Paolo Monelli. Le scarpe al sole, diario di guerra di un Alpino.

1914-2014. Raccontare la Grande Guerra: La voce di Paolo Monelli. Scritto nel 1919 e uscito in prima edizione nel 1921, “Le scarpe al sole” (Cronaca di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli e di vino) racconta la vicenda autobiografica dell’autore, convinto interventista e ufficiale degli Alpini dalla fine del 1915. L’espressione mettere le “scarpe al sole”, in gergo degli alpini, significa “morire in combattimento”. E’ considerato uno dei più intensi libri-diari di guerra, di prospettive non consuete, e conobbe presto un grande successo. Presentazione e invito alla lettura dell’opera di Gaetanina Sicari Ruffo.

Si moltiplicano le pubblicazioni relative all’anniversario della Prima Guerra mondiale nel tentativo di meglio intendere se fu “un’inutile carneficina”, com’ebbe a dire Benedetto XV, e se poteva essere evitata come pensano i contemporanei. Provocò un grande squilibrio, come tutte le guerre d’altronde, ma essa, attestatasi come guerra di trincea, con povertà di mezzi ed equipaggiamenti specialmente da parte dell’Italia, fu particolarmente cruenta e caotica e rivelò il fallimento degli obiettivi per cui era stata voluta, aprendo successivi fronti che cambiarono l’assetto dell’Europa.

Paolo Monelli

Paolo Monella a sinistra

Paolo Monelli, ufficiale degli Alpini, giornalista e scrittore (Fiorano Modenese 15 luglio 1891 – Roma 19 novembre 1984), fu un convinto interventista e militò dal ’15, quando lo scenario bellico poté considerarsi pressocché definito. Quindi è importante capire dal suo racconto se la sua sicura condivisione dell’inizio si sia mantenuta tale fino alla fine.

Prima d’essere un giornalista di grande successo, lodato per il gusto del particolare, la prosa brillante, la fine arguzia, l’eloquio di grande impatto emotivo, fu un forte ed infaticabile combattente, apprezzato dai suoi alpini. Mai aveva pensato di darsi al giornalismo, essendo laureato in giurisprudenza, ma, dopo l’esperienza bellica, la sua voglia di comunicare non s’arrestò più. Figlio del Direttore dell’Ospedale militare di Bologna, Paolo Monelli considerò la guerra un impegno d’onore e un dovere che affrontò con determinazione e lucida partecipazione. Talvolta gli capitò di considerarla “un mestiere”, quasi avesse comuni caratteri convenzionali. Certo amò l’azione, il vino e l’amore e mise in gioco la sua giovinezza e la sua vita pur di non starsene in disparte. Definì l’esperienza bellica “una ricchezza segreta ed indistruttibile” che gli valse fama e prestigio.

Profuse tutte le sue energie nei combattimenti e meritò tre volte la medaglia di bronzo. Arruolato nel battaglione “Val Cismon” del 7° reggimento Alpini, presente sul fronte del Trentino sud orientale, combattè in Valsugana Logorai orientale nel ’16, sull’Ortigara, sul monte Tondarecar nel corso del ’17. Fu pure al comando della 301 Compagnia del battaglione Alpini Sciatori Monte Marmolada. Nel ’18 fu fatto prigioniero e ripreso due volte dopo inutili tentativi di fuga.

Da queste esperienze nacque il diario Le scarpe al sole, in cui descrisse fedelmente le vicende occorsegli ed i luoghi percorsi sulle cime innevate del Trentino e del Cadore. Il suo primo impatto con la guerra fu il giorno di Natale del 1915 e fino all’armistizio provò di tutto: gli stenti, la fame, le veglie, gli scomodi ed improvvisi attraversamenti per sfuggire o sorprendere il nemico, gli attacchi proditori, le difficili battaglie come quella sanguinosa dell’Ortigara nel ’17 ed infine la cattura e la prigionia narrate nella terza parte del diario con un tono profondamente cambiato e divenuto dimesso. Alcuni punti del suo racconto concordano con la narrazione di Gadda (http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=2054).

Ma mentre questo testo presenta dell’incisività nel penetrare la visione del conflitto fino al punto d’innestarla con una riflessione universale sul male, Monelli si limita realisticamente a descrivere i giorni critici, le difficoltà dei mezzi, la povertà degli equipaggiamenti e la bellezza dei luoghi montani a conferma della sua attitudine al giornalismo. Si discosta pure dal racconto del diario di Lussu, impegnato con la brigata Sassari in quel di Asiago, per impedire agli Austriaci di arrivare fino a Vicenza e Verona. Il suo libro Un anno sull’altopiano (Edizioni italiane di cultura, Parigi, 1938), che racconta la guerra di un convinto interventista “democratico”, esprime una forte riprovazione della guerra.

Paolo Monelli non la ama, ma la ritiene necessaria e la presenta come una azione dovuta per salvare l’onore dell’Italia. Cerca di evitare depressioni e malinconie per conservare le sue giovanili energie e quelle dei suoi compagni. Trova con naturalezza l’impeto giusto per affrontare il nemico senza pensare alla morte in agguato, riuscendo temporaneamente a neutralizzarla.

Paolo Monelli

Il sottotitolo del suo diario: Cronaca di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino la dice lunga sulla sua voglia di vivere come in un’avventura e di narrare talvolta episodi di allegria, di grandi bevute, di incontri, di allegre canzoni per esorcizzare la paura e il pericolo incombenti. La guerra non è Grande. Gli appare solo un mezzo rapido per vincere la partita e giungere alla vittoria, mentre giudica incerto il confine tra vivi e morti. Essi sono i protagonisti di tutta la sua storia. Lo scrittore attraversa con leggerezza le linee d’ombra che dovrebbero separarli e a loro si rivolge ora con accenti elegiaci, ora con crudo realismo, invitandoli a dire la verità.

Per il resto conta solo l’azione e l’azzardo dei combattenti, ai quali sono comminate le fucilazioni che di solito spettano ai disertori, se solo provano a non obbedire agli ordini.

Un episodio di tal fatta è raccontato nel diario con crudezza di particolari per due alpini che, in occasione della battaglia dell’Ortigara (giugno del ’17), usciti per una corvè non vi erano più rientrati. Allo scrittore non interessa dare solo la notizia della loro esecuzione, ma si attarda a descrivere minutamente nel dettaglio i particolari, forse per far capire la rigidità delle regole e l’assurdità d’un fuoco amico che apparve già fin da allora spropositato ed inutile. In realtà oggi si dà molta importanza a queste decimazioni, volute numerose dai comandi militari (circa in 200.000 furono accusati di diserzione) e si disse allora per assicurare la disciplina, ma si pensa ora anche per assolvere dalla responsabilità i capi e attribuire gli insuccessi all’inerzia e alla leggerezza dei soldati: “La giustizia degli uomini è fatta. Questioni, dubbi s’affacciano alla mente riluttante e li respingiamo con terrore, perchè contaminano troppo alti principi: quelli che accettiamo ad occhi chiusi come una fede per timore di sentir fatto più duro il nostro dovere di soldati.

Al di là del dissolvimento dei confini e della precarietà dei destini individuali, la “cognizione del dolore”, cara a Gadda, non sollecita però Monelli a riflessioni che travalichino l’episodio e si pongano come commento negativo d’un certo limite nazionalistico. La guerra diviene una disciplina che foggia il carattere e dà lo sprone ad una vita intensa di partecipazione e di forti emozioni come fu la sua anche nel prosieguo.

Alpini in guerra

Infatti dopo l’exploit del primo conflitto mondiale che Monelli ha vissuto come un impegno serio e sentito (Indro Montanelli, “Corriere della sera”, 13 settembre 1997, lo definisce “cronista galantuomo”), non si estinse il suo interesse per la guerra e fu protagonista di altre esperienze simili: partecipò al secondo conflitto mondiale, sempre restando nel corpo degli Alpini come inviato speciale e fu, nel corso della sua lunga esistenza, più volte relatore, sponsor e retore della necessità di essa. Talvolta si compiacque della sua partecipazione: La guerra è bella, ma scomoda (Treves, Milano,1929, testo illustrato con 46 tavole di Giuseppe Novello), altre volte la ricordò semplicemente come un mestiere, descrivendone le occasioni: La naja parla (Longanesi 1943, ripubblicato da Mursia nel 2001 con il titolo: Ricordi di naja alpina), oppure: Le parole della guerra.

La sua carriera nella carta stampata come giornalista del “Resto del Carlino”, “La Stampa”, “Il Corriere della Sera”, “L’Europeo”, “Il Mondo”, “La Gazzetta del Popolo”, lo vide ora come inviato speciale o corrispondente (Cecoslovacchia, Berlino, Ginevra, Etiopia, Vienna) e a stilare réportages di molti viaggi in tutto il Mediterraneo e nell’Europa continentale. E’ difficile seguirlo in questo andirivieni di esplorazioni, ma fu un giornalista ambizioso di costituire con l’arte dell’informazione un genere alternativo alla narrativa ed alla poesia che pure lo tentarono.

Con la sua assunzione alla torinese “Gazzetta del Popolo”, di cui era direttore E. Amicucci, segretario del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti, Monelli, insieme a Barzini, Missiroli, Ansaldo, Vergani, Malaparte, Longanesi, cedette alle tentazioni della dittatura. Non ebbe remore ad entrare in amicizia con Ciano e Bottai. Ne condivise le scelte ed i programmi e con il volume Barbaro dominio (Hoepli, Milano 1933) aprì la campagna di purificazione della lingua italiana, minacciata da influenze straniere. Voleva un’Italia libera da influssi culturali esteri, pronta a dominare e a distinguersi. Il nazionalismo lo contagiò ed egli ne fece una bandiera.

Più tardi prese le distanze da tale esperienza, scrivendo il libro Roma 1943 (Migliaresi 1945), condiviso da un altro alpino scrittore, Gadda, anch’egli autore dell’antimussoliniano Eros e Priapo. I libri di Monelli che seguirono: Da Milano a Dongo, L’ultimo viaggio di Mussolini, Mussolini piccolo borghese, sono sulla linea di questa revisione. Una stagione di facili entusiasmi si chiudeva e se ne apriva un’altra di maggior rigore, ma sempre varia e movimentata. E’ come se egli avesse vissuto più vite. Nel secondo dopoguerra Monelli fu impegnato oltre che nel giornalismo (collaborò al mensile “Mercurio” di Alba De Cespedes) anche nel tentativo di riuscire in campo letterario.

Seguì infatti varie attività, mosso dai più svariati interessi umani e sociali. Tentò la via della narrativa: Sessanta donne (’47), Morte del diplomatico (’52), Avventura nel primo secolo (’58), ma senza molto successo. Frequentò gli amici dei Premi Bagutta e Strega, senza comunque conseguire brillanti risultati. Negli ultimi anni recitò persino a teatro, nella commedia Mio figlio Professore di Renato Castellani ed in Primula bianca di Carlo L. Bragaglia, rivelando di possedere un grande vitalismo alla maniera dannunziana anche per la sua vita che aveva sognato fosse “inimitabile” come quella del Vate. Morì a Roma all’età di 93 anni, nel 1984. Lasciò sotto il nome di “Fondo Monelli” il suo archivio personale ed i suoi numerosi volumi alla Biblioteca statale di Roma “Antonio Baldini”.

A Bologna, nel Complesso monumentale della Certosa, dedicato ai caduti della Grande Guerra (Museo del Risorgimento), Paolo Monelli è ricordato come un protagonista dell’evento insieme ad altri bolognesi appartenenti al Corpo degli Alpini: Gaetano Berti, Attilio Frescura, Angelo Manaresi. La sua figura è stata, durante gli anni intercorsi fino a questo centenario, quasi al centro della memoria collettiva che si rinnova. Recentemente, infatti il 22 ottobre2014, nel castello di S.Giusto a Trieste è stata inaugurata la mostra “Al fronte con Paolo Monelli” e lo hanno riguardato molte altre iniziative.

LE SCARPE AL SOLE

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Il suo libro-diario Le scarpe al sole che, nel gergo degli alpini, significa morire in combattimento, scritto nel ’19 e pubblicato nel ‘21 da Cappelli, Bologna, è composto di 227 pagine. Il suo successo fu rapido e strepitoso tanto da divenire presto popolare. Fu tradotto fin dal 1930 a Londra, Parigi, New York e considerato uno dei più intensi diari di guerra. Il tono della narrazione è prima leggero e poi grave, animato da fede patriottica, ma gli Italiani sembrano disorientati e, nonostante numerosi eroici episodi di resistenza, disorganizzati e mal guidati. Scritto in una prosa colorita e scattante con espressioni gergali e l’uso di una libera sintassi, in forme linguistiche spesso del linguaggio parlato, vive e disinvolte, intramezzate da poesie, canzoni, echi letterari, impressioni soggettive e frammenti di dialogo, il diario non genera mai monotonia, ma, proprio per la sua varietà, riesce a tener desta l’attenzione del lettore, puntando su considerazioni umane di intensa emotività:

Più alta che la patria, più forte che il dovere. Umanità. Ci sgozziamo ferocemente, in un macello che ci ripugnerà forse domani, per valori che saranno angusti o nulli domani. Ma uomini siamo, con dignità di uomini, con questa potenza di chiudere in un gesto la giustificazione e la ragione della vita.

All’inizio la lettura si apre all’insegna d’un gran fervore giovanile, di viva curiosità nell’accogliere le novità, anche se con il contrappunto di disagi, veglie, improvvisi trasferimenti, freddo e fame: “Allegri asceti siamo noi, che confortiamo di buon vino e di fantasie libere la prontezza quotidiana al sacrificio”. Si entra poi a far conoscenza della comunità militare con cui si fraternizza senza perdere la memoria del luogo di provenienza. Ci sono squarci superbi di descrizioni naturali di tono elegiaco: di notturni, tramonti, albe.

Via via però il tono si fa più aspro, meno confidenziale e la dura realtà quotidiana, tra il pericolo dei cecchini, i fischi delle granate, l’asperità dei luoghi, prende il sopravvento. Si aprono scene di sconfinamenti inenarrabili, in cui la prosa drammatica si sostituisce alla poesia. Allora lo scenario cambia. Si offre alla vista un grande carnaio umano, fragile e logoro che tenta inutilmente ed eroicamente di resistere. L’olfatto aiuta la vista a meglio comprendere l’evidente orrore: cieli neri e carni putrescenti. I bagliori che si accendono sui monti divengono sempre più vicini. La morte, che prima sembrava giocare a rimpiattino, rivela il suo ghigno mostruoso. Fortuna che agli alpini vengono concesse abbondanti bevute nelle rare soste che fanno, come risarcimento alle marce forzate ed alle improbe fatiche degli accerchiamenti e degli scontri. Ma l’oblio non si ottiene con così facile prezzo. Ci pensano il freddo e la fame a tenerli svegli oltre misura. Alcune battaglie poi, pur così sofferte e cruenti, non danno il risultato sperato: quella dell’Ortigara ad esempio, con il vallone dell’Agnelizza colmo di morti, è stata giustamente chiamata il Golgota degli Alpini.

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E’ il ’17 l’anno cruciale, negativo. La vita sembra sia congelata e non riesca più a trovare risorse e la parte terza del diario di Monelli disperatamente narra la mestizia dei cedimenti, delle sconfitte, pesantissima quella di Caporetto del 9 novembre non vissuta direttamente, perchè l’autore vien fatto prigioniero ed avviato verso Trento e poi al Castello di Salisburgo.

(5 Dicembre) Melanconico corteo verso le retrovie nemiche. La fame atroce sovrasta beneficamente al dolore. Al buio ci mischiano con un’orda enorme di altri prigionieri. Tra quelli quanti sono che alzarono le mani senza combattimento? Le bestiali necessità del cibo e del riposo superano ogni senso di dignità; già soldati si scrollano di dosso il fardello della disciplina, gettano contro l’ufficiale il loro odio, il loro rancore, la soddisfazione d’essere prigionieri”.

Qui non c’è più la retorica dell’epicità della guerra, la soddisfazione d’aver compiuto un dovere, ma la squallida costatazione d’un mutamento indesiderato, d’un esito infelice, la confessione di errori compiuti, la perdita della dignità. La milizia che non si sente fiera, ma rassegnata e affranta ed anche, ad armistizio compiuto, delusa per un risultato insoddisfacente: “D’un colpo, tutto è crollato. Attoniti udiamo il frastuono del nuovo mondo, or che si è fatto silenzio in noi, e il cuore è gonfio di echi irrevocabili”.

ANTOLOGIA DA LE SCARPE AL SOLE
(Bologna, Cappelli Editore 1921)

Edizione originale

Per questo forse. E per questo lievito di giovinezza che ci fa danzare sul filo del rischio con ebbrezza acuta per cui una fede ci piace se ardua ed un compito ci appassiona se minaccevole, per amare di più geloso amore la vita scampandola dal combattimento come di più geloso amore l’amai riportandola intatta dall’insidia delle montagne.[….]

Si parte. Pioggia, snebbiarsi lento del cielo uguale. Poi neve. Nel bosco incappucciato di bianco attraverso viali come di ville dignitose. Il crepuscolo attinge luce più morbida dal suolo: gli alberi sono natalizii e le baracche confitte nel suolo, dalle finestrelle s’irradia la luce nella neve – sono presepi tiepidi. Attirano con dolcezza di meta. Si pensa che giacere sulla paglia asciutta, fiutare il tanfo sano dei vicini che russano, indulgere alle irrequiete passeggiate dei pidocchi siano le più desiderabili cose. Ma si continua a marciare. Ed ecco vien fuori la luna a giocare a rimpiattino con i gravi abeti infarinati. Essa veniva nel viale degli abeti, la luna passata, ed i suoi denti di tigretta brillavano per il piacere. Forse stanotte, al di là della linea delle vedette ci scontreremo con il nemico. […]

Natale 1915

Poi a mezzanotte partenza. Nel paese immerso nella chiarità lunare il groviglio, l’affaccendarsi dei conducenti, dei muli, dei soldati, casse di cottura e casse di cartucce. Battere di chiodi nel gelo. Pallore di stelle. E cammino come assorto per le strade lunari, pensando con ritegno alla dolce casa lontana, alla felicità di raccontare nel futuro le gesta che vivo. I soldati marciano taciturni: solo qualche bestemmia, qualche dialogo sommerso punteggiato di ostie. E la gavetta che suona e il fucile del vicino sono la sola preoccupazione. Si arriva, marcia forzata, sei ore senza un alt in una valle dove non batte sole, chiusa da alte giogaie nevose. Vigilia di combattimento in un rigore di cielo e di gelo. A mezzanotte è nata la luna. Il bosco fitto nel quale marciamo cauti (il cricchiolio sul gelo è moltiplicato nell’ansia), s’anima romanticamente d’ombre e di luci soavi. Una lenta corrente di nostalgia attenua i sensi. Pigrizia d’un letto in una camera lontana, essere una chiocciola per rannicchiarsi nella casa seguace e dormire…E poi che fame e che freddo! Ta-pun. Allarme. Gelo improvviso, cuore che si smaglia. La prima fucilata di guerra: l’avvertimento che la macchina è in moto e ti ha preso dentro inesorabilmente. Ci sei. Non ne uscirai più. Non ci credevi forse ancora, fino a ieri, giocavi con la posta della tua vita come con la certezza di poterla ritirare, parlavi facile d’eroismi e di sacrifici che non conoscevi. Ci sei adesso. Il destino tien giuoco. Alba livida di sfondo allo sbigottimento, desideri impossibili, ma gli altri che cosa pensano?

[…] E’ la morte questa ridda di suoni urlanti e fischianti e i rami stroncati del bosco e il lungo cigolio delle granate nel cielo? Serenità.

Quando poi rientriamo un pò storditi e gli uomini sono contenti perché riportano la pelle a casa e in me è l’ilarità leggera del battesimo del fuoco, il maggiore che non ce ne ha colpa, e ce lo vedemmo sempre davanti agli occhi, e se non ha preso una schioppettata è perché c’è un Dio per i buoni maggiori coraggiosi lui si prende una pipa del comandante della divisione che ci accoglie al varco dei reticolati duro gelido ostile. Dice che siamo morti in troppo pochi. Dice che la posizione si doveva prendere. (E consulta quella carta che ha più sbagli che segni). Dice che è facilissimo trovarla, persino sulla carta. Ma dimentica di dire che di notte non ci si vede e che aveva mandato a cercare un cocuzzoletto fra altri mille un battaglione che in quei posti non aveva fatto mai una pattuglia.

[…] A Maga Puisle, a trainar cannoni con tutta la compagnia. Su per la mulattiera gelata i pezzi arrancano. Un’ilarità robusta corre la compagnia, muscoli tesi nello sforzo, gara gioconda d’arrivare perché lassù c’è un capitano della montagna che ha promesso del vino, e perché il tenente d’artiglieria dice che i territoriali non ce l’hanno fatta a portar su i cannoni. Veramente oggi si doveva riposare, adesso siamo a riposo, ma è il nostro mestiere e che serve lamentarsene?

[…]Abbiamo seppellito i nostri morti ultimi stanotte. Gli abbiamo recati a spalle nelle bare bianche che Zama ha costruito attraverso le stradette tortuose. S’ assiepavano sulla parte degli accantonamenti i soldati, i rancieri s’affacciavano neri d’antri vividi di fumo. Le montagne s’intagliavano sul frugare irrequieto dei riflettori, erano sonore di cannonate. E mentre il cappellano scandiva rapidamente le parole latine del commiato, l’ombrello curioso d’un razzo si aprì, sul cielo nero. Non siete morti ancora, nostri morti che avete messo le scarpe al sole durante la pattuglia, e nemmeno il tempo di dire al compagno che badava ai fatti suoi -Salutame la me vecia – Quando su questa valle allegra rifioriranno le rose e s’avvicenderanno i raccolti e vendemmieranno ragazze bionde le vigne, quando il contadino cingerà di siepi spinose il suo campicello disfacendo i reticolati laboriosi, allora sì, nel camposanto bianco sarete ben morti, così dimenticati da nuovi prepotenti viventi, così lontani dagli altri morti della famiglia.

[….] Questa è la guerra. Non il rischio di morte, non la rossa girandola della granata che accieca e seppellisce in un turbine sonoro “quando si leva che intorno si mira-tutto smarrito della grande angoscia”, ma sentirsi così marionette nelle mani d’un burattinaio ignoto, gela talvolta il cuore, come se la mano d’un morto l’afferri.

[…]Chi sa quanto è durato il bombardamento di mille calibri, dai quattro punti cardinali, che s’è sferrato subito dopo, accendendo nella notte un firmamento inesausto di scoppi? Sotto quella furia, tra i sassi, contro una roccia, dovunque la montagna pare promettere riparo, immobili nell’offerta della nostra carne -e brandelli di pensieri- ed attesa senza meta d’una fiammata, d’un urto che piombi nel nulla. Un soldato, vicino a me, batte ininterrottamente i denti – con nota che esaspera- e un sonar di gavetta segna il tremare del suo corpo nelle pause del fracasso.

…]La nostra condanna è in questo cielo di rame inesorabilmente pesante sui nostri cranii, in questa poltiglia di carogne che infracidiscono, in questa dura sassaia cui siamo inchiodati dal nostro mestiere come la farfalla sulla tavoletta di legno del collezionista. Arguzie di caserma s’ostinano solitarie, mosconi senza stagione, nelle tempie vuote. L’hai voluta la penna? Hai venduto la vacca? Hai portato il butirro al sindaco perché ti mettesse negli alpini? In un sacco ci hanno messo ed ogni tanto l’allegro macellaio ci prende e ci butta sul pancone sanguinoso; poi, quando sarà finita, raccatterà quelli che saranno ancora buoni per un’altra volta e li rinsaccherà.

Fucilazione dei disertori

Grande Guerra. Fucilazione di desertori

[…] I due hanno urlato, pianto, chiamato la famiglia lontana, implorato pietà e perdono…E quando hanno intuito che nessuna forza umana poteva loro ridare la vita non hanno più detto una parola, hanno solo continuato a piangere lentamente. Il plotone d’esecuzione s’allinea, sbigottito, occhi atoni nell’aiutante maggiore che con voce che vuole dunque far suonare aspra spiega la necessità di mirar bene per abbreviare l’agonia a gente irrimediabilmente condannata. Nel plotone ci sono amici, paesani, forse anche parenti dei due condannati. Commenti sommessi sull’allineamento. – Silenzio – grida l’aiutante. E’ arrivato il prete, tremante, atterrito; c’è anche il medico, si marcia ad una piccola radura sinistra, nel bosco, ai primi lucori dell’alba. Ecco il primo condannato. Un pianto senza lacrime, quasi un rantolo esce dalla gola serrata. Non una parola, occhi senza espressione più, sul volto solo il terrore ebete della bestia al macello. Condotto presso un abete, non si regge sulle gambe, s’accascia: bisogna legarlo con filo al tronco. Il prete livido, se lo abbraccia. Intanto il plotone s’è schierato su due righe: la prima riga deve sparare. L’aiutante maggiore ha già spiegato: io faccio un cenno con la mano e allora fuoco. Ecco il cenno. I soldati guardano l’ufficiale, il condannato bendato, e non sparano. Nuovo cenno. I soldati non sparano. Il tenente batte nervosamente le mani. Sparano. Ed ecco il corpo investito dalla raffica si piega scivolando un poco lungo il tronco dell’albero, mezza la testa asportata. Con un’occhiata il medico sbriga la formalità dell’accertamento. Siamo al secondo. Questo scende calmo, quasi sorridente, con appesa al collo una corona benedetta. Dice come estasiato – El xe justo – Vardè voialtri de rigar drito, no stè a far come ghe go fato mi -.

Tocca a sparare quelli della seconda riga. Ma questi tentano di sottrarsene, affermando d’aver già sparato, la prima volta. L’aiutante maggiore taglia corto, minaccia, parole grosse. Il plotone si riordina. Un cenno. La scarica. E’ finito. Il plotone d’esecuzione – raccapriccio, angoscia su tutti i volti – rompe i ranghi, rientra lento. Per tutto il giorno un gran discorrere a bassa voce nelle baracche, un senso di depressione enorme nel battaglione.

Gaetanina Sicari Ruffo

Opera di riferimento:

Le scarpe al sole (Bologna, Cappelli 1921)

Bibliografia di carattere generale:

Eugenio Marcucci, Giornalisti grandi firme. L’età del mito. Soveria Mannelli. Rubbettino 2005

F. Contorbia, Giornalismo italiano II 1901-1939, Milano 2007

Bibliografia specifica:

 Opere di riferimento dello stesso P. Monelli: Sette battaglie, Treves, Milano,1928

P. Monelli, La nostra guerra 1915-18. Nel Cinquantenario, Milano 1965

P. Monelli, Ricordi di naja alpina, a cura di L.Viazzi, Mursia Milano 2001

S. Giovanardi, Quella specie in estinzione, in “La Repubblica”, 20 novembre 1984

Indro Montanelli, Ricordare Monelli cronista galantuomo, “Corriere della Sera”,13 sett. 1997

Indro Montanelli, Roma 1943. Le trame svelate di Monelli, “Corriere della Sera”, 5 giugno 1999

Giuseppe Ielen-Luca Girotto, Al fronte con Paolo Monelli Valsugana Lagorai orientale. I luoghi e i volti de “Le scarpe al sole”, Scurelle Lito delta 2008

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LINK DA NON PERDERE SU QUESTO SITO:

 Letteratura italiana. 1914-2014 Raccontare la Grande Guerra: la voce degli scrittori. Articolo introduttivo a firma di Giovanni Capecchi e Fulvio Senardi.

Altri contributi, altre voci di scrittori di questo Mensile Altritaliani.net nel Centenario della Prima Guerra Mondiale

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Gaetanina Sicari Ruffo
Gae(tanina) Sicari Ruffo è purtroppo venuta a mancare nel 2021. Viveva a Reggio Calabria. Già docente di Italiano, Latino e Storia, svolgeva attività giornalistica, collaborando con diverse riviste, tra cui Altritaliani di Parigi, Calabria sconosciuta e l’associazione Nuovo Umanesimo, movimento culturale calabrese. Si occupava di critica letteraria, storica e d’arte. Ha pubblicato i saggi Attualità della Filosofia di D.A. Cardone, in Utopia e Rivoluzione in Calabria (Pellegrini, 1992); La morte di Dio nella cultura del Novecento, in Il Santo e la Santità (Gangemi, 1993); La Congiura di Tommaso Campanella, in Quaderni di Nuovo Umanesimo (1995); Il Novecento nel segno della crisi, in Silarus (1996); Le donne e la memoria (Città del Sole Edizioni, 2006, Premio Omaggio alla Cultura di Villa San Giovanni); Il voto alle donne (Mond&Editori, 2009, Premio Internazionale Selezione Anguillara Sabazia). Suoi anche i testi narrativi Là dove l’ombra muore (racconti Premio Internazionale Nuove Lettere, 2010); Sotto le stelle (lulu.com, 2011); La fabbrica dei sogni (Biroccio, 2013); la raccolta di poesia Ascoltando il mare (Pungitopo, 2015).

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