La vittoria dell’europeista Macron e la lezione delle elezioni francesi.

Sotto la piramide del Louvre, la sera di domenica 7 maggio le note dell’inno alla gioia avevano l’aria di una liberazione. Un inno europeo per chiudere una campagna elettorale in cui sono stati in tanti a prendere l’Europa a palle di fango. Invece, al momento decisivo, i popoli che hanno in tasca l’euro non vogliono affatto separarsi dalla loro moneta. Che avrà pure i suoi difetti; ma che non si squaglia come neve al sole, a colpi di svalutazioni e tassi d’inflazione da capogiro. Prima gli austriaci, poi gli olandesi e adesso i francesi hanno cullato nella propria mente scenari euroscettici, ma al momento del voto si sono detti che dall’Europa e dall’euro sarebbe una gran sciocchezza filar via all’inglese.

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Che le si guardi dall’interno o dall’esterno dell’Esagono, le elezioni francesi contengono una bella lezione: la causa dell’integrazione comunitaria è tutt’altro che spacciata (diversamente da quanto era stato sostenuto da tanti leaders politici e frettolosi commentatori). Certo l’Europa va migliorata, certo alcune sue regole sono assurde, ma il problema sta appunto lì: i francesi, come gli altri europei, vogliono migliorare la costruzione comunitaria; non sfasciarla. Alla base di questa lezione francese c’è un personaggio che tre anni fa era un illustre sconosciuto.

Emmanuel Macron è un geniale furbacchione con la faccia da ragazzino. Un «primo della classe» gentile, determinato, combattivo, talvolta un po’ sfacciato e spesso fortunato. La fortuna lui se l’è meritata. Ha lasciato la banca d’affari, dove guadagnava milioni, per buttarsi in politica da battitore libero di centrosinistra. Eccolo conquistarsi, come consigliere economico del presidente Hollande, la fama di pragmatico riformatore. La sua filosofia fa pensare a una frase di Tony Blair : «Non ci sono riforme di sinistra o di destra, ma riforme che funzionano e riforme che falliscono». Poi un breve passaggio al governo come ministro dell’Economia. Nel 2016 fonda un movimento con le iniziali del suo nome (« En Marche ») ed esce dal governo socialista in vista delle presidenziali.

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Qui, oltre il merito, entra in gioco la fortuna. I grandi partiti di destra e di sinistra si auto-silurano con errori, lotte personali, scandali e colpi bassi. Le primarie della destra e della sinistra (pardon, della Bella alleanza popolare) si rivelano una gabbia per i partiti che le hanno organizzate. I vincitori delle primarie diventano intoccabili padroni dei loro stessi partiti, trascinandoli con sé in un baratro di impopolarità. Forte della propria indipendenza, Macron si trova di fronte un boulevard elettorale. Una strada libera e relativamente facile da percorrere, anche a causa dell’estremismo della sua avversaria al secondo turno presidenziale di questo 7 maggio. Ma la sua marcia trionfale è frutto degli errori altrui molto più che dell’adesione popolare al suo programma.

Di qui la vera debolezza del nuovo presidente della Repubblica francese, che – se vuole gestire davvero il proprio potere – deve adesso conquistarsi una maggioranza parlamentare. Non è scontato che la ottenga alle elezioni legislative dell’11 e del 18 giugno.

Ci sono tre possibilità: governo minoritario (nel caso in cui i discepoli del nuovo presidente arrivino vicino alla maggioranza assoluta, un po’ come accadde nella legislatura 1988-1993), governo di coalizione (ma con chi ? e a che prezzo ?) o governo di «coabitazione» nell’eventualità che la destra neo-gollista (Les Républicains) ottenga a sua volta la maggioranza parlamentare. In quest’ultimo caso, che non è affatto impossibile, Macron dovrebbe gestire il potere per cinque anni coabitando con una forza politica non certo vicina a lui (anche se, tra il primo e il secondo turno delle presidenziali, i Républicains lo hanno aiutato contro Marine Le Pen e anche se, all’indomani del voto, qualche esponente della destra si è più o meno clamorosamente smarcato dal proprio partito). Vedremo.

In tutte queste ipotesi, un punto fermo della politica francese sarà l’adesione all’Europa. Bisogna davvero sottolineare la considerazione fatta all’inizio. Gli antieuropeisti di estrema destra e di estrema sinistra escono sconfitti dalle urne, pur avendo ottenuto molti voti al primo turno delle presidenziali. La vittoria stessa di Macron sulla Le Pen sarà domani quella di un europeista contro una candidata favorevole all’uscita dall’euro, da Schengen, dall’Ue e (già che c’è) dall’Alleanza atlantica.

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Ma attenzione: l’europeista Macron è tutto fuorché un ingenuo. In Europa farà ovviamente gli interessi del proprio paese, tentando (con buone probabilità di successo) di rilanciare il vecchio «motore franco-tedesco». Resta da capire se, dentro il futuro motore europeo, l’Italia saprà ritagliarsi almeno un ruolo da spinterogeno. Volendo bilanciare lo strapotere di Angela, custode d’Europa, il presidente Macron potrebbe cercare un’intesa più stretta con Roma. Ma ogni ipotesi del genere dipende anche dagli sviluppi della politica italiana. E lì Marcron non può far nulla. Può essere bravo e fortunato; ma i miracoli si fanno a Lourdes, non all’Eliseo.

Alberto Toscano

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Alberto Toscano
Alberto Toscano est docteur en Sciences politiques à l’Université de Milan, journaliste depuis 1975 et correspondant de la presse italienne à Paris depuis 1986. Ex-président de la Presse étrangère, il est l’un des journalistes étrangers les plus présents sur les chaînes radio-télé françaises. A partir de 1999, il anime à Paris le Club de la presse européenne. Parmi ses livres, ‘Sacrés Italiens’ (Armand Colin, 2014), ‘Gino Bartali, un vélo contre la barbarie nazie', 2018), 'Ti amo Francia : De Léonard de Vinci à Pierre Cardin, ces Italiens qui ont fait la France' (Paris, Armand Colin, 2019), Gli italiani che hanno fatto la Francia (Baldini-Castoldi, Milan, 2020), Mussolini, "Un homme à nous" : La France et la marche sur Rome, Paris (Armand Colin, 2022)

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