All’I.I.C. di Parigi. La cultura europea: un ideale?

A pochi giorni dalle celebrazioni per i 60 anni del Trattato di Roma si è svolto un importante incontro all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, dedicato al tema dell’Europa e della cultura europea tra sintonia e dissonanze, tra le luci e le ombre che il progetto europeo continua contraddittoriamente a mantenere. Si puo’ parlare di cultura europea? Qual è l’origine del concetto, la posta in gioco di questo ideale?

E’ l’argomento dell’incontro avvenuto il 28 febbraio scorso all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, dove il Direttore Fabio Gambaro ha riunito:

il Professore di Storia Contemporanea della Sorbona Christophe Charle, autore tra l’altro nel 1996 di “Les intellectuels en Europe au XIX siècle” e, nel 2015, di “La dérégulation culturelle: essai d’histoire des cultures en Europe au XIX siècle“;

lo scrittore Andrea Bajani, vincitore nel 2008 dei premi Mondello, Recanati e Brancati con “Se consideri le colpe”, nel 2011 del premio Bagutta con “Ogni promessa” e autore nel 2013 di “Mi riconosci?”, storia della sua amicizia con Tabucchi;

l’editorialista Giuliano da Empoli, autore tra l’altro nel 2015 de “La prova del potere”, un esame critico degli intellettuali sessantottini; e

il Rettore dell’Accademia di Parigi e della Regione accademica Ile de France Gilles Pécout, già Direttore del Dipartimento di Storia dell’Ecole Normale Supérieure, specialista della Storia d’Italia e del Mediterraneo nei XIX e XX secoli, autore tra l’altro nel 1997 di “Naissance de l’Italie contemporaine, 1770-1922”, nel 2004 di “Penser les frontières de l’Europe du XIX au XXI siècle” e nel 2007 e 2011 degli “Atlas de l’histoire de France”.

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Insomma accanto a Gilles Pécout, forse il migliore italianista attuale in Francia, spesso su “RAI Storia” oltreché nei programmi culturali di maggiore spessore di altre TV, erano riuniti oratori di diverse età oltreché esperienze che Fabio Gambaro, il nuovo direttore dell’IIC di Parigi, ha opportunamente stimolato ad esprimersi sulla scia della frase apocrifa di Jean Monnet: “L’Europa, se è da rifare, comincerei dalla cultura”, ricordata inizialmente dall’Ambasciatore Magliano.

Charle ha ricordato quanto è piccola l’Europa geografica con le sue varie lingue e culture in confronto agli altri Continenti: le Americhe dove si parlano solo tre lingue e vi sono pertanto tre soli filoni “culturali linguistici”; l’Asia la cui vastità territoriale è pure gigantesca nel confronto e dove non è certo che le diversità culturali siano altrettante rispetto all’Europa; e l’Australia mono-linguista e dunque (e nonostante le immigrazioni dagli altri continenti anche lì) con la prevalenza del filone “culturale linguistico” inglese o angloamericano.

Per cui in Europa in occasione del suo trentennale non si può attribuire all’Erasmus un’importanza minore di quella del trattato di Roma, avendo creato nelle nuove generazioni i flussi tra culture così diverse che hanno sostituito i conflitti precedenti.

Bajani, con una lunga esperienza in Germania, ha ricordato l’annullamento anche culturale di quel paese, dovuto al Trattato di Versailles, con la conseguente reazione hitleriana d’ulteriore distruzione dopo le megalomanie anche architettoniche di allora a Berlino, per cui comunque oggi i tedeschi preferiscono opporre quanto hanno poi ricostruito al ricordo del passato.

Da Empoli, con una quantità di esperienze istituzionali, giornalistiche e saggistiche al di sopra della media dei suoi coetanei, ha fatto un flash delle generazioni più giovani, con una velocità come quella dei socials tecnologici che hanno integrato gli interscambi dell’Erasmus, per cui non sembrano esserci più confini neanche pensandoli.

Ma Pécout ha soffermato le proprie considerazioni proprio sui confini, in quanto nel passato non erano solo politici ma anche indicati nelle mappe secondo la cultura del momento: ad esempio nelle cartine dell’Europa, la Turchia europea appariva o non appariva a seconda di come la si valutava culturalmente (Istanbul ha non solo minareti ma anche la sede del Pope ortodosso, nonché tracce di genovesi e fino alla Rivoluzione d’Ataturk una consistente colonia greca) e la Russia non sempre vi appariva fino alla Prima Guerra mondiale. E fino al Larousse del 1860, neanche nei dizionari e neanche come riferimento geografico, l’Italia aveva posto come la Francia o la Prussia o la Gran Bretagna o la Spagna.

Questa soggettività culturale dei confini si è confermata anche dopo la creazione della CEE: oltre alla citazione dell’Europa “dall’Atlantico agli Urali” di de Gaulle (ripresa da Mélenchon il 6 marzo scorso in TV per coinvolgere di più la Russia in azioni pacifiche), Giscard d’Estaing Presidente, come economista, era a favore dell’allargamento dell’Europa con la Gran Bretagna ma culturalmente si chiedeva come non tener conto della ricchezza archeologica e culturale della Grecia (ha pensato lo stesso due anni fa quando ne ha proposto l’uscita dall’Euro ? … pensa lo stesso dopo la Brexit ? …). E si conferma oggi considerando il Mediterraneo non più come mare d’interscambio commerciale e culturale come nel passato ma come confine a sud dell’Europa: a tal punto da alimentare così le xenofobie sull’immigrazione.

Fabio Gambaro, Direttore dell'Istituto italiano di Cultura di Parigi

Inoltre com’è possibile parlare oggi di cultura europea quando la lingua comune è quella del Paese che è uscito dalla CE e quando in TV sceneggiati e fictions nella maggior parte dei casi sono innanzitutto nazionali, in secondo luogo americani e solo in terzo luogo d’un altro Paese europeo? Solo diffondendo la produzione in tutta l’Europa d’un canale culturale come Arte sarebbe possibile metterlo in concorrenza con quelli americani.

Allora, a fronte anche dello scetticismo di Moravia sulla cultura europea (ricordato da Da Empoli) e dell’imbarazzo di Magris (ricordato da Pécout) alla domanda d’uno studente sulla possibilità di farne una tesi (non è già una cultura europea quella sul Danubio?), rimane comunque vero che i 30 anni di Erasmus e di tutte le altre politiche di scambi tra culture in Europa non valgono meno dei 60 anni d’integrazione economica dal Trattato di Roma per aver sostituito la pace alle guerre delle generazioni precedenti.

Lodovico Luciolli

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Lodovico Luciolli
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