La trappola del burkini

“Cher Alberto, pourrais-tu me donner un avis au sujet de la différence entre porter le burkini et le monokini, comme c’était la tendance dans les années 90? A l’époque, personne n’a alors songé à interdire le monokini bien sûr… Tous les maires français machos n’y voyaient rien à redire! Au contraire!!!” , mi scrive via e-mail una cortese signora franco-americana. Ed ecco la risposta:

Cara Christine, ti assicuro che conosco (e apprezzo) la differenza tra monokini e burkini. Se i tempi fossero diversi, mi spremerei le meningi per continuare la mia risposta su un tono ironico. Ma oggi c’è davvero poco da ironizzare e ancor meno da sorridere. Il problema è troppo serio per scherzarci sopra. Non il problema del burkini in sé, naturalmente. E’ il puzzle legato a tutte le tematiche dell’integrazione ad assumere di questi tempi una dimensione confusa, pericolosa e talvolta esplosiva.

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Vengo dunque al burkini. E’ chiaro che, nei limiti della legge, ognuno fa quel che vuole; su una spiaggia come altrove. Ma nel caso specifico non possiamo fermarci a questa affermazione. I fondamentalisti amano rivendicare nella sfera pubblica quelle stesse libertà che rinnegano nella sfera « privata ». Ci sono testimonianze frequenti e precise di donne d’ogni età (soprattutto ragazze) che si sono viste imporre da genitori e fratelli il ricorso al « velo islamico ». L’uso di questo come di altri segni esteriori di umiliazione della donna sono oggetto da molto tempo di un dibattito talvolta durissimo in una parte del mondo islamico. Il 22 agosto, RaiUno ha messo in onda l’intervista a una signorina velata, che diceva di aver scelto in tutta libertà quell’abbigliamento come segno della propria fede islamica. Altre donne islamiche la pensano ben diversamente, ma sono in difficoltà quando si tratta di trarne le conseguenze. Ritengono che non tradirebbero affatto la loro fede religiosa se si vestissero in altro modo, ma sono costrette dalle proprie famiglie e dal proprio ambiente a indossare « veli » d’ogni sorta (magari burka o burkini) perché altrimenti rischierebbero emarginazione e persino violenze. Va da sé che per le nostre tv è più facile intervistare il primo che il secondo tipo di donne. La ragazza intervistata da RaiUno ha invocato il suo diritto alla libertà, ma si è ben guardata di mostrarsi solidale con quelle coetanee – islamiche né più né meno di lei – che della stessa libertà non possono usufruire a causa delle pressioni del loro ambiente e della predicazione di certi imam fondamentalisti.

Come devono comportarsi, di fronte a tutto ciò, le istituzioni della Repubblica, che tanto hanno faticato ad avanzare sul terreno dell’indispensabile laicità (e che farebbero bene a continuare ad avanzare)? Il fondamentalismo pensa che la religione debba imporsi al potere politico e che le istituzioni abbiano un senso solo se subordinate alla loro concezione della società e della storia.

Scegliendo di « battezzarsi » (mi scuso per questo termine, forse non appropriatissimo) come « Repubblica islamica », l’Iran attuale esprime chiaramente questa scelta.

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Il dibattito sul « velo » non nasce certo oggi sulla spiaggia di Cannes. Esiste da tanti anni nelle varie realtà mediorientali (Algeria, Marocco, Tunisia, Turchia, Palestina e via dicendo) da cui è rimbalzato in Europa. Qui è stato usato come cavallo di battaglia (e anche un po’ come cavillo) da quelle stesse componenti minoritarie delle comunità musulmane che sono ostili a ogni forma d’integrazione. Da simbolo religioso, è diventato un vero e proprio simbolo politico. Non simbolo di diversità, ma simbolo di rifiuto.

Soprattutto in Francia e in Belgio, questo fenomeno si è combinato negli ultimi tempi col moltiplicarsi delle moschee « informali » e con l’arrivo dal Medio oriente di imam formatisi chissà come e chissà dove, spesso sostenuti da fondi di origine saudita. Imam che predicano in lingua araba e che – approfittando di questo – teorizzano tranquillamente poligamia, « chador », burka e tutto quanto può esplicitare l’inferiorità della donna come «valore» (sic !) religioso e dunque come simbolo identitario. Negli anni scorsi un imam è stato espulso dalla Francia perché predicava il « diritto » del marito di picchiare le mogli (mogli naturalmente al plurale).

In questo complicato e delicatissimo contesto, il cittadino che ama la libertà si sente strattonato da due esigenze contraddittorie. Da un lato vorrebbe rispettare la scelte altrui e si domanda – appunto – che senso abbia proibire una determinata tenuta vestimentaria su spiagge in cui da decenni si vedono tutte le forme possibili di abbigliamento (e di non-abbigliamento). Dall’altro si chiede se quelle donne in « burkini », strettamente sorvegliate dalle loro famiglie, abbiano potuto o no compiere liberamente la loro scelta.

Una cosa è certa : il diffondersi del comunitarismo e la sistematica scelta di adottare bandiere fondamentaliste, in contraddizione col resto della società, sono un problema fin troppo serio. La scommessa sull’integrazione, sulla base di valori condivisi, ha un’importanza decisiva per il futuro delle nostre società. Chi rifiuta a priori una concezione laica della società e delle sue istituzioni, vedendo al tempo stesso il pluralismo come un pericolo, vuol farci perdere quella scommessa.

Ma c’e dell’altro. La discussione sull’affermazione dei nostri valori costituenti non avviene oggi in un contesto astratto. Non siamo in un momento « qualsiasi » della storia. Siamo in un periodo ben preciso, esploso – esattamente 15 anni fa – con un certo 11 settembre e snodatosi in stragi che hanno insanguinato l’Europa e il mondo intero. Stragi perpetrate nel nome di una concezione settaria, minoritaria e fondamentalista della religione islamica. Gli estremisti (tutti gli estremisti, di qualsiasi genere) sono sempre stati maestri nell’arte di trovare pretesti per fare proseliti. Di inventarsi battaglie a difesa di quegli stessi deboli di cui sono poi pronti a fare carne da cannone.

Oggi il fondamentalismo vuole portarci sul terreno di una guerra tra civiltà e tra religioni. Dobbiamo essere capaci di difendere i nostri valori senza cadere in questa trappola. In Europa vinceremo questa « battaglia dei valori condivisi » solo se all’interno delle comunità islamiche – che esistono, che meritano rispetto e che saranno sempre più importanti – l’adesione ai valori democratici prevarrà definitivamente, al di là di ogni ambiguità, sulle sparate demagogiche, sulle tentazioni violente e sulle complicità con i predicatori di odio. Abbiamo bisogno gli uni degli altri e tutti abbiamo bisogno di una società al tempo stesso coesa, solidale e pluralista.

Davanti a noi ci sono problemi serissimi e complessi, che non possono certo essere risolti con le provocazioni d’agosto né con i decreti dei sindaci. L’importante non è proibire o no il burkini su questa o quella spiaggia. L’importante è la battaglia culturale contro i simboli di discriminazione e (lasciatemelo dire) di oppressione ; come appunto il burkini è.

Alberto Toscano

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Alberto Toscano
Alberto Toscano est docteur en Sciences politiques à l’Université de Milan, journaliste depuis 1975 et correspondant de la presse italienne à Paris depuis 1986. Ex-président de la Presse étrangère, il est l’un des journalistes étrangers les plus présents sur les chaînes radio-télé françaises. A partir de 1999, il anime à Paris le Club de la presse européenne. Parmi ses livres, ‘Sacrés Italiens’ (Armand Colin, 2014), ‘Gino Bartali, un vélo contre la barbarie nazie', 2018), 'Ti amo Francia : De Léonard de Vinci à Pierre Cardin, ces Italiens qui ont fait la France' (Paris, Armand Colin, 2019), Gli italiani che hanno fatto la Francia (Baldini-Castoldi, Milan, 2020), Mussolini, "Un homme à nous" : La France et la marche sur Rome, Paris (Armand Colin, 2022)

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