Fuori dalla crisi, ma non dimentichiamo di rottamare.

Tutti i dati lo dicono: siamo fuori dalla recessione. La strada è lunga ma segnata. Una fase delicata in cui i partiti, dal PD agli altri devono dimostrare maturità politica e senso di responsabilità. Se ci sarà spirito costruttivo allora può darsi che sia la volta buona.

Allora, sembra che ci siamo. Tutti gli indicatori ci dicono che la lunga recessione (tre anni e mezzo) è finita. Certo quando il segno della crescita è uno +0,1 bisogna andare cauti, ma già ad inizio anno uno studio della Confindustria, dava segnali di grande fiducia nella ripresa, fiducia confermata, con minore slancio, dall’ISTAT e poi ci sono dati sulla fiducia dei consumatori, con una crescita dei consumi ancora molto contenuta, ma che tuttavia è significativa. Si aggiunga che un’impresa su due nell’ultimo trimestre a raddoppiato il fatturato.

Tradotto vuol dire che gli italiani nel loro complesso, incominciano a riavere speranza nella ripresa del paese. Certo ha influito il dimezzamento del costo del petrolio che in poco più di un anno è passato dai 100 dollari ai poco più dei 50 attuali, c’è una ripresa generale dell’economia dopo anni di crisi, l’effetto ancora psicologico più che concreto della immissione di capitali della BCE (immaginiamoci quando queste immissioni a breve si concretizzeranno), ma innegabilmente per gli italiani un qualche peso l’ha avuto anche la politica del governo.
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Il taglio dell’IRAP che si salda al Jobs act (anche qui bisogna ancora verificare nei fatti, la giustezza della riforma), il rilancio occupazionale e la difesa di alcune industrie chiavi, si pensi solo per fare alcuni esempi, all’Electrolux, alla Fiat che nel sud occupa più di 5000 operai dopo anni di cassa integrazione e licenziamenti, alle acciaierie di Terni, alla prossima soluzione dell’ILVA di Taranto, all’Alcoa in Sardegna e al clamoroso dato dei 100.000 assunti nel mese di gennaio, certo non si tratta solo di meriti del governo, ma sono fatti che comunque aiutano.

Anche l’avvio delle riforme istituzionali ha il suo senso come chiave per una politica che riesca ad avere una sua maggiore concretezza. L’Italia non è più nel mirino della Commissione europea e l’approvazione anche dalla rigorosa Germania costituisce un attestato di merito. Imprese italiane che dall’oriente d’Europa tornano ad investire in Italia è l’ulteriore sintomo. Certo c’è ancora molto da fare ma il percorso sembra tracciato, ed in una congiuntura siffatta, appare ancora più evidente che il capo del governo abbia ragione nell’insistere sulla velocità con cui si devono far partire le riforme, specie quelle della scuola, della giustizia e della pubblica amministrazione che per aspetti diversi sono fondamentali per il rilancio economico definitivo del paese.

Queste tre voci, vogliono dire nell’ordine professionalità e ricerca, contenziosi che abbiano conclusioni più rapide e meno incerte (davvero uno dei punti base, nella crisi d’investimenti in Italia), possibilità di rendere la vita burocratica delle imprese meno dura e complessa. Aggiungerei una politica infrastrutturale che è da far partire specie nel sud Italia, da sempre in sofferenza, ma anche i temi della banda larga hanno un’indubbia incidenza sullo sviluppo delle imprese. C’è quindi ancora tanto da fare.

A questa fase nuova e tanto attesa nella sua realizzazione, fa da contraltare una politica dei partiti che appare del tutto inadeguata alle necessità che questa prospettiva chiede. Ancora una volta i destini del paese sono nelle mani del PD che appare l’unica forza politica organica, pur nella sua confusione e nelle sue contraddizioni, capace di governare il momento.

La destra è in frantumi e con il nodo Berlusconi ancora irrisolto. E’ evidente che la destra ha perso il suo possibile ruolo di comprimario nella difficile fase dell’Italia di oggi e la crescita della Lega di Salvini è solo la rappresentazione delle difficoltà di quell’area politica. E’ tutto da dimostrare quanto sia credibile una Lega che da secessionista e anti Roma ladrona, diviene partito nazionalista antieuropeista alleata di Le Pen in Europa e addirittura di Casa Pound in Italia, quindi potrà ancora una volta essere solo una forza populista che cavalcherà il fisiologico ribellismo di una parte del paese.

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Una destra senza centro è un’anomalia frutto della incapacità politica e comunicativa di quel partito che aveva avuto con il “Patto del Nazareno’ una chance per uscire dalla berlusconiana visione della contrapposizione e della delegittimazione politica che aveva caratterizzato, complice la sinistra, gli inutili anni della seconda repubblica. Questa possibilità sembra ormai definitivamente persa e la destra si tormenta nelle sue faide interne senza alcun costrutto.

Ecco perché tocca ancora al PD. Ma anche qui bisogna segnalare gli incredibili contorcimenti di un partito, dove messo da parte Letta e presosi l’impegno di guidare il governo, il nuovo corso del partito di Renzi ha dovuto fare una frenata brusca sulla via della “rottamazione”, favorendo lo sviluppo delle sue attuali contraddizioni. Il fiorentino ha dovuto fare di necessità virtù, affrontando la palude delle correnti di un partito che alle elezioni del 2013 era stato costruito ad immagine e somiglianza di Bersani e pertanto riottoso a portare avanti le liberali svolte che Renzi vuole imporre da dopo il successo netto delle primarie, confermato anche dal voto europeo, che al di là di ogni ipocrisia fu un segnale decisamente politico di richiesta di svolta nel paese.

Siamo nella surreale situazione di un partito bicefalo con una guida renziana nei suoi organismi direttivi e contemporaneamente con dei gruppi parlamentari che come un corpo a se non rispondono al cervello che approva le decisioni e comanda di portarle avanti.

La realtà è che i gruppi parlamentari del PD, malgrado in buona parte si siano volenti o nolenti, adeguati al nuovo corso, per un’altra combattiva parte, restano disubbidienti, al piano di modernizzazione del paese. Si tratta di una parte che nella peggiore delle ipotesi non si rassegna ad uscire dalla scena politica e che combatte una sua egoistica guerra, per restare in sella ad un cavallo che non sa cavalcare, per un’altra parte si tratta di una sinistra PD che non ha mai avuto davvero cultura di governo, che è abituata a lunghissimi convegni e riunioni che producono poi documenti e proposte che vanno ancora discussi e approfonditi e che alla fine non si traducono in atti concreti. Si tratta di una sinistra verbosissima, inadeguata, che è si abilissima a fare opposizione, ma incapace (lo è stato anche nelle occasioni di governo che ha avuto nel ventennio della seconda repubblica), di produrre leggi e riforme capaci di incidere nel paese.

Si dirà che la sinistra sin dai tempi del PCI ha governato e bene tante realtà locali (comuni, regioni), ma non si tratta davvero della stessa cosa, che governare una nazione con leggi e scelte chiare. Un conto è amministrare, un altro è governare.

Ed ecco che mentre il paese rialza la testa, Bersani, fin qui uno dei più equilibrati nell’opposizione interna a Renzi, minaccia di far saltare il tavolo, di bloccare il processo di riforme in atto. Siamo al Bertinotti 2, la vendetta. La caduta del governo, in questa fase, è un’azione che prima che contro il nuovo corso del PD è contro il paese. Davvero è difficile capire come e perché l’opposizione interna, appena riconciliata con il partito, dalla manovra che ha portato Mattarella al Quirinale, anche con il sacrificio, non facile, di far cadere il “patto del nazareno”, sia ora di nuovo alla resa dei conti con la maggioranza democratica del proprio partito.

Renzi non deve dimenticare la sua promessa principale agli elettori del PD, quello di liberare il partito, da quel vecchiume che ancora impedisce, all’unica forza politica, davvero radicato nel territorio, di esprimere il suo rinnovamento. Un rinnovamento che non può e non deve limitarsi all’estromissione delle Bindi, D’Alema ed altri, ma che deve avviarsi con forza anche nella periferia della sua organizzazione, si vedano le vicende delle primarie, specie quelle in Campania, dove ancora sussistono sacche di potere in mano a personaggi che con il rinnovamento politico non hanno nulla a che vedere.

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Non è un caso che la minaccia paventata da Bersani & C. è quella di non votare in primis l’Italicum, un Italicum che inspiegabilmente dopo essere stato votato in prima lettura, ora per l’ex smacchiatore, non sarebbe più adatto. Dietro questa schizofrenia politica che risulta incomprensibile, come del resto la storia del Jobs act, prima votato (sia pure con qualche mal di pancia) e poi ora denigrato, c’è non l’interesse del paese ma il tentativo della minoranza di impedire alla maggioranza di portare avanti il proprio programma, insomma l’ennesima lotta interna a scapito degli italiani.

La politica è coerenza, è metodo. Renzi ha dichiarato che lui ai caminetti ed accordi sotto banco non ci sta. Si tratta di un metodo nuovo che prevede la discussione nei luoghi deputati, a volte finanche in streaming, poi si decide e si fa quanto deciso assumendosene la responsabilità.

Ed è proprio questa idea di una politica che non contesta e discute solo, ma che si assume poi le responsabilità delle proprie scelte, che ancora risulta indigeribile alla sinistra da rottamare. Perché il punto è proprio questo; non si tratta semplicemente di mandare in pensione vecchi politici, si tratta di rottamare un metodo politico, un metodo che ha favorito degenerazioni del sistema, che ha contribuito a venti anni di stagnazione nel paese e a ben tre anni e mezzo di recessione.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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