Noi e le contraddizioni dell’IS e le ambiguità musulmane.

La guerra contro l’ISIS la stiamo vincendo, ma resta il punto dei profughi e della loro convivenza nelle nostre società occidentali. Questo sarà il tema del prossimo futuro, un tema ricco di incognite e che potrebbe portarci ad una sorta di conflittualità permanente in casa nostra. Potrebbe imporci una revisone di quello che è il nostro storico concetto di democrazia.

I recenti attentati di Bruxelles hanno ravvivato i timori di noi europei sull’immediato. Tuttavia, le informazioni che provengono dal segreto degli interrogatori degli arrestati prima e dopo questi attentati, i fatti che emergono, danno l’impressione che il famigerato stato islamico e i suoi alleati siano in profonda difficoltà. La realtà, come si deduce anche dalle poche notizie che provengono dai campi di battaglia, in Siria come Irak ma anche in Libia e le cose che trapelano dalle periferie delle grandi città europee, come la situazione alla frontiera turca rendono evidente che la guerra, lo stato islamico, in realtà, la sta perdendo.

Si coglie al volo l’idea che i pur tragici attentati nella capitale europea, pur con il portato simbolico che non puo’ sfuggire, appaiono molto meno preparati, finanche meno incisivi, fatti in fretta quasi allo scopo di dare comunque un segnale di reazione, forse sotto la pressione dell’intelligence che, pur con tutte le riserve del caso, sta affinando le sue capacità operative.

Palmira

Intanto, sul campo di battaglia, sotto la pressione dei bombardamenti russi e con le truppe di Assad ben riorganizzate e sostenute da consulenti militari russi nonché iraniani e con la presenza di numerosi hezbollah da un lato, mentre dall’altro, forse con minore efficacia, vi è il sostegno ai curdi offerto dalla coalizione anglo-francese e dagli aerei americani, i daesch perdono terreno. In questi ultimi mesi sono stati colpiti pesantemente il “loro” petrolio e le stesse colonne di trasporto che gli garantivano numerose risorse economiche. E’ stato disarticolato l’ambiguo collegamento con la frontiere turca, rendendo molto più complessa la possibilità per i foreign fighters occidentali di garantire forze fresche e riservisti, ed appare per loro complicata, sul piano logistico, la possibilità di ottenere nuovi armamenti da amici più o meno occulti.

La crisi militare coincide dunque con una crisi finanziaria. I daesch sono oggi costretti a ridurre del 50% gli stipendi ai propri miliziani, depressi anche da una catena di sconfitte che appare senza fine da Kobane ad Aleppo per arrivare a Palmira, con un Irak che appare oggi quasi liberato dalla presenza fondamentalista se si fa eccezione per la città di Mosul che sempre più appare la Stalingrado dell’ISIS.

Di conseguenza si è evidenziata una crisi di “vocazioni” di giovani pronti a farsi martiri per una causa che sempre più appare persa. Anche il tentativo di creare una variante Libia, con i miliziani daesch concentrati nella zona di Sirte, sembra non presentare per loro un futuro radioso, se è vero che anche grazie alla diplomazia italiana, il groviglio politico libico appare oggi avere un orizzonte più chiaro con Serraj (il nuovo capo del governo riconosciuto nel consesso internazionale) che puo’ essere la figura capace di far conciliare le differenti posizioni e interessi tribali con quelli europei e di creare una situazione di maggiore normalizzazione dell’area. Proprio Serraj, in queste ore e per la prima volta, chiede esplicitamente l’aiuto all’Europa e all’ONU per proteggere i pozzi petroliferi della Tripolitania.

Si aggiunga che più a sud, in Nigeria, anche se non è ufficiale, sembra che il principale alleato dello stato islamico, Boko Haram, abbia deciso unilateralmente di chiudere le ostilità. Addirittura pare che si stia trattando finanche la liberazione delle ragazze ostaggio da tempo in cambio di una loro resa senza vendette da parte delle autorità nigeriane.

Tutto questo e la possibile conclusione positiva della guerra sul campo, non puo’ portarci a credere che i problemi, che sono alla base di questa guerra asimetrica, siano del tutto conclusi e risolti. Colpi di coda sono ancora probabili e non ci si deve illudere che gli attentati in Europa o altrove siano finiti.

6177600_346915.jpg Tuttavia, ci sono dei dati che già di per se palesano i limiti di questa confusa e contraddittoria “guerra religiosa”, dati che mostrano l’estrema vulnerabilità del mondo fondamentalista e il perché la loro sconfitta appaia ormai inevitabile. Fa riflettere, ad esempio, la contraddizione ideologica del fondamentalismo islamico, che nelle sue parole d’ordine pretende l’annullamento di qualsiasi progresso, perché l’idea stessa del progresso contrasta con l’immutabilità della vita e delle società, per cui curiosamente abbiamo daesch ultra informatici e tecnologici che al contempo pretendono che le donne restino nei loro abiti tribali, retaggio di tradizioni vecchie di secoli e secoli. I fondamentalisti, inoltre, rigettano il modello di vita occidentale i suoi valori e costumi, eppure i terroristi di Paris e Bruxelles, alcuni giorni prima di darsi la morte, erano in discoteche ultra moderne, espressioni di quella società occidentale e “demoniaca” che loro sostengono di volere e dovere abbattere, ballando con piacere con ragazze tutt’altro che velate. Un modo incoerente di servirsi “come ultimo desiderio” proprio di quei simboli che si dichiara di odiare.

Nel suo avvincente romanzo inchiesta: “Nella testa di una jihadista”, la giornalista francese Anna Erelle (oggi colpita da una fatwa e per questo costretta a vivere sotto scorta e in una località segreta), rivela i meccanismi di reclutamento dello stato islamico. In alcuni passaggi dei dialoghi tra Mélanie (dietro di cui si cela l’Erelle) e Bilal (un reclutatore francese che cerca di convincerla con la promessa di un matrimonio) sono rivelatori delle contraddizioni di questo mondo.

Seguiamone un passo.

“Prendo la mia tazza di tè, ormai freddo, e ci soffio sopra per darmi un contegno. Non l’avessi mai fatto.
_ “Ehi! Ehi! E’ haram quello che stai facendo, piantala subito! Ehi, Mélanie? Non soffiare sul tè!”

“Ma è caldo!”

“E’ makloum! (proibito) Sono le basi queste. Come fai a non saperlo?”

“Perché dovrei?”

“Non risponde alle leggi islamiche , bensi a quelle del tuo Paese! Ma insomma, Mélanie!”

“Continuo a non capire…”

“Non devi cambiare la natura delle cose, è scritto…La Sharia si basa su leggi rigidissime: Metti che un domani hai un problema qualsiasi, ad esempio ti aggrediscono, ti derubano e cosi via, sei considerata come un kafir se te la prendi con il tuo Paese. In questo caso diventi nemico mio e dell’Onnipotente, perché rivolgendoti alla giustizia degli uomini, diventi automaticamente una infedele. Tua madre ad esempio ha stipulato qualche assicurazione?”

“Più di una se è per questo…Ha anche acceso un mutuo!”

“Ebbene, questo fa di lei una tua nemica. Lei non rispetta le nostre leggi, dunque non rispetta l’Islam. E tu, di conseguenza, non le devi più niente. Ti consiglio di ripassarti il Tawhid e la dawa (si tratta dell’invito ai non musulmani di ascoltare il messaggio dell’Islam) e di guardarti dal nemico”.

Questo dialogo che si trova tra le pagine 179 e 180 nell’edizione italiana mi sembra emblematico delle loro contraddizioni se si guarda allo stile di vita dei jihadisti in Europa o i Siria, dove si vestono con abiti griffati, vanno nelle discoteche a danzare con musiche occidentali, salvo poi pretendere che le proprie donne siano velate, ma ben inteso con biancheria intima firmata e possibilmente sexy.

La mancanza di coerenza ideologica di questi reclutatori cosi rigorosi nei confronti dei reclutati, dovrebbe chiarire le idee a molti che si avvicinano a questo inquietante mondo e probabilmente, il fatto che si sia studiato su di loro e che l’informazione operi con maggiore cognizione di causa è un altro dei motivi che sta logorando la capacità di reclutamento dell’IS.

Probabilmente, si puo’ ritenere che l’IS sia stata facilitata da un impatto mediatico e da una sostanziale impreparazione dell’intelligence, specie europea, che ha finito per enfatizzare la reale consistenza dello Stato islamico, ci fosse stato un impiego di truppe speciali occidentali sul terreno, la guerra sarebbe durata molto meno degli attuali due anni (e non è ancora finita).

Finire presto è tuttavia un tema decisivo, anche per andare a risolvere la questione dei profughi i quali in gran parte ritornerebbero nei loro territori se questi fossero pacificati definitivamente e messi in sicurezza.

C’è tuttavia tra i tanti insegnamenti che questo doloroso periodo presenta ancora un paio che vanno almeno segnalati. Da un lato la scarsa volontà del mondo musulmano di voler prendere effettivamente le distanza dall’IS. Dopo il trauma di Parigi e di Bruxelles, ma ancora prima con le Torri gemelle, o gli attentati di Madrid e Londra, ci si sarebbe aspettato da quelle numerose comunità in Europa e America, una netta presa di distanza con manifestazioni finanche spontanee di ribellione contro il fondamentalismo, sarebbe stato un segnale di rinnovamento culturale che avrebbe avuto una risonanza almeno paragonabile all’effimera stagione delle “Primavere arabe”, viceversa, a parte qualche frase di circostanza in qualche manifestazione pubblica o alla televisione, di qualche Imam di periferia, non si è assistiti a nessuna vera e definitiva loro condanna del fondamentalismo.

Pur con le dovute differenze, l’esperienza del terrorismo rosso in Italia si concluse davvero quando i sindacati (anche nelle loro basi) e i gruppi di sinistra (specie extraparlamentari) e tutto il loro variegato mondo, smisero di dire che i brigatisti erano: “compagni che sbagliavano”, considerandoli finalmente davvero dei nemici del popolo e in particolare del proletariato.

Sarebbe stato lecito attendersi qualcosa di simile anche nel mondo musulmano ( che peraltro conta il maggior numero di vittime del fondamentalismo) ed invece si è assistito ad una sostanziale equidistanza, ad un mutismo (inevitabilmente a volte complice) oppure a posizioni equivoche dove ogni critica al fondamentalismo è sempre preceduto da estenuanti premesse, non sempre pertinenti, sulle colpe dell’occidente. Quasi che la colpa dell’attentato a Charlie Hebdo fosse da rintracciare nel colonialismo francese dei principi del secolo scorso ed appare anche carente la spiegazione tutta politica e sociale, alla base del fenomeno dei foreign fighters, si capisce poco perché questo disagio sia stato religioso piuttosto che politico, magari generando nuove formazioni terroristiche sul modello degli anni di piombo.

donne-iraq2.jpg

Il silenzio della comunità musulmano è il vero elemento che inquieta e forse nel medio termine, inquieta anche più dell’attuale guerra asimmetrica.

Per la Siria, l’Irak e la Libia come in altre aree dell’Africa prima o poi dovrà aversi un nuovo ordine mondiale che magari tenga conto proprio da una parte quel G5 che in questi giorni si è avuto in Germania ad Hannover (con la significativa presenza dell’Italia, che raramente ha avuto un rilievo geopolitico cosi interessante), dall’altro lato la Russia ed altre medie potenze come l’Iran, la Turchia e l’Arabia Saudita. Ma il vero tema sarà proprio lo scontro di civiltà in casa nostra, i cui primi sintomi, tra frontiere chiuse, demagogie della vecchia sinistra che cerca improbabili alleanze finanche con i salafiti di Tariq Ramadan (come è accaduto nelle recenti regionali francesi), un mondo ecclesiastico che vuole viceversa la massima accoglienza ed un mondo musulmano che penetra nelle nostre società ma che è sostanzialmente riluttante ad accettare le regole del nostro vivere e che vorrebbe mantenere il proprio modello anche quando questo è in antitesi con le conquiste di civiltà, di laicismo e di libertà delle nostre democrazie.

Nel prossimo futuro il vero confronto è e resta quello.

Dall’altro lato si ha un secondo insegnamento che viene proprio da queste ultime contraddizioni. In un suo recente articolo su New Statesman (pubblicato il 3 dicembre 2015) il filosofo britannico e di sinistra John Gray, richiamandosi al pensiero illuministico di Thomas Hobbes, preconizza il bisogno di uno Stato forte per contrarre il terrorismo di matrice islamica ma anche per gestire il tema dell’integrazione dei profughi. Il pluralismo delle società – spiega – puo’ funzionare soltanto in una società capace di garantire l’ordine e che non deroghi dal proprio modello di vita e alla propria cultura. Chi arriva deve impegnare le proprie capacità adattivo funzionali per non mettersi in contraddizione con il modello di vita che ha scelto per costruirsi la sua nuova vita.

Sempre per Gray, si sbaglia a vedere nella strategia fondamentalista una forma di nichilismo, chi sta operando ha semplicemente estremizzato una forma di contrasto di civiltà (non chiamiamola guerra), che forse ha anche origine nel colonialismo ma che certamente è figlia dei grandi esodi (non solo bellici) del nostro nuovo millennio.
Il tema pertanto, resta quello di un reset della democrazia per poi riprodurla in una forma capace di coniugare con più rigore questo fondamentale modello e bisogno politico di società, con una crescente necessità di ordine e regole tese alla conservazione, se non al miglioramento, del nostro modello occidentale di vita, che resta, lo dicono i fatti e i numeri, il modello ricercato e desiderato da chi fugge dalle proprie realtà sociali.

Nicola Guarino

Article précédentLe confessioni, il nuovo film di Roberto Andò – Recensione
Article suivantVenezia 73. Il regista ‘shakespeariano’ Sam Mendes presidente di giuria.
Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

LAISSER UN COMMENTAIRE

S'il vous plaît entrez votre commentaire!
S'il vous plaît entrez votre nom ici

La modération des commentaires est activée. Votre commentaire peut prendre un certain temps avant d’apparaître.