L’infinito presente

Occorrerà fare presto a ridefinire il rapporto cittadino e società. Il nemico appare sempre più impalpabile. Una volta c’erano chiari opposti. I lavoratori e i padroni, la destra e la sinistra, oggi tutto appare indefinibile. Esiste un fine al nostro essere o il fine è il mezzo (come oggi appare il denaro?). Va in scena l’immagine di noi. Ma chi siamo?


questo è il gatto con gli stivali,

questa è la pace di Barcellona

fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco

fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti il foglio, Alessandro,

ci vedi il denaro:

questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada

del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola d’Atene, è il burro,

è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,

è il parto: ma se volti foglio, Alessandro,

ci vedi

il denaro :

e questo è il denaro…

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La storia dell’umanità incomincia con il progresso che, attraverso il lavoro e l’evoluzione scientifica e tecnica, sempre più porta ad una dimensione dell’uomo del futuro come un uomo liberato dal bisogno e quindi dal lavoro. Liberato dal detentore dei mezzi di produzione, poi, progressivamente, liberato dagli stessi mezzi di produzione, attraverso forme sempre più automatizzate del circuito lavorativo e produttivo.

Oggi con la riduzione del lavoro industriale (in via di estinzione) e lo sviluppo di attività lavorative ed economiche sempre più virtuali, che hanno determinato una diversa qualità del tempo e del tempo di lavoro, si hanno fenomeni nuovi, e la necessità di ridisegnare la città, l’abitazione e la stessa società, secondo esigenze nuove che sono ancora tutte da definire, ma che nel caso italiano, e non solo, sembrano tutto altro che frutto di una consapevole scelta sociale, culturale e politica.

C’è da ridisegnare anche il limite dell’uomo; il suo corpo, la sua immagine. Un uomo sempre più “privato nel pubblico” e sempre più “pubblico nel privato”. Un uomo “privato”. Qui vi è una connessione con il tema trattato dal nostro sito lo scorso mese: L’esterno dell’interno dell’esterno. Là dove la difficoltà consisteva nel delimitare gli spazi: l’interno e l’esterno (la casa e la città) dove quell’immagine e la sua fisicità si rappresentano. Un uomo persona e uomo sociale e quindi proiezione di valori e/o disvalori condivisi.
La stessa evoluzione del linguaggio neostandard ripropone al centro della lingua non l’oggettività dello stato dell’essere o dell’azione ma la soggettività del fare o dell’intenzione del fare.

Non è un caso che oggi sia permesso iniziare un discorso con “Dunque” o affermare: “L’anno prossimo vado a Roma”, poiché il pensiero soggettivo diviene parte dell’azione e del discorso. Così come l’aspirazione di andare a Roma pone al centro dell’azione, attualizzandolo, il desiderio di essere a Roma e non il fatto in sé dello spostamento futuro. Quindi una virtualità che diventa fatto presente.

Una soggettività del fare che spesso prescinde dallo stesso autore che fa. Quasi che il compimento dell’azione non fosse più frutto di una coscienza responsabile, ma un accadimento che nel verificarsi prescinde dall’autore stesso, avendo una sua autonomia, un suo autonomo pensiero. Una proiezione. Un’immagine che diviene prova “incorruttibile” nel vero senso del termine dell’essere. Vi è poi, l’uomo che ha maturato un’idea del benessere fondata sulla comodità e contemporaneamente
sulla riduzione del lavoro (almeno fisico) e quindi della motilità.
L’attuale modello, scarsamente sociale, sempre più “virtuale” e sempre meno obbiettivo e condiviso nei valori tradizionali, impone il perseguimento della comodità attraverso una crescente riduzione e precarizzazione del tempo di lavoro per se e quindi per gli altri.

Si è quindi considerato che lavorare in casa, ad esempio, invece che andare in fabbrica o all’ufficio, sia più economico e comodo. Ma secondo quale progetto di vita? E queste nuove abitudini come modificheranno i nostri corpi e le nostre menti?
La riduzione di tutti gli aspetti sociali di relazione derivanti dal rapporto di cieloberlino.jpg
lavoro, sono conseguenti ad una dimensione sempre più individuale e vago del rapporto con la società. Il lavoro non è o meglio non dovrebbe essere solo la produzione e il ricavo o guadagno è o dovrebbe essere anche l’esperienza condivisa con i colleghi è il verificare dei modi e delle condizioni del lavoro, nonché di tutto quel indotto sociale che gira intorno all’esperienza individuale di ciascuno.

Eppure anche il rapporto di lavoro va virtualizzandosi e spersonalizzandosi come France Telecom dimostra con gravissime ricadute sociali e psicologiche (ventotto suicidi in Francia in pochi mesi. N.d.r.).

Il rapporto lavoratore – lavoro – datore di lavoro, diviene sempre più impalpabile, incerto immaginifico (immagine). Chi può dire oggi chi è il padrone di una grande impresa? Il “neocapitalismo” si fonda su impatti finanziari e virtuali altissimi, un ridimensionamento della produzione reale più che sensibile. La rete organizzativa che si presenta innanzi al lavoratore (basti pensare ai call center) è intrigatissima e complessa. Un labirinto in cui le coscienze collettive si perdono dove l’uomo solo (il lavoratore) si trova innanzi ad una complessa e kafkiana organizzazione del lavoro in cui si perde. Manager “masterizzati” dall’incerto passato, che sembrano privi di qualunque coscienza che operano e organizzano secondo criteri standardizzati privi di qualsiasi creatività e direi una parola grossa; umanità, che gli consenta d’interloquire con i propri dipendenti su un piano di consapevolezza sociale. Sono mediatori tra il lavoro e un imprenditore che spesso è al più ignoto se non appunto nella sua immagine o nell’immagine che di lui si evoca.

Peraltro oggi la produzione è sempre più di servizi e questi sono sempre più informatizzati e quindi virtuali. L’immagine del prodotto diviene spesso il prodotto stesso. Ma esisterà un padrone?
Poi c’è la parte terminale di questa filiera. Il consumatore. Il quale è educato alla concezione, anch’essa neocapitalista, che lo scopo del benessere sia il vivere in casa, sempre più comodamente. Consumi quindi che inducono ad un privato sempre più intenso e a limitare la partecipazione collettiva, diretta e creativa alla società.

Consumi che divengono sempre più specifici e limitanti dell’attività prima manuale poi mentale della persona. Anche la riduzione dell’impegno diretto e responsabile, nonché della creatività, riduce ulteriormente gli spazi di un sociale condiviso.

Emblematicamente e similmente su internet corrono relazioni umane che partono da presupposti fuorvianti se non falsi. Ci si conosce sulla base di pregiudizi, d’immagini di noi, magari di altre epoche, su descrizioni sommarie e tese a dare una rappresentazione di noi che ci faccia un prodotto di consumo appetibile e convincente (da soggetti del consumo ad oggetti di consumo).

La vera differenza sociale viene a determinarsi non più sul controllo dei mezzi di produzione ma, sulla qualità e quantità dei consumi e sulla possibilità di essere comodi, il meno “mobili” possibile. L’affermazione sociale di un soggetto non si fonda più sulla sua forza culturale o sulla propria istruzione (cose dell’ottocento) e nemmeno sul proprio reddito (cose del novecento) ma sulla propensione al consumo (cose di oggi). Più si consuma, più si è riconosciuti e gratificati.

Il consumo ha tuttavia bisogno di fondarsi su uno stereotipo, su un modello di riferimento a cui necessita che la società tutta, si uniformi, per favorirne il successo. L’uniformarsi su dei modelli presuppone che non vi sia una sostanziale competizione di concetto tra questi. Questo comporta una sostanziale delega dei consociati, ai detentori e organizzatori del consumo e dei suoi strumenti di diffusione e distribuzione, così i consumatori adeguatisi all’idea della comodità attraverso il consumo, finiscono anche per adeguarsi acriticamente, non solo al suo oggetto, ma alla sua diffusione ed anche al modello di uomo e quindi di società che si propone, attraverso l’uso dell’immagine.

Ma esisterà un padrone? In carne ed ossa, con ansie, paure, sensibile, gioioso?

Sarebbe interessante analizzare, attraverso la visione dei fatti, come la cultura italiana ha contribuito, nel suo esempio, alla formazione di una preponderante cultura del consumo e dell’immagine.
Un contributo lo da anche la burocrazia.

E’ del tutto evidente in questo contesto, che la decentralizzazione dell’amministrazione pubblica (da tempo si parla di attuare il federalismo) non ha favorito un’armonizzazione delle culture locali, oppure una umanizzazione del rapporto amministrazione-cittadini.

Nuove forme di burocrazia rendono molto difficile l’affermazione degli stati f962-magritte_La-Magie-Noire-Posters.jpg
di fatto identificativi della persona e, specie in Italia ma non solo, la burocrazia diviene sempre più strumento di controllo e di ricatto nei confronti dei consociati inducendo questi a nuove forme d’illegalità tollerate nel nome della stabilità del sistema. Una burocrazia che, come l’immagine, contribuisce a costruire una visione ipocrita del sistema. Un sistema che in larga misura si regge quindi sull’”apparenza” e l’ipocrisia più che sulla realtà, sul dato effettivo. Un po’ come la storia dell’employeur pricipal in Francia dove per lavorare o avere degli incarichi di lavoro, non conta la realtà delle cose o le capacità del lavoratore, ma una fittizia e “pacificatoria” dichiarazione, spesso sostanzialmente falsa, del datore di lavoro detto principale.

Un mondo dove l’immagine di noi diviene anche il controllo di noi.
Un controllo che già avviene attraverso telecamere nelle strade, le tracce elettroniche di ogni nostro movimento, passaggio, un controllo finanche sulle comunicazioni. Un corpo è anche la proiezione di un’anima controllare un corpo è anche controllarne le intenzioni è verificarne le aspirazioni, le emozioni. In fondo “Il grande fratello”, il reality ma anche il libro, è finalmente compiuto.

Persone sempre più chiuse in una immagine standard dove tutti sono belli (consumare ed essere consumati) o ne hanno la propensione ma tutti sono chiusi nei loro i-pod circoscritti all’ascolto di sé dalle loro cuffie, simbolo dell’uomo dei nostri giorni, chiusi in quello che il Professore Fioretto definisce un linguaggio di plastica, chiusi in una comunicazione televisiva che “detta la linea”.

Al bar, che era il simbolo della socializzazione negli anni cinquanta, si oppone oggi l’uomo solo in una folla di uomini soli, che ascolta. Il telefonino, il messaggino, l’email. L’auto con il sistema satellitare tutte forme che apparentemente sono di comunicazione ma che realmente riducono i tempi della comunicazione e che riducono le relazioni, le scorporano, lasciando solo immagine, o finanche traccia, segno dell’esistenza dell’altro.

Questo modello si ripropone anche nella politica, dove sempre più la “domanda” deve essere riconosciuta, filtrata da questa, che non chiede più di avere una vera delega (attraverso, ad esempio, il rapporto diretto tra elettori ed eletti) ma un rapporto fittizio o surrettizio, frutto dell’immagine televisiva, e di tutti i mezzi tecnici di comunicazione in costante evoluzione.

La liberazione dal lavoro è, a mio avviso, una grande cosa, ma se questa comporta anche l’eliminazione del processo creativo e innovativo dell’uomo nella società, se questo deve far regredire le forme del sociale e della condivisione, allora crea nuove forme di schiavitù che potremmo definire culturali e non più solo economiche. Schiavitù ben più pericolose perchè mira alla soppressione, prima dello spirito sociale di appartenenza, poi della stessa capacità critica e di coscienza individuale.
Un processo atto ad eliminare nei soggetti la consapevolezza del Sé, con effetti psicologici e relazionali tragici.

Lo sfruttamento dell’uomo è un crimine, privarlo della liberta di espressione è un crimine ma privarlo della coscienza e della propria consapevolezza è un crimine ancora maggiore.
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Se si considera che il riscontro economico ha una sua obbiettività nel dato numerico, il condizionamento culturale no, e quindi finisce, nella sua indeterminatezza, per distruggere il tessuto connettivo della storia e della memoria di una società, svuotandola dei propri contenuti di esperienza e di vita ed imponendo dei fattori puramente proiettivi e visivi o virtuali che sono del tutto surrettizi e non reali.

Ecco allora, che vengono a crearsi modelli estetici che non sono frutto di una elaborazione culturale ma, superficialmente, frutto di quei modelli di consumo che hanno insito in se una rapida fruizione per proporne di nuovi e successivi.
E’ evidente quindi che, chi ha gli strumenti formativi, proiettivi e i beni di consumo, ha il potere. Tutti gli altri sono nel migliore dei casi i sudditi, a cui vengono offerte possibilità di vita simile al reale, una grande immagine che sostituisce il corpo del vivere sociale, con emozioni prefabbricate (si pensi alla TV del pianto, ai tanti reality, finanche ad un uso effimero delle diverse community virtuali), ma non vere; l’alternativa offerta a chi si oppone è l’inadeguatezza, l’emarginazione l’abbandono, la morte.
Solo l’immagine può garantire una eternità anche se ripetitiva e sostanzialmente immobile, priva di progetto e di futuro. Infondo molto simile alla quotidianità delle nostre vite.

L’immagine diviene corpo, un corpo morto ma che ha la pretesa dell’immortalità. Una sorta di nuova “Invenzione di Morel”.
Non più un progetto per il futuro, non una riflessione sul passato e sulla memoria storica, tutto si consuma in un tempo di eterno presente. Una contraddizione che esprime tutta la nevrosi del nostro mondo.
Il neocapitalismo e le sue diramazioni politiche auspicano questo. Ponendosi verso l’immagine come un tempo i re verso la scrittura. Meglio avere un popolo ignorante e manovrabile, impaurito e soggetto alle superstizioni che uno libero e creativo, capace di dotarsi di una propria coscienza.

Non è un caso che non sia previsto un coerente piano di educazione all’immagine, conoscere il linguaggio visivo è oggi un pericolo paragonabile, come detto, al conoscere il leggere e scrivere ai tempi delle monarchie feudali, o più recentemente ai tempi dell’industria, dove al lavoratore si chiedeva di lavorare e basta, come oggi al consumatore si chiede di consumare e basta. Del resto in Italia, l’ottanta per cento dell’informazione e del consumo di cultura, non ha caso, avviene per immagini. Un paradosso è come se l’ottanta per cento del consumo culturale avvenisse attraverso i libri in un mondo di analfabeti.
Ecco perché oggi la madre di tutte le battaglie si combatte su internet, non ancora del tutto controllabile.

Ecco, allora, che oggi il cerchio si chiude; l’immagine ha (è) un corpo, una 005.jpg
sostanza una forma. Segue una logica per cui incoerentemente si parla di democrazia dei consumi (dare la possibilità a tutti di essere consumatori),
ma la democrazia prevede dei cittadini, capaci di scegliere, interpretare, intervenire, partecipare, finanche contestare, il consumo no! Prevede solo la partecipazione al consumo stesso. Il consumo è di massa e pur nei suoi riti collettivi è pur sempre individuale, quindi non occorre sviluppare una “socialità dei consumi” da qui la necessità per il Potere di avere un rapporto, spesso paternalistico, diretto con l’individuo che è sempre più solo nella sua “comodità” nei suoi consumi, pronto a delegare la propria vita, ad altri, immolandola al consumo.

Il consumo suscita nuove forme di paura della morte. La vita si consuma, la morte no!

In una società dell’apparenza, vi è un compulsivo bisogna di dare vita ad un corpo “dal tempo infinito”, sempre in forma, che dia l’illusione dell’eternità temporale (la vita eterna intesa come aldilà è una soluzione non prevista dal consumismo, che viceversa si fonda sulla necessità di consumare prima che sia troppo tardi n.d.r.), sostenuta da una bellezza “ad ogni costo” e che non ha più età.
Questa considerazione sulla mortalità del corpo e sull’oblio dell’anima in senso religioso e laico, cela una contraddittoria idea del consumo stesso.

Un consumo inconsumabile. Con l’effetto di una snervante considerazione della finitezza dell’uomo che non si accompagna ad una visione sociale dell’uomo stesso quale portatore e continuatore di una storia (si veda il video di Tonino De Bernardi in altro spazio del nostro mensile e sito) che è quella della sua società, che continua anche attraverso le tracce del suo pensiero e soprattutto, la storia del suo vissuto. In questa linea va interpretata la scelta italiana dell’abbandono dei centri storici, o la rinuncia della politica ad essere costruttore d’idee e di progetti per il futuro, limitando la propria azione di governo o di opposizione all’immediato presente (si noti che la contraddizione linguistica è voluta. N.d.r.).

La perdita di un vissuto prima familiare e poi sociale, determina la dispersione del tessuto sociale, delle tradizioni e dei valori comuni e condivisi, dei gruppi sociali. L’effetto è una società di solitudini, affetta da un narcisistico bisogno di riflettere solo se stessi, come in uno specchio fino a convincersi di essere quella immagine e che quell’immagine è la sostanza del proprio Sé. Segue una sordità anche fisica verso il mondo che diviene sempre più, un rumore di fondo che invade i luoghi una volta deputati alla propria persona. Le case.

Quelle case che oggi i nuovi consumi vogliono far diventare celle dorate in cui abbandonare la propria esistenza dopo aver buttato la chiave.
Case che divengono trappole. Sempre più chiuse al mondo, di cui si subisce solo il rumore, sempre più munite di sistemi di difesa nell’attesa vana e terrorizzata che dal “deserto” della città arrivino “i tartari”.
Le case sono oggi il microcosmo in cui si consumano il maggior numero di soprusi, di violenze e di omicidi. Lo scorso anno il maggior numero di omicidi sono avvenuti tra le mura domestiche, più dei delitti di mafia, più dei delitti da microcriminalità, malgrado l’informazione e il governo parlino di ronde e fomentino (una sconsiderata) paura del piccolo delinquente specie se immigrato.

Perché si fanno nuove periferie anche se non servono case? e non esistono più industrie?
Perché la gente si barrica in casa e a volte ci muore in casa, senza un effettivo rischio reale? (la microcriminalità è da dieci anni in continua diminuzione). A chi giova tutto ciò?
Cosa nasconde il corpo della nostra società, che è proiezione dell’immagine della società così come si è andata costruendo negli ultimi trenta anni?

e questo è il denaro,

e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette

di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:

ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente

(Il Purgatorio de l’Inferno, 10 – Edoardo Sanguineti)

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.