Davide Monda poeta

In Missione Poesia, Davide Monda. La sua ultima raccolta poetica: “Actus Tragicus. Complessi affetti e misere tregende” (Paolo Emilio Persiani Editore, 2014). Una spiritualità di sguardo che accompagna il percorso dell’uomo fatto di amore e vita, ma anche di morte, vista come un ultimo viaggio, come un passaggio cantabile.

Davide Monda ricerca e insegna da oltre vent’anni nell’Ateneo petroniano. Sempre a Bologna, è professore di Filosofia, Storia e Cittadinanza europea – nonché vicepreside – presso il Liceo classico “Alessandro Manzoni”, bibliotecario del Collegio dei Fiamminghi “Jean Jacobs” e della Fondazione “Elide Malavasi”; è inoltre editor – per i classici – di Rusconi e Barbèra, e dirige collane perlopiù filologiche presso altre case editrici. Insieme con Roberto Roversi, ha fondato – dieci anni or sono – la rivista “Bibliomanie. Ricerca umanistica e orientamento bibliografico” (www.bibliomanie.it). Giurista, francesista e comparatista, è autore di volumi e saggi sulla civiltà letteraria d’Europa dal Rinascimento al Novecento, e ha curato scientificamente diversi classici. Modesto emblema del suo travaglio poetico, tanto copioso quanto (deliberatamente) occultato, è La spina dentro l’anima (Cesena, 2008).

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Conosco Davide Monda personalmente solo da qualche tempo, se pure la sua fama mi aveva raggiunto più volte. Vive a Bologna che, si sa, in fondo non è una grande città. Chi fa cultura, chi fa poesia prima o poi si imbatte nei suoi “simili” e si finisce per conoscersi più o meno bene tutti quanti. La prima volta che l’ho visto e l’ho sentito parlare, presso il Liceo Manzoni – Fondazione Malavasi – dove insegna, è stato in occasione di un convegno che avevo organizzato per il centenario della nascita del poeta Giorgio Caproni (1912- 2012). Subito sono rimasta incantata naturalmente dalla conoscenza enciclopedica di Monda: citare Dante, Baudelaire, Simone Weill, Pascal, Ficino, Manzoni (e potrei continuare) non è cosa usuale. La grazia con cui si propone, le maniere cavalleresche, gli sguardi…. un uomo d’altri tempi pensai, un professore di quelli che ce ne sono pochi ormai. Ma non è tutto. Ultimamente mi ha voluta vicino per la presentazione del suo ultimo libro di poesia ed ho avuto modo di conoscere anche la sua poesia, di leggerla e studiarla e, naturalmente di proporvela nella mia interpretazione.

Sperando possa piacervi ecco dunque: Actus tragicus. Complessi affetti e misere tregende, di Davide Monda (Paolo Emilio Persiani Editore, 2014).

[**Actus Tragicus.

Complessi affetti e misere tregende
*]

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Riprendendo le indicazioni di Roberto Roversi nell’annotazione, giustamente inserita ad apertura del lavoro di Monda, ovvero che quando mille richiami crudeli o silenzi di pietra si fanno libro verrebbe da sistemare, sotto la propria attenzione, quel libro stesso come fosse una foresta di mille alberi che cattura l’immaginazione per non farsi distrarre dall’immersione in questa conoscenza neanche dal sonno, (riprendendo questo, quindi) possiamo già farci un’idea di quanto l’opera dell’autore sia intrisa di saperi, conoscenze, studi, ricerche… tanto da far immergere il lettore, volenteroso e non approssimativo, disposto a non farsi distrarre, in un mondo fatto di richiami, reminiscenze, pensieri, e qualche volta di fiabe colte, – ma l’elenco sui generis potrebbe continuare ancora molto – incatenati tra di loro in continui rimandi che a loro volta si incatenano ad altri col pericolo di perdersi per poi ritrovarsi, tuttavia, saldamente ancorati al concetto iniziale così bene esplicitato e argomentato.

Ecco, la poesia di Monda è un complesso articolo di non semplice acquisto, una merce rara e preziosa che non si vende al miglior offerente, che non si acquista con un mercenariato di transumanze critiche. Ci vuole studio e impegno, dedizione e profonda empatia per capirla e coglierne le sfumature più nascoste, eppure così evidenti al lettore-acquirente di poesia che sia desideroso di capire, al cliente che sappia intuire l’affare…

Non me ne voglia l’autore se le mie metafore critiche accoppiano i suoi testi ad una merce, la lettura del suo libro ad una compravendita perché qui non si tratta di beni di largo consumo né di accessori superflui il cui possesso può dare felicità agli stolti: qui è in gioco l’inquietudine, la lacerazione del proprio sentire, la consapevolezza della dimensione complessa della vita e della morte, riletta con gli occhi della sapienza e soprattutto della poesia. Chi fiuterà il business e saprà sacrificare un po’ del tempo prezioso che ci spetta – quello sì merce ancora più rara – sarà ripagato con la soddisfazione di una ricchezza non materiale ma spirituale, non effimera ma duratura perché ne verrà arricchito nel profondo del suo essere.

Il pensiero di Monda, sempre per dirla con Roversi, non è un pensiero supponente ma, aggiungo io, non è neanche falsamente modesto: l’autore sa bene qual è il proprio messaggio, il proprio compito, il peso delle sue parole nel cuore del mondo. L’autore sa che il suo pensiero va controcorrente, ha un sapore antico e ascetico, un sapore di classicismo troppo spesso e volutamente abbandonato, ma di cui egli stesso in prima persona, si fa portavoce, si fa promotore, si fa appassionata nota di richiamo perché non se ne perda il senso e l’intensità, il flusso di relazione con il nostro passato, le nostre origini, il nostro stesso essere così stratificati da secoli di pensieri, spesso corrotti da false innovazioni. Tutto fu detto e fu scritto nei classici, e ben vengano le rivoluzioni di pensiero e linguistiche solo se non si arrogano il diritto di cancellare ciò che non può essere cancellato, solo se non si mettono in testa di farci perdere di vista o smantellare le basi della nostra impalcatura, se non si preoccupano di farci ammalare di modernità frettolosa e vuota. Con Monda, e con tutti coloro che si occupano in modo sano di poesia, cerchiamo di capire se la poesia può salvare il mondo, può darci gli strumenti per non affondare nell’oceano del nulla, nel vuoto della mente che annebbia i sensi. Più specificatamente qual è allora il messaggio dell’autore in questo libro così denso, così “sodo” come lo definisce Roversi stesso? E quale forma ha utilizzato per darci questo messaggio?

A mio avviso il libro potrebbe considerarsi costruito meticolosamente come un palazzo suddiviso, sia formalmente che per contenuti, in piani e stanze dove in ogni ambiente troviamo uno schema metrico ben preciso, e dove in ogni ambiente avviene qualcosa. Non so dire se Monda abbia – tra le tante – anche la vocazione dell’ingegnere edile, o più semplicemente la manualità del disegnatore. Ma forse il suo progetto è frutto di una premeditata costruzione il cui impianto fa venire in mente un romanzo di George Perec, forse il più famoso di questo autore: “La vita, istruzioni per l’uso”. Chiaramente trattandosi di un romanzo come dicevo, che segue regole diverse dalla poesia, potrebbe sembrare un accostamento almeno inusuale quello che propongo ma, spesso, le scritture si intersecano e per strane alchimie si ritrovano, più o meno casualmente o intenzionalmente, combinazioni che fanno riflettere.

 Un disegno di Saul Steinberg che pare abbia ispirato Perec

Cosa vuol raccontare Perec in questo romanzo costruito come un palazzo, dunque? Dedicato alla memoria di Queneau e definito da Calvino un “iperromanzo” (ovvero un romanzo con caratteristiche superiori alla norma) la storia narra la vita dei diversi abitanti di un immobile parigino: un caseggiato composto da dieci stanze per piano poste su dieci piani a formare un « biquadrato » di cento elementi che lo stesso Perec così descrive: «Immagino uno stabile parigino cui sia stata tolta la facciata… in modo che, dal pianterreno alle soffitte, tutte le stanze che si trovano sulla parte anteriore dell’edificio siano immediatamente e simultaneamente visibili».

Il racconto procede, tra le stanze del caseggiato, seguendo lo schema ad « L » del movimento del cavallo nel gioco degli scacchi e tocca così tutte le stanze, tranne una: i capitoli del libro sono infatti novantanove, non cento. In ottemperanza agli obiettivi dell’OuLiPo, Perec crea nel libro – tra le altre cose – un complesso sistema (al quale si riferisce come « macchina per ispirare racconti ») che genera, a partire da ciascun capitolo, una lista di elementi – oggetti o riferimenti – che il capitolo dovrebbe poi contenere o ai quali dovrebbe alludere. Nel libro compaiono 42 liste di 10 oggetti ciascuna, riunite in 10 gruppi di 4 elementi e due gruppi contenenti liste di « coppie ». Protagonista della storia principale del libro (ma, come detto, molte altre si intrecciano a questa) è il miliardario Bartlebooth (il cui nome sintetizza quelli di altri due personaggi letterari: Barnabooth il miliardario di Valery Larbaud, e Bartleby lo scrivano di Herman Melville) il quale sceglie «di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo […], di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile. […] di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé»; inizia così, all’età di vent’anni, a compiere il suo progetto: per dieci anni, pur non essendone interessato, impara l’arte dell’acquerello dal pittore Valène, poi, per vent’anni, viaggia per il mondo dipingendo su fogli di carta Whatman, ogni quindici giorni circa, una «marina» e spedendo poi il quadro ad un artigiano specializzato, Winckler, il quale, dopo aver incollato l’acquerello su di una tavola di legno, costruisce un puzzle di 750 pezzi; infine, nei vent’anni successivi e dopo essere tornato in Francia, Bartlebooth ricompone, di nuovo uno ogni quindici giorni e nell’ordine nel quale sono stati creati, i puzzle di legno: i quadri, staccati dal loro supporto e ricomposti come fossero i dipinti originari grazie ad una sostanza speciale, sono rispediti nei luoghi nei quali erano stati dipinti e quindi immersi «in una soluzione solvente da cui non sarebbe riemerso che un foglio di carta Whatman, vergine e intatto. Così, non sarebbe rimasta traccia alcuna di quella operazione che, per cinquant’anni, aveva completamente mobilitato il suo autore.» Bartlebooth non riuscirà però a compiere per intero la sua impresa; al momento della morte rimane infatti un solo pezzo per completare il 439-esimo puzzle: ma mentre il pezzo mancante ha la forma di una « X », quello rimasto nelle mani di Bartlebooth ha la forma di una « W ».

Qual è il senso di tutto questo. Forse, come a voler dire che, comunque, di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo alla fine, un po’ tutti i tentativi di incasellare, predisporre, progettare non funzionano alla perfezione; non tutto può essere deciso e pianificato ma c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo e questo qualcosa probabilmente è la vita stessa, il suo significato, che per Monda si risolverà poi in una maniera tutta spirituale. Vedremo come.

Ma intanto notiamo come il libro di Monda sia appunto costruito in questa forma preordinata molto rigorosa: 66 annotazioni o massime iniziali che sono la via d’ingresso e le istruzioni se vogliamo per affrontare il percorso della sua poesia, dove in particolare l’ultima massima certifica quasi l’importanza della poesia ritenuta vera Conoscenza; 66 aforismi finali che sono la via d’uscita, alcuni sotto la forma di una sorta di biografia aforistica e altri invece che conclamano l’andamento del mondo che va come in fondo è sempre andato. Ma, anche qui, al numero 66, all’ultimo aforisma, troviamo un’indicazione ben precisa in chiusura quasi del libro stesso, un’indicazione che sottolinea l’importanza dello stile per Monda, uno stile che non è evidentemente solo formale ma anche poetico e etico. Al centro del libro naturalmente la vera conoscenza, ovvero la poesia. 6 Partiture (non dimentichiamo che Actus Tragicus è anche il titolo della Cantata 106 di Bach, quindi è più che lecito parlare di partiture) le cui tematiche si muovono tra amore e morte (ma delle tematiche parleremo dopo) ogni partitura composta da 11 componimenti che moltiplicato 6 fa ancora 66… Qual è il significato di questo numero che torna così insistentemente nell’opera di Monda? Tra le tante definizioni, i tanti significati che si riferiscono a questo numero, questa, di Sant’Agostino d’Ipponia, presa da La città di Dio, mi è sembrata la più completa:

“Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni, piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto, e rimarrebbe perfetto anche se l’opera dei sei giorni non fosse esistita.” Ora, però è anche vero che a questo numero sono attribuite proprietà di perfezione ed equilibrio, di armonia e indicazioni per raggiungere la meta, indicazioni del tutto considerevoli ed evidenti anche del lavoro di Monda che scava per cercare di porgerle queste soluzioni, per cercare di trovarli questi equilibri…

Ma concludiamo il nostro discorso inerente alla forma: in ogni partitura gli 11 componimenti sembrano avere un loro progetto ancora più specifico dove i sonetti si alternano agli acrostici, gli endecasillabi compaiono inquietanti come lame sulla testa a ricordare l’importanza dello stile come si diceva, della misura, dell’etica formale rigorosa e utile per gettare le fondamenta del nostro palazzo fatto di poesia: dove l’ultimo tassello che resta in mano e che non va ad incastrarsi perfettamente nel puzzle – ripercorrendo quanto detto per il romanzo di Perec – è proprio questo, quello di un io poetico che non vuole arrendersi all’asprezza e alla sterilità del mondo e che a volte si trova solo a combattere per una vena che non intende inaridirsi, che resiste nonostante tutto.

Sui contenuti – già comunque accennati, nei passaggi precedenti – è vero che c’è nella poetica di Monda questa ricerca di equilibrio tra amore e morte ma è anche vero che molti testi riflettono lo stato puro della morte, uno stato che diventa passaggio ad una nuova dimensione della vita accompagnato dallo sguardo del poeta che riflette sull’importanza di questo passaggio, come sull’importanza di un divenire iniziatico – non a caso alcuni testi sono raccontati a mo’ di fiaba, da sempre considerata il genere che tratta del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, del processo iniziatico del bambino che diventa uomo al liminare dell’aldilà, in quello spazio sospeso proprio tra la vita e la morte -.

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In questo senso mi viene da paragonare quasi la poetica di questo libro di Monda a quella dello svedese Tomas Transtromer – Premio Nobel 2011 – che nel libro “La lugubre gondola”, tradotto in Italia nel 1996 e riedito da Rizzoli proprio dopo l’attribuzione del Nobel – titolo ispirato anch’esso ad un componimento omonimo di un altro grande musicista Franz Listz, nato dalla suggestione di un trasporto funerario sul mare di Venezia – parla proprio della morte in questi termini. Al poeta Transtromer, nello scenario quasi irreale che offre Venezia, città sull’acqua, viene facile il paragone con la precarietà della vita: un pensiero di sprofondamento della città diviene l’annegamento anche della vita nelle acque della laguna. Il mare, come la morte, divengono elementi pronti a sommergere, a travolgere, a far sprofondare nell’abisso l’umanità tutta e sembra quasi che, al contempo, lo stesso luogo induca a raccontare come l’uomo tenti invano di nascondersi dietro le maschere della propria identità… non a caso ci sono senz’altro riferimenti al Carnevale, che a Venezia trova una collocazione di primo piano tra gli eventi della città. Ecco allora che il viaggio su questa gondola dai caratteri lugubri appare anche avvolto in una dimensione di fuga, forse unica via d’uscita per ritrovare un senso alla vita: parrebbe un messaggio politico, nel senso ampio della parola, un messaggio dove – oltre ad indicazioni a fatti o accadimenti di attualità – ritorna forte la denuncia verso una società che ha privato l’uomo di naturalezza, una società che ha basato tutte le sue strutture in funzione del potere, in direzione molto spesso solo di un ipotetico futuro che mai sarà raggiunto… ma noi lettori, se insieme al poeta ci adagiamo sulla lugubre gondola, sentiamo la possibilità di scivolare sulle acque incontro al mistero, con la sensazione quasi di afferrarlo. E’ la magia della dimensione poetica che nell’arte del rovesciamento di prospettiva porta l’uomo a immergersi anche nel dubbio, nella possibilità di vivere un’esperienza che non sia solo tangibile in risultati concreti, ma faccia immergere il pensiero in qualcosa di religiosamente profondo.

Ed allo stesso modo la poetica di Monda porta alle stesse riflessioni: una religiosità, direi di più una spiritualità di sguardo che accompagna il percorso dell’uomo fatto di amore e vita, ma anche di morte, vista come un ultimo viaggio, come un passaggio cantabile – come la Cantata di Bach composta proprio per un funerale – un lavoro che si sublima nella sua parte finale dove attraverso una rivisitazione del Cantico dei Cantici l’amore degli sposi si sublime appunto nell’amore per Dio e viceversa quello per Dio negli uomini.

Alla fine sono in pieno accordo con quanto detto da Cinti: Un libro questo che è un esercizio spirituale per raggiungere l’amore vero, per riuscire a trovare un senso a tutto il nostro andare.

Vediamo qualche lirica dal libro:

Incipit Tormentoso e Tormentato

(sopra una tessitura fatta altrove)

Ho già discorso a lungo – e forse male –

di un satanico stile che mordicchia,

adagio, le più sapide espressioni

d’oggi, spalmando gomme letterarie.

Ora importa – piacendo all’Architetto –

riscrivere i diagrammi in altri modi:

ogni stramaledetto giorno qua

denuncia con ragione qualche falso.

Chiaro parlare occorre, e disseccato,

rigido come quel Pastore attento

che tentò di affossare il verbo infranto,

sorgente di marciume e spreco lurido.

Quanti cialtroni popolano il mondo!

Come non so, ma lapidano tutto

e disgustosi rendono i vagiti

pure del più bel bimbo nato ieri.

Per chi è sgorgato amaro e spicca nobile,

nel sangue, nel cervello e forse in cuore,

quantunque abbia negletto molte piaghe

di porci surgelati che gemevano,

imperano gli officia del poetare.

*****

Sperando che i germogli ti sorridano

(Per il dono di un saggio sopra il metodo)

Girovagando in luoghi di mercato,

Invasi da ciarpame e narcisismi,

Ove il commercio sferza e sfregia il viso

Vero del ricercare che non chiede,

Accade a volte d’incontrare carte

Non decisive, forse, ma d’ausilio,

Nella sostanza, ai fertili progetti

Immaginati da chi ci vuol bene.

Mèmore di lavori appassionati,

Oggi ti dono questo libricino,

Notato ed apprezzato da valenti,

Degno della lettura, o dello studio,

Attesi da chi sta cercando un’opera.

*****

Qui due per due fa due per chi non crede

(al grande Architetto)

Ma è poesia questa buffa malattia,

che strappa il fiato e fa vedere gli occhi?

dirige i giorni storpi e riconforta.

È in versi questo amore che ci avvolge?

Batte un cuore ed insegna il contrappunto

che avvince e che governa l’universo.

Noi due, sempre noi due, sempre tu e io.

E se è amore, che prodighi poesia:

unici fa accordando ampi progetti.

Poesia o non poesia, scandisce il tempo.

Felice l’espressione più comune,

le lacrime sui visi che non muoiono.

E ogni giorno, ogni istante, ogni disastro

sempre poi ti trascina a quel motivo

che intona approssimando i nostri suoni.

Mai amore sarà tutto in poesia.

Sempre allora noi due, sempre tu e io?

Risponderanno i modi e le stagioni.

*****

Giorgio Caproni, Mentore di sasso

Vorrei pensare a vita trasparente,

che pulsi di mistero e di teorema,

che instilli pura linfa a poco a poco

che doni grazia ai nobili momenti,

che sfidi il mezzogiorno e mai non ceda

al fetido ciarlare, e mai non muoia.

Ma i fiumi ora devastano e tracimano

con vomiti di sangue irreversibili,

e tutto è a pezzi e tutto va in rovina.

Per giorni osceni molto più d’incesti,

non cantano più voci né silenzi,

sprofondano gli schemi pertinaci.

Essenza ed esistenza qui permangono

capitoletti stanche di libroni,

e il mondo alla rovescia si fa legge.

*****

Sulla bellezza tremula di un corpo

Ben visto il tracollare di ogni carne,

Ermetica, dirai, ma irreversibile,

Nulla più resta qui se non sperare

Eventi e mondi nuovi per lo spirito.

Dinanzi a rughe, piaghe e acri dolori,

Eterne, atre presenze della vita,

Tiriamo somme tristi, che non danno

Testimonianza alcuna – anzi condannano

A morte la diletta libertà.

Bel tempo dell’Immenso fra le cose,

In questo guazzabuglio detto mondo,

Sente e trasfonde il male radicale,

Traiamone così qualche lezione

Tramandata nei tempi da sapienze,

Intente – sempre – a farne orma di Dio.

Cinzia Demi

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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