La disperazione. Un sentimento di ogni tempo.

Una condizione diffusa e sempre attuale, specie in tanti giovani privati di futuro e prospettiva. Se è vero che le cose stanno cambiando è altrettanto vero che questa condizione esistenziale ci è da sempre comune per amore o per bisogno. Un racconto breve dello scrittore e poeta irpino Gabriele De Masi.

Conosco ciò che mi porta da nessuna parte. Questi anni sembrano non finire, in un tempo d’attesa senza traguardo. Molti si chiedono se s’intraveda una luce, un lucignolo, nel fondo del cammino della nostra, lunga e buia galleria. Momenti, zeppi di svago e ozio senza sorriso. Sono, l’alzarsi tardi, la mattina, e, senza nessuna premura, attardarsi allo specchio senza vedere più neanche il volto conosciuto, o l’ intercettare una chiamata, che mai arriva, il decidere tra riassettare in cucina o passare a volo il Folletto, tanto, per dare almeno una mano alle faccende di casa.
Conosco il vuoto senza tempo nello sfogliare le stesse pagine d’un libro, già letto, e del tutto dimenticato. Quanti anni saranno passati? Tanti. Passano in fretta, fuggono e non li trattengo.

Conosco la disperazione, quando non è ricambiato un amore o non mi prendono all’impiego dopo l’ennesimo colloquio. Gli altri vanno avanti e io sto fermo a questo tavolo di bar in compagnia di noccioline, salatini e dell’aperitivo; prendo, sgranocchio e dimentico. Il biondo del bicchiere mi rasserena. Guardo la piazza: smontano le bancarelle del mercato. Forse non tornerò a casa per pranzo, con mia madre che spinge nel darmi da fare, tentare, cercare comunque un’occupazione e, in mancanza, anche una donna, che mi aiuti a mettere senno. Come se non tentassi, non volessi!
Non pulisco più le scarpe con Brill. Uso queste sportive, che non richiedono cura e impegno, forse come me, e, con me, salgono e scendono scale che non portano da nessuna parte. Sanno bene le mie scarpe come passo la giornata nella speranza di fare anch’esse un salto di felicità. Passi senza smalto.

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Conosco lo scorno di girare con due euro in tasca, né mi va di chiederne altri, quando finiscono in fretta i dieci o i venti che mi danno i miei vecchi, affranti. Non so se basteranno, questi che rimangono, almeno, per un panino con la mortadella e una birra, se non voglio tornare a casa.

Fai la valigia e vai a spaccare le pietre nelle cave, dannato!” sbraita mio padre senza forze, al sommo di discussioni infiammate, e non sa che mi tocca vederlo stare male.

Non torno a casa. Continuo a guardare la piazza. Vanno via gli ambulanti e giungono gli spazzini roteando in un frettoloso gioco di danza le grandi scope, perché li aspettano a pranzo. Quanto spazio si apre, quando tutti vanno via. Resto solo a guardare. Mi conforta il luogo. Risplende la luce traversa. Qualche ragazzo porta il pallone e subito altri inventano porte con zaini e panni. Respiro piano, annuso l’aria, assaporo lo schiamazzo contento di gara. Non penso più. Non sono più solo. Guardo i portici nel fondo e la chiesa dei frati sul lato. E’ pace dell’anima. Magari, non finisca mai!

Vieni con noi, questa sera? Andiamo a cena sui colli…” mi chiama Renato, rombando con l’auto importante, il figlio del noto avvocato del centro città. “Dai! Una bella bicchierata e una ricca mangiata…

Ci stavo proprio pensando. Ci puoi contare.” Rispondo io, senza coraggio e senza pensarci.
Conosco la disperazione.

Gabriele De Masi

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1 COMMENTAIRE

  1. La disperazione. Un sentimento di ogni tempo.
    Indolente affresco generazionale, che delinea in maniera cruda i rapporti tra genitori e figli.
    A fare da sfondo è l’impietosa, disperante attesa che qualcosa succeda in questo presente senza tempo; tempo dilatato in cui le azioni si ripetono svogliate, rassegnate e in cui non vi è nemmeno spazio per l’amore, l’unica forza in grado di rompere l’assedio imposto dall’inedia del tempo. La sensazione è, talvolta, di spaesamento; come se il narratore fosse, al contempo, genitore e figlio. La prospettiva muta: quel che rimane immutata è la carica disperata, la mancanza di fiducia, lo svilimento dell’idea di democrazia, con la criminalità organizzata mai nominata eppure tenuta lì ad aleggiare come un fantasma non gradito, un convitato di pietra sullo sfondo di questa rappresentazione.
    Come a dire: ‘vieni con noi, ci pensiamo noi a risolverti i problemi’.

    E’ il ritratto di un fallimento che si misura nella sciattezza dei costumi: nella metafora delle scarpe risiede la perdita dell’amor proprio; nel guardarsi allo specchio, faticando a riconoscersi, si intravvede il dramma della perdita lenta e progressiva della propria identità.
    Eppure lo sguardo del narratore è uno di misericordia verso ‘gli sconfitti della Storia’.
    Bella la sequenza della piazza; la conosco, l’ho vissuta anch’io da bambino. La danza leggiadra degli umili dona sollievo; il roteare delle loro scope porta conforto e riaccende un filo di speranza. L’inutilità della condizione del ‘giovane’ disoccupato, o inoccupato che dir si voglia con un’accezione oggi alla moda, si scioglie; quella frattura si ricompone nel momento in cui egli osserva il dispiegarsi di una partita di pallone improvvisata in quattro e quattr’otto, che sembra restituirgli il sentimento di essere parte di una comunità.

    Il finale è sottile, volutamente ambiguo. Si avverte la mancanza di dignità del giovane sfaccendato, inconsapevole della propria appartenenza sociale, nella misura in cui si accompagna al figlio del noto avvocato per fare bisbocce.
    E al contempo si avverte l’inutilità e l’impossibilità del singolo di operare alcun cambiamento rispetto alla situazione generale; il suo destino, se non si accetta l’offerta del ricco figliolo dell’avvocato, è la solitudine. E’ questo il prezzo da pagare per tenere salvo il proprio onore, la propria dignità?
    La domanda riecheggia con rinnovata forza e contemporaneità: eluderne la portata significa nascondersi in un mare di ipocrita mediocrità.

    Nino Amoroso

    https://ninoamoroso.wordpress.com

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