Bruno Galluccio: La misura dello zero

Su Missione Poesia Bruno Galluccio: fisico di formazione, è uno dei pochi poeti capaci di coniugare queste due discipline in un unico versante, ricco di spunti di riflessione e di caratteristiche che si legano alla perfezione nei testi, che colpiscono proprio per i contrasti che creano e i corti circuiti che producono. La sua produzione, se pur contenuta in due soli volumi, «Verticali» e «La misura dello zero», entrambi editi da Einaudi, ha tuttavia raggiunto ormai alti livelli di riconoscimenti e apprezzamenti ovunque, per la singolarità della dimensione poetica raggiunta.

Bruno Galluccio è nato a Napoli dove tuttora vive. Laureato in fisica ha lavorato in un’azienda tecnologica occupandosi di telecomunicazioni e sistemi spaziali. Il suo primo libro di poesia è “Verticali” (Einaudi 2009), cui ha fatto seguito “La misura dello zero” (Einaudi 2015).

Bruno Galluccio, foto di Angelo J. Zanecchia

Conosco Bruno Galluccio da alcuni anni. Con lui ci siamo ritrovati già alcune volte a incontri di poesia dove entrambe siamo stati protagonisti. Da subito mi ha colpito questa potenzialità espressa della sua parola, che non si accontenta di utilizzare le metafore e le similitudini classiche della poesia, ma che azzarda una lingua che, in apparenza, non appartiene al genere. Fisico di formazione, è uno dei pochi autori capaci di coniugare queste due discipline in un unico versante, ricco di spunti di riflessione e di caratteristiche che, diversamente da come si potrebbe immaginare, si legano alla perfezione nei testi e, anzi, colpiscono proprio per i contrasti che creano e i corti circuiti che producono. La sua produzione, se pur contenuta in due soli volumi, entrambi editi da Einaudi, ha tuttavia raggiunto ormai alti livelli di riconoscimenti e apprezzamenti ovunque, per la singolarità della dimensione poetica raggiunta.

LA MISURA DELLO ZERO

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Ci sono molti modi di parlare del sentimento dell’abbandono, e del vuoto che inevitabilmente si prova, intorno a noi e dentro di noi, quando accade una simile circostanza che ci riguarda. Molti modi anche che si basano sull’esperienza di questa dimensione, sulla nostra capacità di reagire in una certa maniera piuttosto che in un’altra e, nel caso della poesia, sulla modalità di intendere quest’arte e sul come forgiarla ai nostri intenti.

Certi poeti, giusto per fare qualche esempio, ne parlano in termini più lirici, riflettendo sull’abbandono in amore, come Vincenzo Cardarelli che nella poesia dal titolo Abbandono si strugge in un canto nostalgico d’amore per la donna persa, che non è più con lui, paragonandola a una colomba, laddove le ore sono ormai solitarie e i luoghi sono sepolcri; altri ne fanno una questione più legata alla modalità di relazionarsi con gli altri e con il mondo, come Alda Merini che nel suo Clinica dall’abbandono ci fa sentire come l’atteggiamento anticonformista da lei adottato, le abbia provocato la solitudine della pazzia, l’inquadramento in una sorta di ibrido che non la fa riconoscere né madre né donna; altri ancora ne concepiscono il trauma da cui deriva una scissione dell’identità, come Umberto Saba – che subisce l’esperienza dell’abbandono sia dal padre che dalle due madri, quella vera e quella adottiva – e che nelle sue Canzonette rappresenta la propria instabilità dell’io e ne fa il filo conduttore della sua vita, tra la poesia e la psicanalisi.

Nel suo libro poematico, La misura dello zero, articolato in cinque sezioni Misure, Sfondi, Matematici, Transizioni, Curvature, per Bruno Galluccio il vuoto diviene, così come oggi sappiamo – dice l’autore stesso – un tutto occupato da fluttuazioni quantistiche, ovvero uno spazio riempito di materia, mentre lo zero non è un niente, ma ha una sua funzione fantasma/un valore esatto: in tal modo l’abbandono, recuperabile già dalle paure della mitologia infantile, sembra un qualcosa di meno orrorifico, se pur solo in apparenza, e vedremo perché.

Posta in questi termini, e con questa terminologia, la questione può apparire, comunque, risolta frettolosamente, osticamente e, ai non addetti ai lavori – Galluccio, come detto, è un fisico in origine – diventare quantomeno poco chiara, tanto da far allontanare i già pochi lettori di poesia anche da questi testi che, invece, hanno certamente un fascino che non è solo metafisico: essi si intuiscono dotati di grande umanità e di squarci illuminanti di cuore e passione terrena e divina, capaci di stordire e sorprendere come pochi.

Infatti, senza presunzione di verità, e pur comprendendo nella varietà di recensioni a questo lavoro, le diverse interpretazioni che, ovviamente, si impegnano a trovare gli abbinamenti più scientificamente rilevanti alla versificazione del poeta partenopeo, ritengo che se ne possa dare una lettura anche sviluppando il discorso in un’altra direzione, forse inimmaginata anche dallo stesso poeta – non saprei dirlo – ma credo piacevolmente sorprendente, una direzione che mi attenterei a definire più attinente alla sfera del sentimento e della spiritualità.

Dalla prima sezione Misure , dove predominano le incognite delle paure dell’abbandono che, se pur riprese nel vuoto non-vuoto di materia, esistono e bastano a far sentire il senso di spaesamento, prevale ciò che più si teme che incomba ovvero la morte e, insieme a questa, l’ansia di non restare abbastanza, di non lasciare un segno, di perdersi nelle sviste. In quest’ansia compare evidente, in un testo clou della sezione stessa, il richiamo a Quasimodo, ovvero a colui che in estrema sintesi meglio ha rappresentato il passaggio dell’uomo sulla Terra: trafitti dalla costanza della luce/ripensiamo i nostri moti relativi/la solitudine è sul carello in movimento/[…] non più indipendente/la distanza della sera… in quest’ansia c’è, ancora, il grande bisogno di ritrovare le origini mentre tutto si svolge come era stato intuito e ciò che non conosciamo nutre la nostra meraviglia, nel magma cosmico di leopardiana memoria dove tanta parte dell’esistente si sottrae.

Per ritrovare le origini bisogna recuperare la memoria, bisogna passare dagli Sfondi – ovvero dalla seconda sezione – dove l’evocazione del passato che si aggrappa alla polvere, agli eco, all’assenza di odori, alle ragnatele, si solidifica in quadri d’insieme che riproducono contesti: forse sono foto, o forse solo ricordi visionari, ma le immagini sfumate in evanescenze grigio seppia, con i corpi a balzare nel futuro, e il ricordo dell’altro volto/la nonna che li guardava/e il ripostiglio di radici/e di geli che si apriva; la foto di gruppo con qualcuno che compare mosso, ed è il quarto in alto sulla destra/ è la spalla di colui che non voleva esserci; le sedie che tornavano ai loro posti; gli incidenti e le nascite; il cielo aspro di stelle dove [si scende] per separare le ore dai secoli… tutto tiene il filo del racconto per collegare le persone/e tenere insieme il tempo, tutto serve a consolare e a recuperare perché ciascuno entra nei sogni con l’abbandono e il sollievo/di essere una solitudine.

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Dalla memoria collettiva, che ancora perdura nel ricordo e nell’affetto personale, saltano fuori le figure di tre grandi Matematici – titolo della terza sezione -: Pitagora, immaginato mentre paragona la matematica a una lingua per decifrare il mondo; Evariste Galois, descritto quale genio romantico che vive fuori da un tempo che non lo comprende, parlando già al futuro, un tempo che gli sarà negato per la precoce morte in un duello; Kurt Gödel visto come il genio per il quale indeterminato e indecidibile/fanno irruzione nel mondo.

La quarta sezione, Transizioni , è quella che più si avvicina all’idea di metamorfosi che il poeta compie per trasformare la sua natura di fisico, adeguandola ad una concezione più spirituale e, a tratti, persino religiosa dove il presente può mancare ma il futuro diventa un calcolo di probabilità sotto l’occhio semi ironico di un Dio che ha dato un Figlio per la salvezza dell’umanità. La dimensione cristologica, camuffata in agganci terreni non sfugge affatto in questa sezione dove, anche la terminologia diventa più corporea e corporale, gli oggetti si fanno correlativi oggettivi dei sentimenti, scompaiono per buona parte le icone scientifiche. Un racconto di madre (che sia Maria?) fiorito di dettagli credibili apre la scena su una casa dimenticata, sul vuoto e sui frantumi che si radunano mentre c’è una misura nella pietra/che si alza e risplende; poi la pietra è già levata abbastanza/nell’aria tiepida come un insieme di domande (pare il Sepolcro già vuoto del Cristo); in un andamento a ritroso troviamo anche la passeggiata (forse la salita al Calvario) che … era a tratti contenuta/da un passamano di corda/assecondava le rientranze della roccia; mentre ancora il corpo era la ferita che il corpo portava/la piazza era la madre cresciuta sotto le bombe (in una similitudine dove Maria si accomuna, nel dolore, alla sofferenza di tutte le madri) sognava di stare lontana e divenire pioggia/con le mani che accumulavano la fame/il chiodo infisso nel buio (i chiodi del Cristo crocifisso) in una natura ondulatoria della materia che si fa incerta per il peso della sofferenza stessa.

In un andamento che pare sempre a mezza via fra il sogno e la realtà, dove il sogno è sempre il luogo inospitale dell’abbandono da valicare, (quell’abbandono che torna dalla prima sezione) fatto di lacune e terra svaligiata dal buio, dove l’abitare le costole comporta il coprire le spalle a qualcuno (forse all’uomo da salvare), non c’è nulla di più irreale del passaggio tra il sonno e la veglia e ancora il sonno, perché non tutto è sogno ma qualcosa aiuta a evadere l’ultima sera, quella dove il cielo (dov’è il Cristo) ha dissolto la solitudine e c’è parvenza di un qualche livello di cambiamento che sfugge/sulla retina fredda dell’universo.

La misura dello zero si chiude con la sezione dal titolo Curvature , dove si contiene la parte più intima e profonda della raccolta: qui il sentimento dell’abbandono ritorna con tutto il suo fardello di orrori, che in apertura si era cercato di eludere. Per aiutarsi a sopportarlo l’unico modo è trovare un alter ego su cui rispecchiarsi, con cui confrontarsi, al quale addossare la resa dei conti della natura stessa della fisica e delle sue leggi: il rinfrangersi della luce non può che ritornare a contemplare quella presenza cristologica già menzionata nella precedente sezione. Ecco allora che gli uomini portano i ceri, si ritrovano nelle chiese, si inginocchiano per espiare peccati, anche quello di non credere che ci sia paradiso; ma, a volte, non basta e dopo le morti viene la perdita dell’identità se pure: nella mancanza del mondo lui torna. Da qui ricominciano i sogni, alcuni terribili: l’ascensore che non si ferma al piano, il gelo che entra nella casa spoglia e il traghetto che non si ferma, il tentativo di scrollarsi il dolore/per la pesantezza delle mani. Da qui si concretizza la ricerca delle origini: nell’ultimo cassetto/sono rimasti documenti e foto, gli eventi si vanno coagulando/in luoghi indipendenti dalla loro nascita. Da qui si ritorna al marmo che accoglie lo sguardo per primo/subito una voce che non si sente/ma si vede nel movimento minimo del corpo/di una donna minuta/una specie di aura che riunisce… siamo forse di nuovo al Sepolcro e la voce, da subito non sentita, dice “Noli me tangere” alla donna con l’aura che è Maddalena mentre ci interroghiamo sui nomi degli eroi e le ombre che aiutavano sono dissolte mentre si annuncia un’alba abissale.

Nessuna conclusione se non quella di osservare che il cielo declina/ il plurale del tempo mentre gli uomini riflettono nello spazio la propria luce, e si salvano con lo spirito che li sostiene in quest’opera di grande perfezione e, per chi scrive queste righe, più filosofica che scientifica, più umana che spaziale e soprattutto dotata di un grande potenziale linguistico e sintattico per il genere che rappresenta, rinnovando fortemente i paradigmi noti e regalando nuovi spazi di frontiera tra le arti dell’immagine e della parola, con quadri che si solidificano nelle mani e nella mente, dov’è possibile intravedere le pennellate di colore rubate a tavolozze di pitture impressioniste.

Alcuni testi da La misura dello zero:

quella che vedi mescolata al giorno

è il residuo di una polvere

che viene da un tempo remoto

oggi gli strumenti catturano le vibrazioni della terra

fiumi di metropolitane misure prese dal buio

e portate alla coscienza dei grafici

è un passaggio al limite dell’immaginario

scoprire anche il vuoto con le nostre parole

precipita la capacità di narrazione

e si espande al di fuori degli spazi

anche le particelle maturano e crescono

aggrappandosi alle nostre riflessioni

*****

il vuoto sempre un enigma e un mito

abitante con orrore delle prime

domande infantili sull’universo

quando uscire dalla casa è pensiero

e l’oltre era segnato

dall’incubo dell’abbandono

e quel vuoto sembrava proprio

lì fuori di casa in agguato

un agguato lontano e incombente

un allontanarsi da cieco

o muoversi senza ragione

abbandonando i punti cardinali

oggi sappiamo che il vuoto non esiste

ci sono ovunque fluttuazioni quantistiche

ovunque perturbazioni di campo

che fanno apparire fotoni o materia

perché anche qui lo zero

è una funzione fantasma

un valore esatto che non si può raggiungere.

*****

il cielo è diventato alto aspro di stelle

così discendiamo nella nostra macchina

a separare le ore dai secoli

per tentare inclinando

la millesima porta del riposo

la campagna respira attimi nelle vicinanze

e i piccoli salti hanno facilità terrestre

le nostre ombre che non esistono

le nostre riflessioni separate

ritorni sopra immagini di ritorni

piccoli laghi il nostro sereno terribile

*****

la luna onora le finestre chiuse

hanno sogni di rarità

perciò proiettano disegni

lungo le pareti

la nascita le attraversa

ma adesso non tutto è sogno

il tempo preserva le sue ore

nel bruciare discreto delle dita

il plastico curvarsi delle scapole

nello strisciare ferendosi la bocca

amano quindi come si può

durante una caduta

in oscura verità

dove più si tende la scena

e imitazioni di ombre diventano corpi stellari

*****

morire non è ricongiungersi all’infinito

è abbandonarlo dopo aver saggiato

questa idea potente

quando la specie umana sarà estinta

quell’insieme di sapere accumulato

in voli e smarrimenti

sarà disperso

e l’universo non potrà sapere

di essersi riassunto per un periodo limitato

in una sua minima frazione

Cinzia Demi
Bologna, 5 novembre 2017

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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