condizione della nostra vita. La gente ha sempre più paura di venire qui, siamo visti come la fogna d’Italia. Intanto qui la fame è ancora cosi forte che non c’è davvero più speranza per il futuro. Perché non parliamo dei problemi che la gente normale deve affrontare tutti i giorni? E’ cosi facile condannare un peccatore. Un criminale o va in galera o muore da criminale, ma in tutto questo, chi gli ha permesso di vivere da criminale?

Ma c’è una risposta alla domanda che vi ha fatto XL: da che parte stanno i Co’ Sang?

Siamo dalla parte nostra. Ci siamo fatti il culo per arrivare ad avere quel poco che abbiamo. Ci sono le nostre vite di cui prendersi cura, ed il nostro lavoro si chiama musica, non magistratura o polizia. Veniamo pagati per fare concerti ed intrattenere la gente, siamo sinceri verso il pubblico. Nei nostri pezzi c’è la nostra vita, fatta di sbagli e di scelte dolorose, poi sta al pubblico capire il senso delle nostre rime.

Nessuno ci paga per combattere contro qualcosa ne siamo nati con il dono divino di poter cambiare il mondo. Solo in Italia si può pretendere da un gruppo musicale di schierarsi contro qualcosa per poi attaccarlo se non si dice ciò che si vuol sentirsi dire. Qui piace a tutti parlare tanto, mettere pettegolezzi , creare scoop sulla pelle degli altri, riempire di responsabilità due ragazzi che raccontano semplicemente di se stessi, per poter parlare ancora una volta di ciò che tutti sanno ma che fa sempre audience.

Noi facciamo hip hop, abbiamo l’umiltà e la consapevolezza di dire che la musica può sensibilizzare l’animo di un singolo, ma non può aumentare uno stipendio o ripulire le aiuole di Secondigliano da tutte le siringhe. Se vi va, ascoltate le nostre storie, calatevi un po di più nei panni dei napoletani, ma non cercate in noi soluzioni o prese di posizione, non è compito nostro. Non siamo in grado! Non abbiamo abbastanza potere! Forse per voi giornalisti, come il discorso sui criminali che ho fatto prima, è più facile criticare un gruppo musicale per la non presa di posizione che impegnarsi concretamente nel trovare i veri colpevoli di tutto questo schifo.

Per concludere, comunicano e fanno ragionare molto di più i nostri pezzi che nascono dal di dentro, della vita di strada di Napoli, che i pezzi di chi si mette li come un professore, credendo di poter insegnare qualcosa alla gente.

Intervista di Francesco Raiola

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