L’arte italiana all’estero: La grande bellezza confiscata o esportata.

La “grande bellezza” confiscata o esportata: un incontro a Parigi sui beni artistici sfuggiti all’estero. Perché tanti capolavori italiani si trovano all’estero? Il tesoro dell’arte italiana ha subito negli ultimi secoli vicissitudini e sofferenze, tra saccheggi, furti, svendite commerciali. Oggi molte opere italiane si trovano all’estero a testimoniare, ancora una volta, l’importanza del nostro patrimonio. La faticosa ricerca, di recuperare questo tesoro, è soggetta ad alterne vicende. “Missione grande bellezza”, libro di Alessandro Marzo Magno tratta di questo interessante argomento. Di recente il lavoro è stato presentato a Parigi alla Maison d’Italie.


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“Missione grande bellezza” è il titolo del libro di Alessandro Marzo Magno, giornalista veneziano, appena edito da Garzanti e dedicato al recupero parziale dei capolavori artistici italiani saccheggiati da Napoleone e Hitler.

La sua presentazione del 17 ottobre scorso, ospitata dal Direttore Roberto Giacone alla “Maison d’Italie” della “Cité Universitaire” e organizzata dal Presidente Michele Canonica della “Dante Alighieri” a Parigi rende d’ulteriore attualità quanto è stato documentato e scritto sull’argomento in questi ultimi anni.

L’arte in guerra” come ha precedentemente scritto Sergio Romano nel suo libro (editore Skira, 2014), può essere “amata, concupita, e spregiudicatamente conquistata, ma anche odiata, perseguitata e distrutta”. Romano lo ha scritto ancora prima dei danni di Daesch in Siria, e nelle due ore in cui si legge tutto il suo libro s’imparano tutte le vicissitudini in proposito, dalla Rivoluzione francese ad oggi. Essendo l’arte “anche un attributo del potere”, è “destinata a diventare preda, bottino” e “simbolo di legittimità da trasmettere ed ereditare”.

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E’ così, dunque, come ricorda Marzo Magno, che a Venezia “Napoleòn” è stato “ladròn” (tra l’altro) nel 1797 delle “Nozze di Cana” del Veronese, che, ancora oggi viste di lato al Louvre, hanno i segni dei tagli subiti per il trasporto, e della Quadriga di San Marco (già razziata dai veneziani a Costantinopoli nel 1203 durante la IV Crociata). Invece nell’esempio d’arte distrutta è così che si deve a Napoleone la demolizione della Chiesa di San Geminiano del Sansovino per la creazione del Salone da Ballo nell’Ala Napoleonica delle Procuratie.

Nel 1796 Napoleone a Milano è stato “ladrùn” (tra l’altro) delle “Allegorie dei 4 elementi” di Jan Brueghel il Vecchio e del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci.

Complessivamente una metà circa delle opere razziate da Napoleone non sembra tornata in Italia; come la metà delle allegorie di Brueghel: l’acqua e il fuoco (oggi all’Ambrosiana), essendo rimaste al Louvre l’aria e la terra. Il ritorno dei cavalli di San Marco e del Codice di Leonardo è conseguente al desiderio, nel 1815 al Congresso di Vienna, dell’Austria-Ungheria di riaverli nel “suo” Lombardo-Veneto. E il ritorno d’una parte delle opere razziate nello Stato Pontificio è dovuto a Canova, inviato a tal fine per la sua fama da Pio VII a Parigi, da dove finiscono nei Musei Vaticani anche opere prese nel resto della Penisola.

Ancora meno quantificabile in proporzione appare invece il ritorno in Italia delle opere sparite durante la 2a Guerra Mondiale. Marzo Magno richiama la necessità di distinguere tra quelle che prima dell’8 settembre 43 non si rifiutavano a basso prezzo ai tedeschi alleati, per il desiderio di Hitler di fare a Linz il museo più grande del mondo e per la bulimia artistica di Göring diventata pari a quella fisica per far ancora più posto alle medaglie sul suo petto, e quelle saccheggiate successivamente.

Per le prime intervenivano personalmente spesso Mussolini e Ciano (nonostante le Leggi Rosadi del 1929 e Bottai del 1939), dopo che Hitler (pittore dilettante) era stato impressionato dalla bellezza artistica dell’Italia nella visita del 1938 (Trilussa: “Roma de travertino / rifatta de cartone / aspetta l’imbianchino / suo prossimo padrone”… e per evitarlo Pio XI s’era ritirato a Castelgandolfo); e le seconde devono essere considerate, al netto degli inestimabili interventi di persone come:

Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, la quale con il suo fascino non solo “l’aveva fatta sotto ai tedeschi” ma aveva anche provveduto a nascondere una parte delle opere a Castel S. Angelo e al Palazzo Farnese di Caprarola; o Fernanda Wittgens a Milano, direttrice di Brera, le cui opere aveva fatto in tempo a mettere in salvo prima dei bombardamenti e prima d’essere incarcerata per gli aiuti agli ebrei (Brera dopo la guerra è stata ricostruita con la stessa velocità de “La Scala”); o Pasquale Rotondi, Soprintendente nelle Marche delle Opere d’arte delle quali aveva nascosto una parte nella Rocca di Sassocorvaro e nel Castello di Carpegna (la Tempesta di Giorgione era stata invece tenuta nascosta sotto il letto su cui la moglie si fingeva malata); o altri partigiani che come Pietro Ferraro hanno pure contribuito al salvataggio delle opere d’altre; o altri ancora che come a Palazzo Colonna a Roma ne avevano murato i pezzi più importanti nel sottosuolo; o altri infine come Rodolfo Siviero che nel 1944 a Firenze aveva nascosto l’Annunciazione del Beato Angelico dal Convento di Piazza Savonarola.

La partecipazione alla presentazione del libro di Marzo Magno di Fabio Isman è stata di particolare rilievo non solo per la sua competenza ma anche per tutta la passione, pari a quella con cui per più di 30 anni è stato uno dei più prestigiosi giornalisti de “Il Messaggero”, per il recupero delle opere d’arte. Autore de “I predatori dell’arte perduta, il saccheggio dell’archeologia in Italia” (ed. Skira, 2009) e quest’anno de “L’ Italia dell’arte venduta, collezioni disperse, capolavori fuggiti” (ed. Il Mulino). Anche dalla sede centrale della “Dante Alighieri” di Roma, egli ha richiamato più volte le frequenze di queste razzie in tutte le forme in cui sono avvenute: doni politici (esempio: discobolo Lancellotti da Mussolini a Hitler), bottini di guerra (esempio: le opere di Montecassino fatte arrivare da Göring nel 43 in Germania); libere vendite degli antiquari ai collezionisti oltrefrontiera (ad esempio già nel periodo napoleonico con la vendita di opere del Trecento e Quattrocento italiano al collezionista inglese a Berlino Edward Solly, che le ha poi parzialmente cedute allo Stato prussiano, e di nuovo a cavallo tra due secoli, ossia dalla fine del XIX alla 1a Guerra mondiale, con la parte in ciò avuta dall’antiquario Stefano Bardini, per cui Donatello e Botticelli sono esposti al Metropolitan di New York); e, infine, con il giro dei “tombaroli” sui suoli romani, greci ed etruschi della penisola e dei loro commercianti simile per la quantità e per il valore della merce al giro della droga.

Botticelli al Metropolitan Museum

Nei recuperi, in ordine cronologico dal dopoguerra, rimane storica la figura di Rodolfo Siviero. Ambiguo con i tedeschi durante la guerra, riesce così a conoscerne le razzie artistiche in particolare a Firenze (oggi sede del museo con il suo nome) e ad assumere poi la parte di partigiano per le informazioni raccolte a questo proposito che servono nel ’45 alla restituzione agli Uffizi delle opere fermatesi in Alto Adige e nel ’46 a farlo nominare da De Gasperi Ministro Plenipotenziario presso gli Alleati in Germania proprio per questi recuperi.

E’ così che nel 47 tornano tra l’altro a Capodimonte le opere razziate dai tedeschi a Montecassino (tra cui la Danae di Tiziano regalata a Göring). Ma Siviero non s’accontenta solo di quelle razziate e vuole recuperare anche quelle vendute o regalate ai tedeschi prima dell’8 settembre 43. Tornano perciò nel ’48 in Italia altre opere come il Discobolo Lancellotti (oggi a Palazzo Massimo a Roma). Siviero infine dà la caccia anche alle opere illegalmente commercializzate oltreconfine, recuperando per esempio a Los Angeles le Fatiche d’Ercole del Pollaiolo che erano degli Uffizi.

Al Louvre, Le nozze di Cana di Paolo Veronese portato via da Venezia da Napoleone

Se “l’arte logora chi non ce l’ha” (o chi ne ha di meno), lo logora dunque in tutte le circostanze: in guerra, sia come nemico predatore, sia come alleato nella liberazione (esempio: i cosiddetti “monuments officers” o “Venus fixers” -protettori simbolici delle statue di Venere- , ossia i militari che come il generale Mark Wayne Clark avevano avuto lo scrupolo o il rimorso di “combattere in un maledetto museo d’arte”, o come altri militari che come Deane Keller -professore di pittura alla Yale School of Fine Arts- aveva visto le città toscane appena distrutte dalla guerra – il libro “Salvate Venere” d’Ilaria Dagnini Brey, Mondadori 2010, ben descrive lo stato d’animo di questi militari); e lo logora in pace a tal punto da creare tra i musei non solo statunitensi una concorrenza senza scrupoli nell’acquisto delle opere non solo sul mercato.

E logora il vincitore perfino tra le macerie: come a Berlino dove i sovietici avevano estratto da queste anche i capolavori italiani lì pervenuti, poi portati a Mosca (come risulta dagli scritti dell’Ambasciatore Massimo Baistrocchi, incaricato di seguirne le vicende).

Ma all’accordo italo-tedesco dei tempi di Siviero non ha fatto seguito né appare tuttora immaginabile un accordo italo-russo per la loro restituzione (i sovietici avevano allora classificato questo bottino, come quello più modesto tra le macerie dell’Ambasciata d’Italia, in conto riparazioni di guerra).

Maggior successo ha avuto e continua dunque ad avere il recupero dei beni in occidente: sia negli USA che in Europa, a seguito in particolare della creazione nel ’69 del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri e dell’organizzazione datavi dal Comandante Generale Roberto Conforti dal 1991 al 2002, e della creazione nel ’75 del Ministero per i Beni Culturali con cui questo Nucleo (a Piazza S. Ignazio, ossia a due passi dal Ministero) oggi opera con un’efficienza esemplare. E a seguito della creazione nel ’95 della Commissione Interministeriale per le Opere d’Arte, presieduta fino al 2003 dall’Ambasciatore Mario Bondioli Osio, che nel suo libro “Da Milano alla Sabina passando per la Farnesina” (ed. Simonelli, 2016) ricorda (tra l’altro) d’aver esteso ai territori dell’ex Repubblica Democratica di Germania l’accordo italo-tedesco di recupero dei beni, ottenendo così la “Venere di Leptis Magna” finita a Göring e poi restituita alla Libia, e ottenendo anche la restituzione a Palazzo Barberini d’un quadro, “la Battaglia di Costantino”, che era dell’Ambasciata a Berlino, come il “Betsabea al bagno” di Iacopo Zucchi restituito dal Wadsworth Atheneum di Hartford, Connecticut.

I 28 più consistenti recuperi della Commissione da lui presieduta sono anche conseguenti alle varie mediazioni con gli USA che avevano accettato il 1972, anno della Convenzione UNESCO, come quello dal quale tener conto degli illeciti passaggi di proprietà.

La Commissione ha inoltre collaborato con quella “Anselmi” per i tentativi di recupero dei beni confiscati agli ebrei, ma con risultati inferiori a quelli in Francia, non esistendo degli archivi come quello di Rose Valland, Conservatrice durante la guerra del Jeu de Paume, luogo di smistamento dei beni artistici degli ebrei, di cui annotava l’origine e la destinazione rendendo così poi più facili i rispettivi recuperi e le restituzioni ai sopravvissuti o agli eredi o alla comunità.

Ancora più difficile in Italia distinguere tra i beni degli ebrei alienati prima dell’8 settembre ’43 e quelli saccheggiati dopo questa data, tra i quali si sospetta che circa 7000 volumi della comunità del ghetto di Roma siano pure poi finiti dalla Germania in Russia.

Oggi, nonostante, il codice e le norme dei Beni Culturali che ne contingentano le esportazioni, rimangono comunque oltrefrontiera quantità tali di opere sia di pittura e scultura che archeologiche da non poter essere tutte riportate in libri come quelli di Isman e Marzio Magno ai quali va tra l’altro riconosciuto il merito di ricordare che, comunque sia e sia stato esportato questo patrimonio, fa parte del capitale più prezioso della Nazione.

Lodovico Luciolli

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