Il camminare lento, profondo – Il deep walking

La freccia sul sentiero dice: “2 ore al rifugio”, “Allora ce ne metterò 3” scatta la vocina fra lo stomaco e il cuore.

Sono lenta, lo sono sempre stata; nella vita di tutti i giorni corro veloce, sui sentieri no. Ora saranno anche gli anni o forse il sovrappeso, oppure le sigarette ma, più di tutto, è quella vocina che mi fa camminare lentamente e quasi sempre da sola o con l’amico giusto; quello a cui piace camminare in silenzio, che non pretende da me prestazioni atletiche in gare con se stessi o con un fantomatico “tempo giusto” per arrivare, quello che gioisce nella pioggia e nel sole… insomma: “ Il perfetto compagno di cammino”.

E il passo segue il passo, il cuore pulsa forte, il respiro gli fa eco, l’anima si distende, il pensiero tace e… io sono.

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Sono come e con tutto quello che mi circonda, sono senza domandarmi perché o chi sono, sono anche quel dolore irrisolto che sbuca all’improvviso, quella gioia senza ragione che fa vibrare tutte le cellule. E apro le braccia a contenere e le cinghie dello zaino resistono a questo mio bisogno di allargarmi, mi tengono ancorata alla terra come quei fiorellini nati lungo il fosso, leggeri come farfalle, che non possono volare perché le radici non lo permettono e allora sorridono al sole rimanendo lì; dove devono essere.

Io passo, essere per me è passare loro accanto e, in quell’attimo, essere con loro, loro compagna di viaggio.

Un verso Sufi dice: “La vita è un ponte, percorrilo ma non costruirci una casa sopra.”

Forse sta tutto qui il bisogno, la chiamata, che sempre più persone sentono di peregrinare. La loro vocina sa che non sono “Le case costruite sul ponte” che rendono felici, sempre quella vocina sussurra che siamo figli dell’Eternità che hanno perso la bussola e cercano una via per esserlo nuovamente.

E allora non sarà il Gps di ultima generazione che cambierà chi lo tiene in mano perché anche quando saprò quanta salita devo fare, dove sono rispetto alla Terra, quanti chilometri ancora mi restano alla meta del giorno io dovrò sempre salire la montagna, percorrere quei chilometri, fare i conti con quell’ammasso di cellule e sentimenti che chiamo me stessa e se non l’avrò visto, se quel fiorellino da nulla mi avrà cantato la sua canzone e io non l’avrò ascoltata a che cosa sarà valso camminare?

San Francesco parlava agli uccelli, ai fiori… io credo che li ascoltasse e proprio perché li ascoltava loro ascoltavano lui.
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L’uomo si inventa ogni sorta di via per assaporare l’Eternità. C’è chi si chiude in un convento, chi scala l’Everest, chi porta se stesso ai limiti estremi, tutto per quell’attimo, per esserci tutto intero: anima, corpo, sentimenti, ragione; tutto fuso con tutto senza più limiti ne barriere, lì, nel luogo giusto, nell’ora giusta, nell’Ora… poi lo chiamiamo Dio e così facendo ce ne separiamo perché per definirlo dobbiamo indietreggiare, distaccarcene e ripiombare più o meno miseramente nella fatica dell’ “andare verso” quando è qui, in quel passo unico e perfetto che ci ha radicati nell’esistenza.

“… il pellegrino deve avere una meta” mi obiettava qualcuno un giorno… e quel “Deve” è così pesante! “Certo… una meta”.

“Chi crede deve credere in Dio, anzi in un Dio preciso… non facciamo confusioni!”, “Sì, certo… e poi?” Poi ci si deve abbandonare e il “Deve” diviene leggero anzi, scompare, assieme alla via qualunque essa sia stata perché era solo un mezzo, scompare anche Dio; la Sua definizione.

“Ama e fai quello che vuoi” diceva Sant’Agostino.

Ma cosa è amare se non esserci, essere presente, esserci senza limiti?

E allora camminare è una via per tornare a Casa, nello spazio e nel tempo dell’Ora crocifissa dall’Eternità che nessun Gps, nessuna Teologia mi darà se non sarò lì a vibrare nel vento che carezza il mio corpo e scuote quel fiorellino da nulla che ho appena passato e che sorride ancora alle mie spalle.

Angela M. Seracchioli

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