Cartoline dalla Grande Guerra. Il sogno di italianità di Giusto Bresciani.

Giusto Bresciani fu il nonno materno del nostro Claudio Antonelli. Nato a Pinguente e vissuto a Pisino (attuale Pazin in Croazia) in terra istriana, morto in Toscana nel 1918, partecipò alla prima guerra mondiale come suddito dell’Austria-Ungheria. Combatté sul fronte della Galizia contro i russi e fu fatto prigioniero. In questo periodo di commemorazioni della Grande Guerra il nostro sito con il Mensile è impegnato a fornire un contributo sul quel controverso periodo storico. Antonelli ci offre un’idea. Scriveteci, inviate lettere, cartoline dei vostri cari che vissero quella tragedia “gloriosa”.

Due cartoline postali.

Due cartoline postali spedite da Giusto Bresciani, mio nonno materno, alla famiglia, a Pisino. Scriveva a Adalgisa, la figlia maggiore (nata nel 1906) e non alla moglie, Rosa Berton. Come mai? L’ho chiesto a mia madre [Gioconda Bresciani] e la risposta è stata: semplicemente perché tua nonna non sapeva né leggere né scrivere.

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Przemysl 9 settembre 1914.

Mia cara Adalgisa! Ricevetti con piacere la tua cartolina e compresi tutto il contenuto, però ti prego di studiare giornalmente onde sii una brava fanciulla. Ti raccomando caldamente di aiutare più che ti è possibile alla mamma e di non farla arrabbiare, di non perdere rispetto a nessuno e di farti benvolere da tutti. Prega giornalmente il buon Dio onde tuo padre possa ritornare in famiglia sano e in breve. Pensa che vivo soltanto per la mia famiglia, e spero in vita di procurare tutto e di non far mancare nulla alla famiglia. Baciami la mamma, Oliviero, Margherita e Italo e 100.000 a te dal tuo papà. Scrivimi quando verrà a casa la Gioconda e quanto pesa.

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Kirsanow 2 luglio 1916.

Mia carissima Adalgisa: Quest’oggi ricevetti la tua a me tanto gradita cartolina, addì 9 Maggio, nella quale rilevo con molto piacere che la mia cara Gioconda fa buoni progressi a scuola e che l’Oliviero è divenuto buono e che tu pure ti sei alquanto migliorata, perciò ti prego di farti brava e di studiare e di imparare molto che in tal caso un giorno potrai guadagnarti il pane tanto per te che in caso di bisogno per i tuoi fratelli e genitori, che allora saranno vecchietti. Ti prego come [figlia] più vecchia di voler sempre bene a tuo fratello e alla tua sorellina e di aiutarla nello studio, di rispettare e di voler sempre bene alla mamma nonché di esserle servizievole, di farti ben volere da tutti e rispettare tutti specialmente le signorine maestre. Dalla tua rilevo che siete tutti sani, un tanto fin’oggi lo è pure di me. Concambio i saluti alla Signora de Verneda e alla Signora Morovich nonché a tutti i miei parenti e conoscenti, baciami la mamma e la mia cara Gioconda e Oliviero, speciali a te dal tuo papà Giusto.

Saluti distinti alle tue signorine maestre.

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Un mio commento su queste cartoline:

Due semplici cartoline come queste, forse, permettono di capire, più di un trattato di sociologia o di storia, la straordinaria forza dei valori familiari e un senso del dovere dai contorni addirittura sacrali che dominavano l’animo di un capofamiglia, in quell’epoca ormai così lontana. Queste cartoline contengono non notizie, ma insegnamenti morali, ammonizioni etiche. Esse sono il testamento morale di chi faceva del rispetto per gli altri un credo assoluto. Emerge dalle parole, tanto semplici da apparire patetiche, l’adesione totale ad un sistema di valori basato sul sacrificio di sé, sul rispetto altrui, sul senso etico della vita: valori con cui si affrontava un’esistenza che poteva diventare facilmente preda dell’arbitrio e della tragedia.

Oggi, forse, si sarebbe tentati di vedere nelle ammonizioni paterne di Giusto Bresciani un semplice rispetto delle convenienze, una rispettabilità piccolo-borghese, tutto sommato un po’ ipocrita, e nella sua deferenza verso le «signorine maestre» la manifestazione del conformismo dell’epoca, portato ad accettare i ruoli sociali. Si potrebbe pensare tutto questo, se non apparisse invece dalle cartoline postali, da tutto il diario che in Giusto Bresciani albergò, così come in tanta gente delle nostre terre, uno straordinario senso etico della vita. Per cui anche le sue dichiarazioni d’amore per la sua Pisino e l’Istria irredenta, contenute nel diario di prigionia, non sono frutto di ciò che per l’animo e per la sensibilità odierni può apparire retorica. Esse furono invece impegno profondo e istintivo, mantenuto, nelle situazioni più drammatiche, fino alla fine della vita.

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Giusto Bresciani e il suo sogno di italianità

Il mio nonno materno (nato a Pinguente ma residente a Pisino), Giusto Bresciani, partecipò alla prima guerra mondiale come suddito dell’Austria-Ungheria. I soldati che appartenevano alle minoranze dell’impero asburgico erano costretti ad indossare una divisa che non rispecchiava sempre i loro sentimenti che erano di attaccamento alla propria nazione e quindi spesso antiaustriaci.

Combatté sul fronte della Galizia contro i russi.
Fu fatto prigioniero dai russi, in seguito alla caduta della fortezza di Przemysl, nel marzo del 1915.

Un certo numero di quegli italiani, come Giusto Bresciani, che erano stati fatti prigionieri dai russi, dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) riuscì a rifugiarsi in Italia.

Mio nonno fu rimpatriato nel settembre del 1916. Si fermò a Marina di Massa [o forse a Cecina, la cosa non è chiara] in attesa della fine della guerra, non potendo rientrare in Istria, ancora irredenta. Vi rimase due anni. E fu lì che apprese con commozione dell’entrata delle truppe italiane a Trieste e in Istria. Morì però subito dopo, falciato dalla febbre spagnola, la grande epidemia influenzale che nel 1918 causò milioni di morti.

Sua moglie – nonna Rosa – che era stata avvertita della malattia, partì da Pisino per raggiungerlo, ma arrivò subito dopo la sua morte.

Forse non è appropriato raffrontare il diario intimo che Giusto Bresciani redasse al fronte e in prigionia [è un testo a parte], semplice e anche elementare, con altri diari – che sembra siano numerosi – di soldati trentini, anche loro sudditi austriaci, che parteciparono a quell’infausta guerra che segnò la fine del mondo come lo si era conosciuto fino allora. Ma io non posso non sottolineare la rettitudine, il sacrificio, l’attaccamento alla famiglia e soprattutto la coscienza nazionale che emergono dal diario di mio nonno. Nessuna recriminazione, nessun piangere, ma solo un profondo impegno, in momenti così drammatici, a fare il proprio dovere. E soprattutto una profonda coscienza italiana. Il patriottismo della nostra gente di frontiera trova anche in questo modesto diario la sua tranquilla, tenace, profonda espressione.

Giusto Bresciani non rivide più la sua amata Pisino. Nel diario egli aveva espresso l’ardente desiderio che la “madre Italia con il suo preziosissimo sangue vorrà redimerci e che al mio ritorno nella bella Pisino i miei occhi vedranno dispiegata al vento, sopra il castello, che da un secolo attende il tricolore nostro e così sia”. Mio nonno non poté vedere il tricolore.

Chi invece, con i propri occhi, vide realizzato il sogno della redenzione dell’Istria fu mio padre, Mario, allora bambino ma già di profondi sentimenti patriottici. Purtroppo mio padre e mia madre assisteranno, anni dopo, al naufragio nel sangue del nostro sogno di popolo di frontiera, profondamente italiano.

Anche nella vana corsa di mia nonna da Pisino a Marina di Massa per rivedere il marito, io vedo i segni precursori di un destino che doveva spezzare le nostre radici e disperderci lontani, in paesi diversi. La vedova di Giusto Bresciani morirà, anni dopo, per le complicazioni di una brutta caduta. Spirerà alla stazione ferroviaria di Pisino, durante la seconda guerra mondiale, in attesa di un treno che mai passerà per lei.

Sul castello di Pisino, oggi, sventolano altre bandiere. La bandiera che Giusto Bresciani, prigioniero dei russi, ardentemente sognò non vi è più. Io ho dovuto aspettare molti anni prima di esaminare con attenzione e trascrivere le note redatte da mio nonno sul suo taccuino. Le volte che mi ero accinto a farlo avevo dovuto smettere, per il troppo dolore.

So che la cosa può stupire chi ha l’animo lontano dalla tragedia della gente delle terre adriatiche, o anche chi in ogni caso non l’ha vissuta con la stessa intensità, mia e dei miei genitori. Noi l’abbiamo vissuta in questa maniera particolare, proprio perché siamo voluti rimanere per sempre fedeli al sogno d’italianità dei nostri avi, espresso in maniera semplice, ma forte e vera, da Giusto Bresciani nel suo quadernetto.

*

Alcune brevi note storiche:

Il compianto Enea Marin (nativo di Momiano) ha esaminato le oscure pagine di storia relative al dramma dei combattenti giuliani durante la prima guerra mondiale, tra l’altro, nell’articolo “Attilio Barzelogna e l’odissea degli irredenti prigionieri dei russi nelle guerra 1915-1918” (Strada Granda, no. 38, giugno 1991, pp. 15-23).

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Marin scrive: “L’atteggiamento dei russi verso i prigionieri era duro con gli austro-ungarici considerati i veri nemici, tollerante con slavi e italiani, guardati anche con simpatia quali potenziali alleati. Già sul finire del 1914 lo zar Nicola II offrì al re Vittorio Emanuele III la consegna dei prigionieri di guerra italiani (giuliani irredenti). L’offerta, non immediatamente accolta stante la ancora esistente ‘Triplice Alleanza’, trovò finalmente accettazione nell’estate del 1915.” Marin precisa che: “Nondimeno le sofferenze dei prigionieri furono atroci e nei trasferimenti precedenti da un campo all’altro spesso a piedi o in treni merci e negli stessi campi sopraffollati dove il tifo petecchiale mieteva vittime a dismisura.”

Questi particolari della durezza di vita dei prigionieri trovano conferma nel diario di Giusto Bresciani, per non parlare dell’aspetto psicologico dell’ansiosa attesa nei confronti di un viaggio di ritorno, differito tante volte da apparire alla fine illusorio.

Scrive Marin: “E nel frattempo anche a Kirsanoff [questa è la grafia usata in Italia] molti prigionieri erano morti, sfiniti dalle privazioni, anche se qui la situazione era migliorata, specie per gli ufficiali, ai quali veniva garantito lo stipendio in base alle convenzioni internazionali, e per i più intraprendenti tra i soldati nell’arte di arrangiarsi.” A questi soldati italiani, sepolti a Kirsanov, i commilitoni sopravvissuti eressero un’alta stele a forma di croce con la dicitura: “In memoria degli Italiani irredenti morti in attesa di rivedere la Patria libera dallo straniero la pietà dei compagni pose. Anno Domini MCMXVI.”

In questo interessante articolo di Marin si ha la conferma della data della partenza definitiva dei prigionieri, dopo tanti rinvii: “e così finalmente il 14 settembre 1916 si verificò la partenza buona di 1720 irredenti, tra cui i parentini” alla volta di Arcangelo, dove il convoglio arrivò il 20 settembre. L’imbarco avviene sul piroscafo ex austriaco “Baron Korber”.

Claudio Antonelli
Da Montreal

Segnalazione della Redazione: Rossi Marina, I prigionieri dello zar. Soldati italiani dell’esercito austro-ungarico nei lager della Russia (1914-1918), Mursia ed., Milano, 1997.

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Claudio Antonelli
Claudio Antonelli (cognome originario: Antonaz) è nato a Pisino (Istria), ha trascorso la giovinezza a Napoli, oggi vive a Montréal (Québec, Canada). Bibliotecario, docente, ricercatore, giornalista-scrittore, è in possesso di diverse lauree in Italia e in Canada. Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi, è autore di innumerevoli articoli e di diversi libri sulle comunità di espatriati, sul multiculturalismo, sul mosaico canadese, sul mito dell’America, su Elio Vittorini, sulla lingua italiana, sulla fedeltà alle origini e la realtà dei Giuliano-Dalmati in Canada, sull’identità e l’appartenenza...

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