Adolfo Omodeo. Il mito del Risorgimento e la Grande Guerra.

1914-2014. Raccontare la Grande Guerra: la voce dello scrittore e storico Adolfo Omodeo. L’attualità di un testo ingiustamente caduto nell’oblio: “Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, 1915-1918” (Torino, Einaudi, 1968) di cui presentiamo alcuni brani. Presentazione di Gianluca Cinelli con ulteriori indicazioni bibliografiche per chi desidererà approfondire.


Adolfo Omodeo

Adolfo Omodeo (1889-1946) incentrò gran parte del suo lavoro e della sua passione nello studio del Risorgimento, al quale dedicò nell’arco della vita numerose opere che indagano questo periodo da una prospettiva di volta in volta storica, culturale, religiosa. Allievo di Giovanni Gentile, con cui si laureò nel 1912, Omodeo si arruolò volontario nel 1915, considerando il conflitto come la conclusione della lotta d’indipendenza contro l’Impero Asburgico, e credendo che dalla guerra la nazione sarebbe uscita rinnovata e matura, grazie alla saldatura tra intellettuali e popolo.

Dopo la guerra, però, deluso dagli esiti e dalla mancata trasformazione del Paese, guardò con crescente inquietudine all’avvento del fascismo e al modo in cui questo s’impossessò della Grande Guerra in chiave propagandistica. Sulla scia di un antifascismo moderato e dissimulato, nel 1934 Omodeo pubblicò Momenti della vita di guerra, una raccolta di estratti di diari e lettere di giovani ufficiali caduti durante il conflitto, attraverso le cui parole cercava di ricondurre quest’esperienza storica così importante per la nazione alla sua radice ideale del Risorgimento. Attraversando non senza contraddizioni il ventennio fascista (non sottoscrivendo il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti, giurando fedeltà al PNF nel 1931 per ottenere la cattedra universitaria, ma rifiutandone la tessera fino al 1941, quando dové prenderla forzatamente) Omodeo approdò nel 1943 al Partito d’Azione, di cui rimase un rappresentante di spicco fino alla morte.

Introducendo Momenti della vita di guerra nel 1968, Alessandro Galante Garrone scriveva che nel 1934 quest’opera aveva rappresentato un “aspro e doloroso risveglio alla realtà” (p. xi-xii) per molti giovani che, nutriti del mito della Grande Guerra, faticavano a interpretarne l’eredità al di fuori dell’ideologia e della propaganda fasciste. Omodeo, con intento polemico, cercò di rintracciare proprio nel Risorgimento l’origine dell’ideale per cui i combattenti italiani si erano sacrificati durante la guerra.

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Secondo Aldo Garosci, infatti, Omodeo vedeva nel Risorgimento “una età di grandi gesta e ideali, cui era stata impari la successiva età democratica; una età da tener alta nel ricordo come ispirazione, da ritrovare nel futuro, ma che non si prolungava direttamente nella vita quotidiana presente degli uomini e delle istituzioni” (Garosci, Adolfo Omodeo, II, p. 639). Il libro, elaborato fra il 1929 e il 1934, uscì quindici anni dopo la guerra, mentre il regime si avviava a raggiungere l’acme della popolarità, anche grazie alla propaganda sull’eredità della Grande Guerra. Omodeo raccolse e montò i documenti che aveva raccolto in anni di ricerche, perlopiù diari e lettere di giovani ufficiali caduti, in un discorso unitario in cui il coro doveva, secondo la sua concezione idealistica, produrre la “storia morale” del conflitto.

Di fronte al conflitto di massa, impersonale, lungo e tedioso, Omodeo comprese che la “storia spirituale” si incarnava non tanto nell’eroe “attivo” quanto nel “retaggio dei morti”, quegli uomini che “seppero ben morire” in nome di una missione storica che li trascendeva. Secondo Omodeo questi erano i “migliori” che avevano imposto il dovere sopra l’egoismo, sopra l’inerzia e il torpore, che avevano dominato se stessi con la volontà. Nel loro ricordo si riverberava la “missione storica” dell’Italia, perciò Omodeo descriveva i giovani caduti come eroi innocenti e ingenui, il cui sacrificio era stato anche un sacro rito di rigenerazione della patria minacciata. Omodeo rappresentava i giovani ufficiali come spiriti puri, avvolti in un’aura primaverile di freschezza e vitalità, eppure già maturi spiritualmente, pronti all’estremo sacrificio, il cui sentimento era scaturito “da un profondo e raccolto senso del dovere come anima di tutta la vita” (p. 123).

Ma Omodeo aveva vissuto e osservato l’umanità degli uomini in guerra troppo a fondo per non accorgersi della contraddizione: nella realtà la guerra “sublimò gli spiriti superiori, ma dilatò anche paurosamente le ferocie e le viltà” (p. 145), non avviò quel rinnovamento che avevano invocato alcuni fra i giovani più idealisti e generosi, cioè quelli del gruppo de “La Voce”, ai quali Omodeo dedicava molte pagine sondandone umori, slanci, illusioni e grandezza. Proprio alla luce del loro romanticismo post-litteram, dell’opposizione fra dovere e inerzia che caratterizzò l’impegno di questi intellettuali mossi da genuini benché astratti furori (soprattutto il mazziniano Vajna), Omodeo giunse a confrontarsi con gli aspetti più reali del conflitto, cioè la degenerazione nazionalista, la durezza della guerra, la tensione costante fra soldati e ufficiali.

La crisi del 1916-1917 mise in luce la profonda differenza tra le guerre del Risorgimento e il conflitto moderno. Laddove lo spirito garibaldino si era nutrito dell’emotività dei volontari, che seguivano il condottiero sospinti dal sentimento di una comunione ideale, il rapporto gerarchico tra ufficiali e truppa nel Regio Esercito si fondava ormai su regolamenti militari e su un’idea di disciplina rigida che non conservava niente dell’afflato eroico risorgimentale. La faccia oscura della “storia morale” della guerra si manifestava inoltre nel fenomeno degli “imboscati”. Omodeo non voleva che questa apparisse la più diffusa realtà umana del conflitto, e sosteneva che se pure si verificarono nel momento più difficile diserzioni e suicidi, su tutto si affermarono infine il dovere, l’abnegazione e il sacrificio di sé, con cui gli ufficiali trascinarono mediante l’esempio la massa inerte e sfiduciata.

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Il limite della tesi di Omodeo emerge soprattutto nell’Appendice dedicata agli “umili”, filtrata perlopiù attraverso l’opera di Leo Spitzer sulle lettere dei prigionieri italiani. Omodeo idealizzava il “contadino-soldato” come un elemento della natura arcaica catapultato nel cuore della storia, alla quale reagiva con diffidenza e fede, facendosi controparte umile dell’ufficiale di cui riconosceva volentieri la bravura e la lealtà. Per il resto il soldato era rassegnato e coraggioso nella sopportazione, in piena coerenza con l’immagine degli umili tramandata dalla letteratura ottocentesca: “la guerra del popolano è sentita come un fatto di natura simile alla vicenda delle stagioni. Passerà: ci vuol pazienza” (p. 265).

Alla prova del tempo, tuttavia, la tesi storica di fondo dei Momenti della vita di guerra non ha resistito, benché ciò non ne neghi affatto la validità e l’attualità sotto il profilo morale. L’immagine del combattente come un eroe nutrito di valori etici e politici risorgimentali, contraddetta già in parte dalla memorialistica coeva, fu rovesciata a partire dal 1970 dalla rilettura del rapporto ufficiali-soldati attraverso le lettere e poi le testimonianze orali.

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Tuttavia il valore etico del testo di Omodeo deve essere apprezzato anzitutto come reazione alla retorica fascista, allorché l’ex ufficiale e veterano tentava di ritrovare nel “retaggio dei morti” il collegamento ideale con il passato glorioso e moralmente esemplare del Risorgimento, anche a costo di alterare la realtà storica. Su questo fallimento storico dell’opera fu categorico Isnenghi, che la giudicò non soltanto “ritardataria rispetto ai tempi”, ma soprattutto “laterale rispetto alla linea storica di sviluppo delle classi dirigenti italiane”, perciò “anacronistica”, “nostalgica” e “malcontenta” (Isnenghi, Il mito della grande guerra, p. 118, 227 e 244). Nella misura in cui l’ottica di Omodeo “rivendicava […] un volto ancora ottocentesco, liberal-nazionale, alla prima guerra mondiale in Italia, compiva quanto meno una riduzione e una semplificazione della realtà, più propriamente un’operazione ideologica. Ancorava la visione del primo grande scontro imperialista – e del suo ruolo politico nello sviluppo del paese – su posizioni incomprensive, perché provinciali e nostalgiche” (Isnenghi, p. 149). Il limite della critica di Isnenghi, che oggi si mostra a sua volta in parte superata, consiste nel fatto di non aver visto che la classe degli ufficiali della Grande Guerra fu per la maggioranza composta da giovani borghesi figli della generazione risorgimentale, e che ai loro occhi quel conflitto non poteva non essere in modo naturale la continuazione della lotta di liberazione dall’Impero Asburgico. Che la guerra potesse allora apparire ai loro occhi come un conflitto nuovo, imperialistico, condotto su scala mondiale e scatenato da interessi ben diversi da quelli della vecchia politica dell’equilibrio infra-europeo, è un’interpolazione che rischia di perdere di vista l’effettiva mentalità di quegli ufficiali e di non comprendere pienamente il giudizio che essi espressero sull’esperienza di guerra.

Omodeo non volle proporre un’agiografia degli eroi caduti nella “bella morte” in senso retorico. Egli voleva riassumere in una raccolta di testimonianze lo spirito con cui una generazione a cavallo tra i due secoli aveva attraversato un evento storico che aveva di fatto troncato la continuità fra due epoche. E fu coerente la scelta di soffermarsi sulle testimonianze dei caduti, perché non si rischiava così di ritrovare gli ufficiali “puri”, gli idealisti del 1915, trasformati in squadristi. Resta alla fine l’impronta di un ideale, non rispondente in tutto alla realtà storica della guerra, ma potente come fonte di ispirazione etica per una generazione che nel 1934 si trovava alle soglie di una nuova guerra (in Africa). Il richiamo alla responsabilità individuale, al senso del dovere, allo spirito di sacrificio, in cui si riassumeva anche l’idea politica di Omodeo (che infatti confluì poi in Giustizia e Libertà) rimane ancora oggi un esempio di coraggio civile, in cui consiste forse l’attualità di un testo ingiustamente dimenticato.

Momenti della vita di guerra, Adolfo Omodeo. Opera di riferimento.

Antologia

Questo vagheggiare un momento la propria vita, e idealmente staccarsene, rinunziando così ad ogni tentativo di salvezza codarda, offrir se stessi in olocausto al proprio ideale patrio, alla coscienza del dovere, all’orgoglio virile dell’intima dignità, alle tradizioni passate, al vanto futuro delle famiglie, è la prima stazione ideale che risalta dalle lettere di guerra. Le variazioni della crisi del distacco sono infinite, secondo i temperamenti individuali e le particolari condizioni: hanno spesso un accento commovente, perché rivolte a madri e a spose che bisogna convincere dei sacrifici supremi (p. 16).
[…]

Molti incontrarono la morte prima che fosse sfiorita l’adolescenza. Le anime serbavano ancora la freschezza, l’ingenuità, il candore di chi fin allora è cresciuto ravvolto dall’affetto della famiglia, né ha sperimentato gli urti del mondo, e concepisce la vita adeguata ai sogni di poesia e alle speranze grandi. Distaccatisi dalle madri, si cacciarono nelle mischie sanguinose. Ma vissero la guerra con l’animo d’eroi di fiabe lontane, con la fede patria ingenua come la preghiera del fanciullo, con ardore degno d’antica poesia. Il concepire l’ideale come qualcosa di fermo, di realissimo che ha pieno diritto d’affermarsi tra le “cose parventi”, l’ignoranza della possibilità d’esser vili, egoisti, l’incapacità d’intendere i bassi moventi di tanta parte dell’umanità, li fa trascorrere come assorti in un sogno lontano, e li delinea in una purezza efebica non deformata. […] La morte che li ghermì lì ha fermati in una giovinezza che non sfiorirà più pel trascorrer degli anni (p. 85).
[…]

Tra la guerra sognata e la guerra vissuta, i giovani avevano sentito immenso l’abisso. A contatto col veterano, valoroso ma pessimista, spesso cinico, che si sentiva ormai sacro alla morte ed era disposto ad irridere a tutto, l’entusiasmo giovanile si contraeva, si smarriva: subentrava un’angosciosa trepidazione, non per il rischio, ma per la fede. Oh angosce delle responsabilità vissute da ufficiali fanciulli, che per la prima volta nelle notti oscure prendevano la consegna del loro elemento di trincea (p. 86).
[…]

Nelle lettere è continuo il lamento sulla morte dell’intelligenza, gli accenni ad una rassegnazione cupa, l’incredulità in direttive e comandi che valgano a modificare il ristagno mortale. Una diffidenza insanabile separa la “linea” dai comandi. Per certi rispetti v’è una solidarietà morale fra i comandi inferiori […] coi soldati contro i grandi comandi. Ma, d’altra parte, la sfiducia nei risultati dell’azione come l’impostava il comando supremo, sfiducia che dall’ufficiale di diffonde nella truppa, genera la crisi del “morale basso”, di cui poi si sgomenta e contro cui si sente incapace di reazione lo stesso ufficiale […] A un certo punto s’accorgeva che il suo ascendente sulla truppa veniva meno, e sorgeva una paura indistinta, un senso d’incapacità, la previsione d’un tracollo (p. 206-207).
[…]

Dall’esperienza di questa dedizione pura all’ideale, dall’abnegazione assoluta di se stessi derivavano due sentimenti in apparenza contraddittori. Si sentiva che questa somma d’offerte e di sacrifizi costituiva una realtà indelebile, un nuovo patrimonio dello spirito: che il sangue versato e il dolore virilmente accettato eran “edificazione” della patria, e si aveva un giocondo ottimismo. Ma quando s’usciva dalla considerazione interiore per un apprezzamento estensivo, si provava sgomento perché pareva che troppo pochi s’elevassero al sentimento del puro dovere (p. 243-244).

Gianluca Cinelli

Bibliografia primaria

  • Omodeo, Adolfo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, 1915-1918, Torino, Einaudi, 1968

Bibliografia secondaria

  • Isnenghi, Mario, Il mito della grande guerra. Da Marinetti a Malaparte, Roma-Bari, Laterza, 1970
  • Garosci, Aldo, Adolfo Omodeo, II. La guerra, l’antifascismo e la storia, «Rivista storica italiana», 77, 3 (1965), pp. 639-686
  • Garosci, Aldo, Adolfo Omodeo, III. Guida morale e guida politica, «Rivista storica italiana», 78, 1 (1966), pp. 140-183
  • Spitzer, Leo, Lettere di prigionieri di guerra italiani, 1915-1918, Torino, Boringhieri, 1976

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Gianluca Cinelli
Gianluca Cinelli è un ricercatore e scrittore italiano. Collabora con la Fondazione Nuto Revelli come consulente scientifico e ha pubblicato recentemente ‘La questione del male’ in 'Storia della Colonna infame di Alessandro Manzoni’ (2015), ‘Il Paese dimenticato: Nuto Revelli e la crisi dell’Italia contadina’ (2020) e il romanzo ‘Il segreto della città di K.’ (2019). È redattore della rivista scientifica Close Encounters in War (www.closeencountersinwar.org).

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