L’Isola dei morti. Fantasia da Boecklin e Rachmaninov.

Cupo, incessante, rimbomba spettrale il dies irae, spingendo la barca a lenti remeggi sull’acqua rigida e scura quasi lastra tombale, dove un’isola attende vegliando, remota, sopra un lago che non ha nome, nel silenzio che nessun vivente ha mai udito.

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La smorta luce di nessun sole ne bagna le rupi; nicchie squadrate come finestre di pietra; bianchi edifici a nessun abitatore destinati, o forse ad anime estinte da tempo che vi hanno soggiornato ad attendere invano le altre sorelle; sotto un cielo nerognolo di nessuna nube o stella dimora, alti cipressi come neri custodi dell’arcano dominio………ritta, sulla barca, avvolta nel sudario della propria anima, la bianca figura sembra in ascolto del silenzio che dalla loro ombre spira come un suono di lenti violini che la invita e la spinge all’approdo………

Ma cosa è Morte se, dopo l’ultimo respiro, non del tutto son recisi i legami che ancora l’avvincono, come tenaci radici di albero morto, alla terra ed al tempo che visse raminga per le sue strade?

Volgersi indietro al richiamo di ricordi che dalla riva del mondo non vogliono sciogliersi e perdersi svanendo nel silenzio di quel cielo, che né vento né nuvole o uccelli svariano dalla sua plumbea immobilità?

Cupo, incessante, rimbomba spettrale il dies irae, spingendo la barca a lenti remeggi sull’acqua, rigida e scura quasi lastra tombale. Ritta, sulla barca, avvolta nel sudario della propria anima, la bianca figura è una statua fredda, come se lì ferma volesse durare che per sempre resti inviolata la riva che i due regni separa.

La smorta luce di nessun sole bagna le rupi. Oscuro è l’approdo, pauroso il silenzio sull’isola steso come raggelato respiro da labbra di morti frusciante dai neri cipressi. Cosa l’attende di là, oltre l’ombra oscura che cela il cammino? Verso dove, verso quale valle di ignoti tormenti o cupa caverna popolata da angosce infinite per tutto il non-compiuto sulla terra, o labirinto dove in eterno rincorrere fantasmi e sfuggirvi fantasmi di lei a se stessa? E di tutti i volti che di ora in ora, di stagione in stagione, segnarono in dolore e gioia, in sogno e nostalgia la vita, qual è quello che si porta di là come il più veritiero che la nominò per sempre e perdurò oltre il vanire degli altri?

A lenti remeggi, sospinta dal cupo incessante rimbombo, voga l’ignoto nocchiero verso l’ombra segreta dei cipressi, donde una dolce aria come di violini nascosti invita all’approdo, alla pace che altri han raggiunto e tra loro tutti i volti e le voci di quanti vennero amati ed amarono perché a quel silenzio si affidi quanto ancora scorre dal tempo.

Oh, muta angoscia che sale dal fondo passato saper per sempre sfiorito il giardino dove volteggiavano come candidi uccelli i giorni vissuti fra le siepi dei lillà in fiore, ridenti alle mille farfalle che scherzavano tra i capelli dell’amata, e mai più le bianche onde del cielo che scintillavano di spuma sul bordo del mare, mai più i lievi sorrisi delle notti di luna in attesa di sogni che fossero annunci ancora più lievi di gioie silenziose, mai più, e il segreto stormir dei boschi ed i venti d’autunno come una mano che passi ad accarezzare rudemente le chiome degli alberi, e le piogge e le nebbie e le mute domande dell’anima piegata su se stessa, mai più, mai più il volo dei mille rondoni a svegliare le aurore di giorni che si sapevano trionfare di luce sui vani pensieri…….oh, saper la sorte del tutto, il nome dell’ignota terra dove ha fine l’inafferrato vento di ogni esistenza……

Perché non un dio appare a tenderle la mano all’approdo, o un angelo aspetta ad indicarle la strada, perché non un’ombra di quelli che amò le viene incontro come da una lunga attesa e con volto sereno l’accolga a renderla certa che nulla è andato perduto di quanto sulla terra ha amato con cuore e mente pura? forse che più lieve le sarebbe l’approdo?

Non ombre si smuovono tra l’ombra dei cipressi, deserte le nicchie di pietra squadrata, le bianche costruzioni a nessun abitatore destinate, solitudine e silenzio di ogni isola che ognuno attende di quante ad ogni vivente destinate come il nome che a ciascuno è dato……..incessante rimbomba cupo nel silenzio dell’anima come grevi note di ottoni spettrale il dies irae, mentre avvolta nel proprio sudario, ritta in piedi, la bianca figura guarda l’approdo…….quali ricordi o paure la fanno esitare? O attesa che tutto del tempo si srotoli il filo e cessi per sempre la fantasmagorica ridda che si chiamò esistenza?

E d’un tratto tutto si ferma, in un solo attimo come eterno tutto si fa immobile mentre un arcano tremolio, come di cose che si apprestino a germogliare, prende a vibrare, e come gorgoglio di fonte che dal cuore della terra stia salendo in superficie, o baluginìo di voci che da un notturno passato si accingano verso la porta chiara dell’anima, si sveglia un ricordo, un antico dolore – la terra gemeva all’ululo di grevi nubi che ne ottenebravano l’orizzonte e le chiare montagne e i luminosi sentieri, poi scese la sera, e venne la notte e del giorno non restò che un’ombra che tutti gli altri nel suo manto avvolse e ne fece un solo immenso deserto sul quale si levò, ad illuminare l’inanità del tutto, l’alba perduta di tutti i mattini passati e futuri……. – ed ecco che un dolce vento, come un frusciare prolungato di nascosti violini che prelude all’ultimo accordo, allontana quasi fossero nubi invisibili i richiami che dall’altra riva ancora persistono, e languono i ricordi, si disperdono le voci che han volato sulle ali del tempo, cadono in polvere quali fragili veli di antiche reliquie gli ultimi pensieri che la mente ancora balbetta, bianca come il sudario che l’avvolge si fa l’anima, pagina bianca che nulla conserva di quanto fu scritto…… ed è silenzio.

Silenzio.

La smorta luce di nessun sole bagna le rupi. Immota la superficie dell’acqua, plumbea come il plumbeo cielo che la specchia. Ferma la volontà di non volgersi indietro, eretta, avvolta nel sudario di se stessa, la bianca figura ascolta di se stessa il muto tripudio che come musica sale, rema più forte l’ignoto nocchiero e si affretta, possente e sicura come mano paterna l’ombra che cela l’ingresso; al di là è il chiaro cammino, la solitudine pura, l’assenza assoluta, quasi balza di gioia il cuore al pietoso placato sussurro di un dolce dies irae che lentamente, spirante dall’ombra dei cipressi, acquietata la tempesta di improvvisi ottoni che si è persa innocua nell’aria, fuggite le ombre e i miraggi venuti dalla riva della vita, spegnendosi piano accompagna la bianca figura e la bara dove deporrà il suo sonno assieme alle ansie che l’hanno attardata.

Biagio Luparella

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