Favignana, di Michele Tortorici. Quella terra così terra, quel mare così mare.

Luogo dei miei ricordi d’infanzia e dei miei brevi ritorni annuali, Favignana (principale isola dell’arcipelago delle Egadi, in Sicilia) appare – dicono in molti – come una farfalla posata sul mare. Ed è approssimativamente così per chi la guarda dall’aereo o ne vede la forma su una carta geografica o su una mappa in internet. Ma attenzione: questo modo di percepire l’isola è solo in apparenza attendibile, in realtà è ingannevole.

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Chi si trova effettivamente a Favignana, se vuol vedere le sue due “ali”, non deve fare altro che salire sulla cima di quello che viene enfaticamente chiamato “Monte Santa Caterina” e che in realtà è un piccolo rilievo alto poco più di trecento metri. Ebbene, una volta arrivato in cima, quando si sarà guardato attorno, vedrà sì i due lati dell’isola stesi sul mare da una parte e dall’altra del “Monte”, ma avvertirà al tempo stesso sotto i suoi piedi e in ciò che lo circonda una solidità, una forza, una consistenza dura e ruvida che non gli faranno in nessun modo associare quei due lembi di terra alla fragile leggerezza di una farfalla.

Questa immagine si potrà dunque lasciare alle illustrazioni delle riviste di viaggi, ai gadget per turisti e – perché no? – alle rappresentazioni dei pittori: mi dicono che uno abbia dipinto, per l’appunto, una Favignana-farfalla. Ma chi vuole conoscere quest’isola, quando vi si reca, deve correggere ciò che questa immagine offre alla sua fantasia con ciò che concretamente gli suggeriscono, insieme a quello della vista, i sensi del tatto e dell’olfatto.

Muretto a secco

Basta uscire dal paese, per esempio, per incontrare abbastanza presto, lungo le strade, i caratteristici muri a secco, che sull’isola delimitano i confini di tutte le proprietà, chiamate perciò “chiuse”. Sapientemente incastrate una sull’altra senza nessun legame di cemento o di calce, le pietre che compongono questi muri sono consumate, ma anche fortificate e indurite dal tempo. A toccarle si avverte subito quanto sono scabre, quanto facilmente possono graffiare se vengono sfiorate disattentamente: da bambino ero sempre ferito e incerottato, e così era anche per i miei amici perché uno dei nostri giochi preferiti era appunto quello di scavalcare i muri a secco. Queste pietre, di un’arenaria chiara e porosa che ha origine sedimentaria, sono, letteralmente, pezzi dell’isola. Vengono infatti dalle cave che si trovano nella sua “ala” sudorientale, detta la “Piana”. L’unica di queste ancora attiva, la cava Gandolfo, si può raggiungere a piedi dal paese. Le altre cave, ormai abbandonate, sono nient’altro che buche profonde sulle quali è a volte pericoloso affacciarsi; oppure, quelle più antiche, che risalgono al XVIII secolo, sono scavi anche piuttosto superficiali, fatti in certi casi lungo la costa tanto da modificare il profilo stesso dell’isola. Ciò che è rimasto di queste cave più antiche, avvallamenti piccoli e grandi, pilastri, gallerie, scivoli (necessari, questi ultimi, a caricare le pietre scavate sulle barche: la parte settecentesca della città di Trapani deve molto alla arenaria di Favignana) è stato a sua volta modellato dal vento e dal mare. Modellato, ma non levigato: le rocce, non hanno mai perso la loro ruvidezza pungente e hanno assunto forme scabre che ricordano non di rado la superficie lunare.

Percorrere a piedi la “Piana”, lungo i viottoli che l’attraversano, magari proprio a partire dalla cava Gandolfo, permette dunque sia di percepire bene la dura e irta conformazione della terra di questa parte dell’isola sia di leggere la sua storia, incisa su un così singolare supporto: un supporto certamente non effimero, ma la cui testimonianza sul divenire dell’isola si deve proprio al fatto che esso facilmente subisce l’azione erosiva.

Il Grosso. Foto Martino Motti.

L’altra “ala” dell’isola, quella nordoccidentale detta il “Bosco”, e il “Monte Santa Caterina” sono di tutt’altro tipo di pietra: un calcare duro, tenace, niente affatto poroso, anzi liscio seppure percorso da rughe, pesante, inattaccabile dall’erosione, almeno in tempi storicamente calcolabili. È per questo che i favignanesi definiscono “eterni” i muretti a secco costruiti con “le pietre del Bosco” (non ci sono cave, le pietre si raccolgono in superficie e la costruzione dei muretti serviva un tempo anche a ripulire i campi e a renderli più facilmente coltivabili): ma, naturalmente, si tratta di una definizione esagerata: quei muretti sono “eterni” rispetto alla durata di quelli costruiti con l’arenaria della “Piana”, che varia, a seconda che essi si trovino più o meno esposti al mare, dai venticinque-trenta ai cinquant’anni. In realtà, anche le “pietre del Bosco”, prima o poi, si consumeranno. Anzi, il picco del “Monte” più esposto al mare, un promontorio detto il “Grosso” costituito da enormi blocchi di pietra di questo tipo, è in parte crollato e rischia di crollare del tutto nella splendida cala sottostante: un bell’insegnamento, altro che eternità!

Sia nella “Piana”, sia nel “Bosco”, sia sulle pendici del “Monte Santa Caterina” la scarsa terra morbida che occupa incavi più o meno estesi, ma mai profondi, non favorisce l’agricoltura. Nonostante ciò, fino alla metà del secolo scorso la “Piana” ospitava vigne e orti e il “Bosco” alberi di carrubi (da cui forse il nome), campi di legumi e, persino, di cotone. Oggi nei molti terreni abbandonati riescono a crescere pochi tipi di piante e, tra queste, più di tutte le altre si fanno sentire all’olfatto il finocchio selvatico, il timo e la mentuccia.

La terra dell’isola è insomma terra nel senso pieno del termine. Nessuna leggerezza: essa è, se così si può dire, particolarmente terra, pesantemente terra, con le sue forti asprezze e con i suoi forti odori.

La punta dell'ala

Anche il mare che circonda le due “ali” dell’isola e tutto l’arcipelago delle Egadi, del quale Favignana fa parte, è particolarmente mare: è mare elevato al quadrato, con le sue liquide figurazioni e, anch’esso, con i suoi odori, non meno forti di quelli della terra. È come se la natura, in questo piccolo nido di rocce, poggiato accanto alla Sicilia come su un ramo appartato, avesse voluto dare un esempio unico e sorprendente di ciò che è capace di fare.

La straordinaria “marinità” – lasciatemi dire così – di questo mare è determinata in gran parte dalla corrente che entra nel Mediterraneo dall’Atlantico e che investe in pieno le isole Egadi prima di disperdersi in vari rami nel Tirreno. È la corrente seguita dai tonni che, da qualche millennio fino a pochi anni fa, erano oggetto di pesca, la cosiddetta “mattanza”, nel braccio di mare tra l’isola di Favignana e quella di Levanzo: una corrente ricchissima di plancton che fa sentire la propria forza soprattutto lungo alcuni tratti della costa dove in qualche caso può diventare persino pericolosa per chi nuota o fa immersioni senza essersi prima informato.

Massi in mare

Come una gigantesca macchina spazzatrice, questa corrente ripulisce i fondali e le coste e, come un fascinoso richiamo di sirena, vi attira pesci e ogni forma di vita marina. La salsedine particolarmente accentuata rende cristallina l’acqua attraversata da questa corrente come raramente si può vedere nel Mediterraneo. Dal bordo di una barca, con il mare calmo, si arrivano a vedere fondali a venti metri di profondità e oltre. Ancora di più si riesce a vedere con la maschera o con gli occhialini da nuoto. Quello che appare è un mondo bellissimo e assurdo, che sembra costruito da un architetto pazzo.

In una poesia, ho parlato di questo architetto come di un tipo

che ha fatto archi
senza utilità per nessuno, guglie
senza che ci siano sotto chiese, balconi
senza che ci siano sotto case, e case invece, o
senza tetti oppure
senza porte,strade che attraversano
senza meta prati e foreste e portano
senza volerlo a città
di scogli posati sulla sabbia: e tutto questo esteso
per continenti e mondi,
per galassie, universi e più in là
ancora. Pazzo è perché, a parte la smisurata
inutilità del lavoro che ha compiuto, in quel lavoro
credo che abbia sempre avuto in mente
l’idea di cancellare
la fine di tutto ciò che ha fine, […] .

Il faro e l'isola di Marettimo

Nuotare con calma sopra a questo mondo – anzi, sopra a questi mondi e galassie e universi – induce, in effetti, a lasciare irretire la propria mente da un’immagine di infinito mentre gli occhi, attraverso gli occhialini, constatano il finito nella continua mutevolezza delle forme: che è vita e morte. Nuotare è il modo migliore di vivere l’emozione di questo contrasto. Quasi nessuno lo fa. In decenni di lunghe – a volte lunghissime – nuotate lungo le coste dell’isola ho incontrato pochi altri nuotatori, tanto pochi da poterli contare sulle dita di una sola mano. Di solito i bagnanti preferiscono lasciarsi cullare vicino alla riva e in tanti scelgono di ostentare la velocità delle proprie barche e rinunciano così a godere lo spettacolo che si offrirebbe ai loro occhi se, con la necessaria lentezza, volessero e sapessero vederlo.

Una terra particolarmente terra e un mare particolarmente mare si mischiano per opera del vento che raramente cessa di soffiare, da un quadrante o dall’altro, sull’isola. Non è solo l’acqua o il polverio che si solleva dalle onde, a invadere la terra e a far sentire il salmastro fin nel centro dell’isola e fino sul “Monte Santa Caterina”. Il vento, anche leggero, mischia soprattutto gli odori. Il polverio delle onde porta con sé residui di alghe; e comunque l’odore delle alghe, che per i giochi dell’aria e dell’acqua si ammucchiano in piccole cale e lì a poco a poco marciscono, si sente anche in lontananza: la terra, quella terra così terra, in certi momenti, odora di mare. Le erbe aromatiche, che spesso – in particolare il timo – crescono anche a pochi metri dalla riva, spandono a loro volta il profumo così terrestre che hanno fino a grande distanza: e il mare, quel mare così mare, odora di terra.

Gigli di sabbia

Nelle poche e quasi tutte piccole cale di sabbia chiara, a pochi metri da dove il mare acquista, in virtù di quel fondale chiaro, la luminosità e la trasparenza di una immensa pietra preziosa, i gigli di sabbia, quei gigli bianchissimi ma umili che non osano innalzarsi come quelli più famosi e ben più alti detti “di sant’Antonio” o “della Madonna”, quei gigli modesti che si piegano docili al vento e si accompagnano senza nessuna vanità con i residui di alghe o di conchiglie, quei gigli, al principio e alla fine di ogni giorno della bella stagione, offrono il loro profumo al mare e ne ricevono in contraccambio un sentore di salsedine appena venato di marcio. E in quei momenti si celebra lo sposalizio che è, esso sì, l’evento fondante di quest’isola.

La vita della quale è dunque una indefinita, inarrestabile contraddizione, è una rappresentazione così circostanziata del divenire che ciascuno di noi vi si può riflettere come in uno specchio e, in quel riflettersi, riesce a perdere, se lo vuole, ogni paura del tempo.

Michele Tortorici

*****

Per saperne di più sull’autore:

Michele Tortorici, originario di Favignana (l’isola più grande dell’arcipelago delle Egadi all’ovest della Sicilia), vive a Velletri, vicino Roma. Uomo di scuola, studioso di storia della letteratura italiana, è poeta e saggista (Cavalcanti, Dante, Petrarca, Leopardi).

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Dopo la sua prima raccolta di poesia, La mente irretita (Manni, 2008), pubblicata in Francia con il titolo La Pensée prise au piège (Vagabonde, 2010), tradotta da Danièle Robert e con testo a fronte, ha pubblicato altri libri di poesia : I segnalibri di Berlino (Campanotto, 2009), Versi inutili e altre inutilità (Edicit, 2010), Viaggio all’osteria della terra (Manni, 2012).

Nel 2013 ha fatto il suo esordio in narrativa con il romanzo breve Due perfetti sconosciuti, in francese Deux parfaits inconnus, tradotto da Danièle Robert (Chemin de ronde, 2014). Nel 2016, ha pubblicato La musica delle parole. Come leggere il testo poetico e altri saggi (Editoriale Anicia).

LINK:

Michele Tortorici, un amour partagé

Pubblicazione del 30 settembre 2014 che riproponiamo alla vostra attenzione durante questo periodo estivo.

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Michele Tortorici
Michele Tortorici, originario di Favignana (l’isola più grande dell’arcipelago delle Egadi all’ovest della Sicilia), vive a Velletri, vicino Roma. Uomo di scuola, studioso di storia della letteratura italiana, è poeta e saggista (Cavalcanti, Dante, Petrarca, Leopardi). Dopo la sua prima raccolta di poesia, 'La mente irretita' (Manni, 2008), pubblicata in Francia con il titolo 'La Pensée prise au piège' (Vagabonde, 2010), tradotta da Danièle Robert e con testo a fronte, ha pubblicato altri libri di poesia :' I segnalibri di Berlino' (Campanotto, 2009), 'Versi inutili e altre inutilità' (Edicit, 2010), 'Viaggio all’osteria della terra' (Manni, 2012). Nel 2013 ha fatto il suo esordio in narrativa con il romanzo breve 'Due perfetti sconosciuti', in francese 'Deux parfaits inconnus', tradotto da Danièle Robert (Chemin de ronde, 2014). Nel 2016, ha pubblicato 'La musica delle parole. Come leggere il testo poetico e altri saggi' (Editoriale Anicia). E altri ancora: https://www.ibs.it/libri/autori/michele-tortorici

1 COMMENTAIRE

  1. Favignana, di Michele Tortorici. Quella terra così terra, quel mare così mare.
    merci à l’auteur. je suis passée par favignana et je n’avais plus envie de repartir : il n’y avait rien d’autre que l’horizon, rien pour buter la vue, cette luminosité. Toute petite île d’une grande île, et pourtant on est plus rien du tout quand on s’y trouve parce qu’on sent les « éléments » : mer, vent, soleil, » Même la traversée courte de trapani à favignana est mouvementée. Comme française, habituée à trouver toujours quelque part un petit cours d’eau,un ruisseau, à favignana, rien. Ca force l’humilité, à conseiller peut-être pour soigner un ego enflé. Alentour l’île et vers l’île de marettimo, alors oui, la mer est cristalline, magnifique, offerte.

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