Vera sinistra/Falsa sinistra: La linea d’ombra.

Aprile era ieri – ma ora è maggio. Ad aprile sono stato a Genova, dove son nato. Genova dove non vivo (mia città intera. Geranio. Polveriera). Mi sembrava tanto grande, questa città, quando ero bambino – e ancora me lo sembra. Genova è grigia e celeste (Ragazze. Bottiglie. Ceste), e in quei giorni attorno al venticinque aprile (Genova sempre umana, presente, partigiana), quando c’ero anch’io, era tutta accecata di sole. Una città allucinata, di luce e di ombre, di blu e di verde. (Gassman, da capitano cieco nel film Profumo di donna, lo diceva di Napoli: “la più nordica tra le città africane”. Ma secondo me si sbagliava; è Genova, per oggettiva latitudine, la più a nord fra le città del Maghreb).

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Lì, nel sole, mi è piaciuto girare a vuoto, senza meta, perché meta non c’è e meta non ho. A Pegli, nel quartiere che vide Freud in vacanza, ho visto la mia più cara amica di quando ero ragazzo – venticinque anni da narrare l’uno all’altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi; lei bella come allora, ed io, non più quell’io che sono stato (ma nessuno è chi fu). E proprio vicino a dove ci siamo ri-visti, c’è un luogo, a cui sono legato, e dove non sono andato. Villa Durazzo Pallavicini, con il ricordo foscoliano della contessa Luigia caduta da cavallo, e nella villa un parco bellissimo (a lungo lasciato all’abbandono, con genovese incuria, con genovese diffidenza verso la bellezza, e poi riaperto). Costruito su un impianto scenico, come un’opera in tre atti, intensamente ottocentesco e malinconico. Un luogo perfetto per portare un delizioso paio di leggerissimi guanti bianchi, e per tante cose. (Ma non c’è stato tempo, e modo, di andarci: e sarà, adesso, in un futuro aprile).

Poi sono spuntato in libertà, come Georges Brassens, nei giardini mal frequentati, sopra Piazza Corvetto, Genova di Villetta Dinegro: “quando uno va a Genova è ogni volta come se fosse riuscito a evadere da sé”, diceva Nietzsche, che negli anni Ottanta di due secoli fa ci andava a mangiare gli spaghetti al pomodoro e al basilico, nella villa ombrosa, dopo averli preparati nella casa all’ultimo piano di Salita delle Battistine. Io non avevo spaghetti, ma un libro, con me; ed era il libro ad avere un appuntamento con qualcuno, non io.

E poi a Boccadasse dove abita Livia, la fidanzata del Montalbano di Camilleri, e da lì sulla passeggiata a mare di Corso Italia, dove i genovesi passano le ore lunghe dei pomeriggi di festa. Lì ho incontrato un mio amico, che non vedevo da un bel po’ – un amico che si interessa alle cose della politica, militante dei sindacati alternativi. Gli ho chiesto (ma già conoscevo la risposta) se per caso alle elezioni europee avesse anche lui intenzione di votare, come tanti, per il Movimento Cinque Stelle. All’insegna del “tutti a casa!”. Mi ha detto di no. Mi sono sentito rincuorato. “Continuo a far parte della sinistra italiana”, mi ha spiegato, a voler mettere in chiaro quel che pensa dei grillini. Secondo sospiro di sollievo (per me). Ma poi ha aggiunto sferzante (a voler mettere in chiaro, stavolta, quel che pensa di me): “Quindi non del PD”.

Andando per esclusione (sono estremamente perspicace, grazie) ho tirato le mie conclusioni: “Lista Tsipras, allora”. Cenno di assenso. Mi ha guardato con un’espressione che diceva: del resto, what else? C’era un gran sole. Dalla passeggiata si vedeva il tremolar della marina. Coppie a passeggio, ciascuno annoiato dalla semplice esistenza dell’altro (eppure, un tempo anche quello è stato amore, e lunghe ore al telefono, e tutto il resto, no?). Ragazzaglia in libera uscita. E sulla passeggiata, il sole che traccia la linea d’ombra: o di qua o di là. (Destra o sinistra. Uomo o donna. Io e te. Vero o falso. Libertà o giustizia? A dire il vero, noi speravamo in entrambe, ecco). Per i grillini, la linea d’ombra non separa più destra o sinistra (distinzione che alle loro orecchie suona anacronistica e comunque complicata); no.

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Essa – lo sappiamo – separa i giusti (buoni, splendidi, liberi, onesti), dagli ingiusti (stronzi, cattivi). Separa un popolo buono, con gli occhioni alla Bambi, dalla Casta cattivissima. Come distinzione, lo riconosco, non è granché, ma non è colpa mia. Questo per i grillini. Per il mio amico militante, invece, la linea d’ombra separa la “vera” sinistra da quella falsa. Stavo per chiedergli cosa pensasse di Renzi, delle sue mosse da Primo Ministro. Ma ho lasciato perdere. E ho fatto bene (spago sulla mia valigia, non ce n’era). Perché la risposta la conoscevo già (li conosco a memoria, tutti i libri di Omero).

E io stesso so recitarla, l’eterna litanìa: gli 80 euro (o quel che sono) per chi non guadagna molto sono un miserabile “bonus di scambio”, le riforme istituzionali (giuste o sbagliate, buone o cattive che siano, poco importa) sempre e comunque il segno di una “deriva autoritaria”, un “nuovo fascismo”; ogni idea di riformare il settore pubblico (che tanto bene non funziona) cela la volontà di “attaccarlo”, di “smantellarlo”; ogni riforma del mercato del lavoro è chiaramente volta a distruggere le conquiste dei lavoratori, ogni tentativo di farsi un’idea di come funziona la scuola (e magari di premiare gli insegnanti in gamba e un po’ meno quelli che lo sono un po’ meno) è “assoggettare la scuola a una logica aziendalista”, ogni progetto di infrastrutture nuove è continuare la “devastazione del territorio” e ovviamente copre interessi illeciti, e bla bla bla. La conosco a memoria, la litanìa, almeno quanto quella di Caproni su Genova (Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria) che qui, in queste mie righe, ho saccheggiato e sparso qua e là.

Ed è per questo che non ho chiesto al mio amico cosa pensasse di Renzi. E tornando verso casa, nella luce accecante del pomeriggio del venticinque aprile, ho pensato, dondolato dal vagone, alla “vera” sinistra: che si abbraccia piangendo e canta in piazza, che si commuove ascoltando Moni Ovadia che tuona contro i vecchi e i nuovi fascismi, che accorre agli spettacoli d’avanguardia sulla drammatica condizione operaia (ma a volte, vien da chiedersi se qualcuno tra il pubblico l’ha mai visto davvero, un operaio in vita sua); alla “vera” sinistra che sta dalla parte degli ultimi (sempre!), che muove in “direzione ostinata e contraria”, e che quindi detesta l’idea che i penultimi o terzultimi possano (orrore!) sputtanarsi 80 euro magari andando in pizzeria, simbolo della mediocrità e di quel consumismo di massa che è “peggio del fascismo”, come si deve dire, in società, citando pensosamente Pasolini.

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Alla vera sinistra che considera il lavoro una schiavitù da cui liberarsi (e non, come forse potrebbe essere, il voltairiano giardino di ciascuno da coltivare per non impazzire). E allora, nel tardo pomeriggio di sole, mi sono detto, tra me e me: eh lo so, la “vera” sinistra non si lascia abbindolare dai “venditori di pentole”, non abbocca all’amo, è estremamente raffinata, acuta, sottile, detesta i conformismi, le propagande di regime. È molto intelligente. Persino un po’ troppo, almeno per me. Al punto che io non me la sento di farne parte. Domine non sum dignus: son nato paperino, che cosa ci vuoi far?

(Genova che non mi lascia – mia fidanzata, bagascia – nel frattempo, ha cominciato ad allontanarsi. E quando son partito il sole non c’era più e il cielo era grigio di pioggia: e se non dovessi tornare – è ancora Caproni, questo – sappiate che non sono mai partito).

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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