Beppe Fenoglio e la romanzofobia comunista.

Oggi e sempre resistenza. La lotta partigiana nell’opera di Beppe Fenoglio. Un’esperienza che ha attraversato l’intera vita dello scrittore ed intellettuale scomparso nel 1963. Continua la nostra libera tribuna su resistenza, letteratura, intellettuali e politica nell’avvicinarsi del 25 aprile. Interviene Susanne Portmann. 

Quando il 18 ottobre del 1963 il partigiano, scrittore, drammaturgo e traduttore Beppe Fenoglio, morì, la sua opera era ancora pressoché sconosciuta. La sua poetica che rappresentava la Resistenza e i partigiani fuori dai canoni sollecitati dalla cultura egemonica, e il suo linguaggio originalissimo non furono “compresi” e vennero messi in disparte da coloro che avevano il compito di decidere le sorti degli scrittori emergenti. Fu per primo Italo Calvino a togliersi gli occhiali ideologici affermando che Fenoglio fu colui che «riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato».

Il primo e l’ultimo romanzo di Fenoglio – Appunti partigiani 1944-1945, del ‘46 e Una questione privata, del ‘60 – hanno per tema la lotta partigiana, così come altri suoi testi, pubblicati in minima parte durante la vita. [[Fenoglio nacque nel 1922 e morì il 18 febbraio 1963. A parte pochi racconti pubblicati su riviste, mentre era in vita uscirono soltanto tre dei suoi libri – presso Einaudi nel 1952, “I ventitré giorni della città di Alba” (12 racconti, di cui la metà a tematica partigiana) e nel 1954, “La malora”, e presso Garzanti nel 1959 “Primavera di bellezza”.]]
Ma l’opera di Fenoglio non consiste solo in storie partigiane, quelle langarole sono altrettanto numerose e scrisse anche favole, racconti fantastici, epigrammi e fu un instancabile traduttore di opere in lingua inglese, fin da quando l’apprese al ginnasio. Fenoglio non vedeva l’ora di farla finita con i partigiani per scrivere di altro, ma volle, fino alla fine, portare a termine la storia di Johnny, naufragata nel ‘59 con Primavera di bellezza, dove Johnny muore alla sua prima azione partigiana. Il partigiano Johnny, infatti,come lo leggiamo oggi, è il risultato di assemblaggi postumi delle due stesure che ci sono pervenute; la materia partigiana dalla quale trasse più racconti e alla quale cercò a più riprese di dare forma in un altro romanzo con un nuovo protagonista e che infine scioglie con Una questione privata.

Scena del film Il partigiano Johnny

Fenoglio è un autore postumo al pari di Kafka. Ciò comporta che chi legge più di una delle sue opere partigiane di seguito, sia continuamente investito da dejà-vu; l’autore sembra raccontare sempre cose simili se non uguali in testi diversi, cambiando nomi, luoghi, date, condizioni meteorologiche, ecc.: la stessa mucca può leccare il braccio a più partigiani rannicchiati nella medesima mangiatoia in stalle diverse e in momenti diversi, due personaggi diversi possono portare il medesimo paio di mutande color vinaccia in due racconti diversi, personaggi con lo stesso nome possono essere due persone completamente diverse in testi diversi, lo stesso personaggio può salvarsi nell’azione di un racconto e morire nella medesima in un altro, la stessa nebbia inghiottire due partigiani diversi in due libri diversi, ecc., ecc.

A questo fenomeno di ‘moltiplicazione’ degli episodi fenogliano, i critici hanno dato nomi diversi – “variazioni sul tema” lo chiama Gabriele Pedullà [[Gabriele Pedullà, “La quarta marcia di Fenoglio”, in: Beppe Fenoglio, “Tutti i romanzi”, Einaudi, Torino, 2012”, edizione ebook.]], “differenza entro l’omogeneità” lo definisce Maria Corti [[Maria Corti, “«Il Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio”, in: ”Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere” Vol. IV. II a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1995, p. 19]] e di “rapporto creativo con la Storia” parla Luca Bufano [[Cfr. Luca, Bufano, “Le scelte di Fenoglio”, in: Beppe Fenoglio, “Tutti i racconti”, Einaudi, Torino, edizione ebook]], ma al suo fondo si annida ‘la questione Fenoglio’, vale a dire la dura verità, che egli non solo volontariamente ha scritto e riscritto la sua epopea partigiana, seguendo il suo modus operandi della “fatica nera”, ma anche perché, per poter pubblicare quel poco che gli riuscì da vivo, fu costretto dai suoi editori a riscriverla.

Prendiamo La paga del sabato, il primo romanzo proposto agli editori nel ‘50 e per il quale Einaudi, nella persona di Italo Calvino, mostrò interesse:

“Ti dico subito quel che ne penso: mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime; certo anche molti difetti, sei spesso trascurato nel linguaggio, tante piccole cose andrebbero corrette, molte cose urtano il gusto – specie nelle scene amorose – e non tutti i capitoli sono egualmente riusciti. Però sai centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che sembra davvero rara, I rapporti di Ettore con la madre e con il padre, quei litigi, quei desinare in famiglia, e anche i rapporti con Vanda, e tutto il personaggio di Ettore […]: lì non sbagli mai la botta, hai coraggio, hai idee chiare su quello che fa e che pensa la gente, e lo dici. Idee fin troppo chiare: evidentemente tu hai l’orgoglio di riuscire a dire tutto e non la modestia di chi si limita a dare occhiate spaurite nelle sempre misteriose vite altrui. E’ questo spesso a forzarti la mano e a farti scrivere pagine che mi sembrano un po’ irritanti, specialmente – come ti dicevo – nella storia di Vanda. Intendiamoci: tutto vero, anche lì non sbagli un colpo, e non ci sono mai, o quasi mai, parole false né compiacimento (perciò ti salvi dalla pornografia), mai sei troppo, mi sembra, giovanilmente ambizioso delle cose che racconti. […] Tu non dai giudizi espliciti, ma, come dev’essere, la morale è tutta implicita nel racconto, ed è quanto io credo debba fare lo scrittore.”
[[Lettera di Calvino a Fenoglio del 2 novembre 1950 citata da Luca Bufano in calce alla risposta di Fenoglio del 10 novembre 1950, in: “Beppe Fenoglio. Lettere 1940 -1962”, Einaudi, Torino, 2002, edizione ebook ]]

Una settimana dopo Calvino scrive a Vittorini:

“Caro Elio, ti mando il manoscritto de La paga del sabato, di un certo Beppe Fenoglio di Alba. Natalia ed io l’abbiamo letto con molto piacere. É un libro che ha molti difetti di lingua e di gusto (in certi punti rasenta la pornografia); ma tutti difetti locali, eliminabili con poche correzioni. […] Quando non è alle prese con una situazione psicologica, fa del cinema, ma del buon cinema credo di quello che tu definisci “secco”. Insomma, spero che ti piaccia e che vada bene per la tua collana, perché – benché non possa essere considerato un “neorealista” di stretta osservanza – non rifà il verso a nessuno e dice delle cose nuove.”

Giulio Einaudi invece, un mese dopo, mandando a Vittorini Le formiche sotto la fronte di Remo Lugli, così gli scrive:

“L’ha letto anche Calvino e lo trova bello. Che ci siano delle parti bruttissime (le parti sessuali) siamo d’accordo tutti e due. Ma a me sembra, nell’insieme, molto bello. Gli ho scritto ed è disposto a correggere, tagliare, ecc.”

Da questo scambio di missive capiamo, che se un autore voleva pubblicare con lo struzzo, doveva tagliare “le parti bruttissime sessuali”. Nel caso de La paga del sabato tuttavia, ciò non bastò; leggendo la seconda stesura, a Vittorini il romanzo pareva troppo “film”:

“L’ultima parte del Fenoglio mi persuade meno. Diventa film sempre di più, e non sa più essere altro che film. La fine poi non è resa necessaria da niente che sia nella situazione o nei caratteri. Che dobbiamo fare?”

Fu il “buon cinema” di Fenoglio a portare alla sua bocciatura definitiva. Calvino gli comunica la decisione, riferendo che Vittorini è convinto che troverà facilmente un altro editore per il romanzo, [[Cit. in nota 1 di Bufano alla risposta di Fenoglio a Calvino del 30 settembre 1951, ibidem]] ma a questo Fenoglio risponde con un deciso no:

“Non intendo presentare La paga del sabato ad alcun altro editore, farà un lungo e solido racconto intitolato Ettore va al lavoro col meglio dei primi tre capitoli de La paga del sabato.” [[Cit. lettera di Fenoglio del 30 settembre 1951, ibidem]]

Trasse dal romanzo oltre a Ettore va al lavoro anche Nove lune, cambiando nel secondo racconto i nomi dei protagonisti di Ettore e Vanda in Ugo e Rita, e li aggiunse alla raccolta di racconti sulla quale la casa editrice aveva deciso di puntare, I ventitré giorni della città di Alba, apparsi nel giugno del ’52. In prima battuta Fenoglio non tolse in Nove lune la scena intima tra gli amanti e Calvino puntualmente lo bacchettò:

“in Nove lune io toglierei nella prima pagina la rievocazione dell’incontro in cui è successo il fattaccio, perché tanto come succede quando nasce un bambino lo sappiamo tutti.”
[[Cit. in nota 1 di Bufano alla lettera di Fenoglio a Calvino del 5 gennaio 1952, ibidem]]

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Come mai allora ne Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino pubblicato dalla stessa casa editrice nel ‘47, la scena di sesso tra il soldato tedesco e la sorella di Pim era passata? Forse perché quelle “brutte cose sessuali” stavano bene quando si svolgevano al buio e riguardavano il rapporto con una prostituta, ma non quando si trattava una donna come Vanda, che – affatto prostituta – facendo l’amore grida, “sono una puttana, lo sono ma cosa me ne fa, è tanto bello, è troppo bello, quelle che non lo fanno sono delle disgraziate!”. Lei, che si denuda per il suo uomo perché lui sa “che cosa grande e seria” ci sia dentro la sua camicia da notte, che ha “la macchia rossa nel centro delle mutandine bianche”. Una donna che ha coscienza della sua condizione di “serva” del padre e dei fratelli che la comandano a lavorare tanto che la sera ha “certi mali di schiena che pochi operai hanno” e che, rimasta incinta, vorrà il bambino ed Ettore le dice: “lo avrai, te l’ho dato ed è tuo”.

La paga del sabato fu pubblicata nel 1969 da Einaudi, che, dopo il successo del Partigiano Johnny, pensò bene di ripescare il dattiloscritto originale inviato vent’anni prima. In questa storia Calvino funse da censore, ma rimane pur sempre colui che nel 1964, gli pagò un alto tributo definendo Una questione privata “Il romanzo della Resistenza”. E rimane anche colui che scoprì Fenoglio: “Mi vanto di essere stato io a scoprilo e a segnalarlo a Vittorini”, scrisse a Giuseppe De Robertis nel ‘53, al quale inviò anche questo ritratto:

“E’, anche come persona, un tipo insolito nelle nostre lettere, anzi proprio il contrario del solito ragazzo di provincia letterato. E’ un commerciante di vermut, non in proprio, ma per una ditta in cui svolge mansioni importanti. E’ un tipo magro, con una faccia da film del West, un po’ brutale e accipigliata, caratteristiche accentuate da una triste affezione: una vegetazione di verruche e escrescenze sul viso. Parla a scatti, con brevi frasi dal giro inaspettato. Non è certo timido (è chiaramente un uomo pratico e risoluto ed è stato comandante partigiano nei badogliani), né è tipo da darsi arie; ma è un uomo che rimugina dentro e parla poco. Lo si direbbe un istintivo di poche letture – e in effetti lo è; ciò non toglie che a un certo momento lo si scopra traduttore di poeti inglesi raffinati: John Donne, Hopkins, Eliot.” [[Cit. in: Piero Negri Scaglione, “Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio”, Einaudi, Torino, 2006, edizione ebook, cap. 8]]

Beppe Fenoglio

Fenoglio ebbe vita dura non solo a causa del suo naso da Cyrano (fu preso per ubriacone, pur essendo astemio); aveva un difetto di lingua, parlava a scatti, specie con chi gli metteva soggezione. Questo Calvino non poteva saperlo, ma non si capisce perché affermi che “in effetti” Fenoglio fosse uno “di poche letture”, avendo constatato di persona quale profondo conoscitore della poesia inglese egli fosse. Quello per cui senz’altro il Nostro ha sofferto di più è questa negazione nei suoi confronti: lo si prendeva per un dilettante. ‘Svista’ che in più di un’occasioni ha dato seguito a giudizi sconcertanti.

“Fenoglio – dice Gianluigi Beccaria nel 1983 nel suo importante saggio sul ‘grande stile’ del Partigiano Johnny [[Gian Luigi Beccaria, “Il ‘grande stile’ di Fenoglio, in: “Atti dell’incontro di studio su Beppe Fenoglio” (Lecce 25-26 novembre 1983), a cura di G. Rizzo, Olschki, Firenze, 1983]] è nato sotto il segno della polemica” e invita i lettori ad affrontare il capolavoro del Partigiano “con mente sgombra”, senza preoccuparsi troppo delle diatribe filologiche che a lungo hanno tenuto banco (in sostanza si trattava proprio dell’affatto futile questione della datazione di Johnny) e senza rimuginare troppo sulle polemiche politico-letterarie alle quali l’autore era andato incontro. Polemiche spesso date per note, ma che per il comune lettore non sono tanto facilmente rintracciabili e che celano invece aspetti sorprendenti di più personalità importanti della cultura italiana del dopoguerra.

La polemica politico-letteraria partì dall’Unità nel ‘52, all’esordio di Fenoglio con I Ventitré giorni della città di Alba, col titolo imposto all’ultimo minuto da Giulio Einaudi in persona (ragione per cui nel risvolto si parlava di “sapore barbaro” in riferimento al titolo Racconti barbari , voluto da Vittorini). Attacchi continuati fino a tempi recentissimi, con un Giorgio Bocca che ancora nel 2007, sul Corriere della Sera del 1 aprile, affermava che “Fenoglio della Resistenza non ha capito nulla.” Ma Bocca, se non altro, ha il merito di non essersi mai rimangiato nulla, mentre tanti si sono ricreduti su Fenoglio, tanto che si fa prima ad elencare chi della sua statura si era accorto: il maestro delle elementari che convinse la madre ad iscriverlo al ginnasio, la sua insegnante d’inglese, Maria Lucia Marchiaro, e quello di italiano al liceo, Leonardo Cocito, nonché Mimma Ferrero e Margherita (Baba) Martinazzi (le due ragazze amate dal giovane Fenoglio) e poi, nel ‘50, Calvino.

Nel bosco dei pentiti, il caso più singolare è forse quello di Davide Lajolo, partigiano, scrittore, critico letterario e direttore dell’Unità di Milano, nonché deputato del PCI e sceneggiatore per la RAI. Un “uomo fortunato”, [[Cfr. il suo diario 1945-1969: Davide Lajolo, “Ventiquattro anni. Storia spregiudicata di un uomo fortunato”, Rizzoli, Milano, 1981]] che potrebbe passare alla storia come colui che si celò dietro l’anonimo recensore dell’Unità di Milano del 29 novembre del ‘52, che definì I ventitré giorni della città di Alba come “un gioco di parole che può essere facilitato dalla novità che consiste nel fatto di vedere le cose dall’altra sponda” – dando in pratica del fascista a Fenoglio. Tra i quattro articoli dell’Unità (uno per ciascuna edizione nazionale [[Gli articoli apparvero rispettivamente, il 12 agosto 1952 sull’edizione di Torino, del 3 settembre su quella di Roma e su quella di Genova. L’articolo di Carlo Salinari sull’edizione di Roma “Due risposte. La crisi del libro e liberalismo figurativo”, sull’edizione del 3 settembre 1952 è disponibile qui ]] che stroncarono il libro, questo anonimo, come dice Negri Scaglione, [[Piero Negri Scaglione, op. cit., cap. 8 ]] andò oltre: decretò la “scomunica” di Fenoglio da parte dell’ambiente comunista, che all’epoca praticamente egemonizzava tutta la cultura italiana. Che “l’anatema in perfetto stile stalinista” fu scritto da Lajolo in persona, oggi si sa, poiché risulta dall’annotazione dello stesso giorno della pubblicazione dell’articolo nel suo diario, pubblicato nell’81:

“Ho letto I ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio. Non mi è piaciuto […] mi è parso aiutare chi s’affanna a denigrarci. Noi garibaldini avevamo osteggiato la decisione di Mauri, il comandante dei badogliani, di volere occupare la città di Alba . […] Ma perché descrivere l’occupazione come una carnevalata? I partigiani come soldati di ventura e l’abbandono della città come una fuga di fronte ai fascisti? Ho scritto un articolo sul libro con tono aspro.”

Il “tono aspro”, oltre la “novità di vedere le cose dall’altra sponda”, stava in questo:

“«Pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani e distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto. […] Noi non sappiamo se questo mestiere ( il procuratore in una ditta vinicola, ndr) lo esercita onestamente oppure vende del vino annacquato. Certo è che in fatto di racconti non possiamo parlare di onestà.» «Stupisce che un editore come Einaudi pubblichi roba del genere», prosegue l’autore, con partigiani che stanno «tra la caricatura e il picaresco», scritto in uno stile «volutamente letterario e falso come il contenuto», con «brutte parole» (cioè, banalmente, parolacce) e altre espressioni irrepetibili su l’Unità. «Quella di Fenoglio è, insomma, una ricerca voluta e grossolana, anche nello stile della narrazione, per mascherare con violenza verbale il contrabbando miserevole della sostanza.»“ [[Cit. ivi]]

Lajolo, scrivendo queste parole, sicuramente sapeva che Fenoglio era antifascista dall’adolescenza, perché gliene aveva parlato nel ‘46 Pietro Chiodi, già professore di filosofia dello scrittore, quando questi gli portò il suo diario partigiano, Banditi, da poco stampato [[Cfr. Davide Lajolo, “Ventiquattro anni”, op. cit.: in data 23 dicembre 1946, Lajolo riferisce una telefonata con Pietro Chiodi, l’ex professore di filosofia del liceo di Fenoglio, contattato per aver saputo di un attentato nei suoi confronti e che all’occasione gli disse: “«Ho dato torto all’amico Beppe Fenoglio per il pessimismo in cui è sfociato il suo monarchismo, ma ora guardandomi attorno, anziché paura dei vili che vogliono farmi fuori, ho vergogna di quelli che hanno dimenticato cosa hanno fatto. A proposito: quando vuoi venire? Fenoglio ti aspetta e io non ti farò perdere tempo raccontandoti perché non sono morto da eroe.»” (E possibile che tra la pubblicazione di “Banditi” e/o la recensione di Lajolo e l’attentato a Chiodi, ci sia un nesso.) Lajolo dice di avere incontrato, “l’unica volta che mi ha accompagnato ad Alba Pieto Chiodi”, ma senza dire quando. Cfr. Davide Lajolo, “Beppe Fenoglio. Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe”, Rizzoli, Milano, 1978, a p. 61 della trascrizione dattilografica del testo disponibile online ]] e che, il 10 ottobre di quell’anno, sull’Unità, lui elogiò come “il libro più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana”.

Pietro Chiodi è un altro che merita considerazione: capo partigiano durante la guerra, dopo un iniziale periodo di screzi, strinse amicizia con Fenoglio, frequentandolo quasi quotidianamente ad Alba sino a quando prese la cattedra all’università di Torino e gli stette vicino anche nei giorni di agonia alle Molinette. Oggi Chiodi non è più conosciuto come l’autore di Banditi, quanto come Il traduttore italiano di Heidegger e come colui che ha introdotto l’opera di Sartre in Italia; dedicò proprio a Fenoglio il suo Sartre e il marxismo, pubblicato nel ’65, contemporaneamente a un memoriale “Fenoglio scrittore civile”, in cui leggiamo:

“Debbo confessare che quando uscirono I Ventitre giorni di Alba, e poi La Malora [nel 1954], non seppi capire. […] E tanto meno capivo il significato del suo impegno linguistico. Parole come “letteratura”, “naturalismo”, “neorealismo”, “dilettantismo”, pronunciate da altri, mi impedivano ancor più di capire. Ma soprattutto mi impediva di capire il modo in cui Fenoglio aveva trattato la materia partigiana, l’assenza completa nei suoi personaggi proprio di quei “valori” che io sapevo così gelosamente custoditi nella rimemorazione della sua attiva partecipazione e nel rimpianto per i suoi amici scomparsi. Non riuscivo a capire cosa legasse la sua autoformazione da “raffinato”, in cui la diretta intenzione al classico si accompagnava talvolta a compiacimenti da dandy, e la struttura di violenza pietrificata nella brutalità che uomini e cose prendevano uscendo dalle sue mani.” [[Pietro Chiodi, “Fenoglio scrittore civile”, pubblicato sulla rivista “La cultura” III, del gennaio 1965 p. 1-7. Il testo è disponibile in: Beppe Fenoglio, “Lettere 1940 – 1962”, op. cit., “Appendice 9”.]]

Anche Chiodi, che pur gli era stato amico per vent’anni, non aveva capito Fenoglio, e qui racconta come infine ci riuscì, mettendo in relazione il fatto che più volte gli aveva detto che da adolescente sognava di diventare “un soldato di Cromwell con la Bibbia nello zaino e il fucile in spalla” con il radicale anticlericalismo di Fenoglio (scandalosamente note le sue nozze civili, le prime celebrate ad Alba, e il suo funerale senza funzione religiosa) e giungendo così all’illuminante rivelazione che si trattava di rigoroso “rispetto civile al cattolicesimo”. È forse proprio a partire dal saggio di Chiodi che hanno preso piede le interpretazioni in cui così spesso ci imbattiamo; interpretazioni che parlano di protestantesimo, di puritanesimo, di pessimismo e soprattutto dell’esistenzialismo di Johnny e/o di Fenoglio, come nel già citato saggio di Beccaria del 1983:

“La sua ‘resistenza’ non è storia, ma comportamento. La resistenza non è il tema del suo intenzionale romanzo epico. Il tema, piuttosto, è il dramma dell’esistenza nella sua totalità. […] Il destino finale dell’uomo è già esistenzialmente quello del vinto. Soltanto la morte precoce sottrae l’uomo a questo destino. Sono altrettante ragioni queste che ci spiegano perché il Partigiano sia soprattutto un grande documento di tensioni religiose-esistenziali; e dica sulla Resistenza meno di quanto un ideologo o uno storico vorrebbe.”

Partigiani appostati

È questa chiave di lettura esistenzialista, applicata senza distinzione al personaggio e all’autore, che potrebbe avere aperto le porte alla riabilitazione di Fenoglio nell’ambiente culturale più o meno post-comunista. Chi fortemente vi si adoperò fu proprio Davide Lajolo, che negli anni Settanta realizzò una serie televisiva su Fenoglio (c’era anche un progetto di riduzione cinematografico del Partigiano) e nel ‘78 pubblicò la prima biografia, Fenoglio. Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe, dove, senza rivelare ancora la paternità del famigerato articolo anonimo, fa autocritica:

“In un primo tempo […] eravamo tra quelli che si sono adontati e non riconoscemmo in Fenoglio il cantore della Resistenza. La carnevalesca sfilata per l’occupazione della città, la perdita da parte partigiana in modo poco dignitoso e il ridurre il ricordo della Resistenza ne La paga del sabato a un pugno di partigiani che avevano scelto la strada della delinquenza, […] ci diede l’impressione che Fenoglio non avesse capito né durante né dopo cos’era stata quell’unica guerra patriottica […]/ Avevamo partecipato alla guerriglia […] con un motivo in più di Fenoglio: una grossa macchia da lavare che era quella di avere creduto alla retorica patriottarda e nazionalistica del fascismo, addirittura al mito dell’impero, oltre al motivo di fondo di tornare ad essere popolo come i nostri padri contadini e a capire cosa significava libertà. La nostra crisi, che non si risolse voltando solo gabbana […], ma durò […] e ancora perdura […], ci aveva portato a scrivere con un altro accento i nostri diari di quella rinascita./ Certo, in quei diari, anche se ci eravamo rinnovati nella prova del sangue, non potevamo cancellarci dentro la retorica accumulata; anche se la dirigevamo in direzione opposta, non potevamo fare a meni di quella propaganda che ci aveva redenti e di cui avevamo ancora bisogno come tensione ideale, quasi un fuoco sacro.” [[Davide Lajolo, “Fenoglio. Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe”, op, cit. (p. 60 del dattiloscritto online)]]

Risalendo la china delle note polemiche si viene così a sapere che colui che vigliaccamente nel ‘52 calunniò Fenoglio come fascista, prima di diventare comunista, era stato lui stesso un fascista in piena regola. Lajolo, infatti, era un “voltagabbana”, come scrisse nel suo libro dall’omonimo titolo pubblicato nel ‘63: aveva fatto parte dei GUF e aveva preso parte alla guerra di Spagna, dalla parte dei franchisti.

Per molti personaggi di Fenoglio, si sono rintracciate le persone che glieli ispirarono, ma non ho trovato simile riscontro per il mitico commissario di guerra Némega, comunista fanatico e antipatico per eccellenza, che vessa Johnny in modo particolare, lo considera un intellettuale borghese, perché questi si rifiuta di partecipare ai suoi corsi di marxismo e di scrivere “pezzi di colore partigiano”. Sarà un caso, che subito dopo aver scoperto che costui aveva frequentato corsi di mistica fascista (che si studiava nei GUF), Johnny ha la certezza di “non vedere mai più Némega”, perché uscendo vivo dall’assedio nazifascista del paese presidiato dai rossi avrebbe lasciato la formazione dei garibaldini per andare a cercarne una azzurra? Fenoglio comunque salvò il personaggio ne Il padrone paga male, facendo dire a un tale che racconta la storia di Némega, che avrebbe torto il collo a chiunque ne avesse parlato male.

Il passaggio di Lajolo citato, a ben guardare, racchiude un pezzo di storia letteraria italiana: il neorealismo, a cui si collegò la cosiddetta “memorialistica” (i diari scritti appunto); tendenza caldeggiata dalla politica culturale del PCI e propagandata attraverso la terza pagina dell’Unità. La conseguenza fu che nel dopoguerra furono scritti pochissimi romanzi (di durevoli ne sono rimasti tre: Uomini e no di Vittorini del ‘45, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino del ‘47 e L’Agnese va a morire della Viganò del ‘49), proprio perché pochi autori vinsero la reticenza di fronte “alla rigorosa precettistica ispirata in massima parte ai principî formali proposti da Lukács nei Saggi sul realismo”, i quali avrebbero dovuto guidare gli scrittori nella concezione dei propri romanzi: “tipicità”, “oggettività”, “totalità”, “mediazione”, “ruolo positivo dell’«eroe proletario»: [[Pedullà, “Alla ricerca del romanzo”, in: Beppe Fenoglio, “Una questione privata”, Einaudi, Torino, 2006, p. XXII]]

“Paradossalmente, proprio la deliberata parzialità e la rinuncia preventiva dei racconti brevi e delle memorie di guerra a qualsiasi pretese di rappresentare sinteticamente l’insieme delle avventure partigiane ponevano i loro autori al riparo dall’accusa di non aver restituito nei loro testi il senso complessivo di quella stagione, laddove ogni romanziere rischiava di venir giudicato all’implacabile tribunale dell’estetica socialista.” [[Ivi]]

L’altro motivo della penuria di romanzi è da cercare nella “retorica” di cui parla Lajolo; l’italiano nel dopoguerra fu talmente inficiato dalla ventennale mistica fascista che, per non rispalmarla anche involontariamente nelle righe, come fa Lajolo ancora nel passaggio citato del ’78, usando espressioni come “prova del sangue”, “tornare ad essere popolo come i nostri padri” o “fuoco sacro”, occorrevano metodi radicali, come quello di Fenoglio. Questi infatti, dopo la metà degli anni Cinquanta e proprio per scrivere la storia di Johnny, passò ad adoperare – non più occasionalmente come poteva accadergli prima, ma metodicamente in prima stesura il suo inglese peculiare, puramente mentale – per poi ritradursi nell’italiano pieno di residui inglesi che leggiamo nel Partigiano. Per questo romanzo va però giustamente tenuto presente che si tratta di un’opera postuma, mentre Fenoglio, prima di procedere a pubblicazione, si curava sempre di giungere ad un italiano, originale sì, ma mai sperimentale nel senso di ‘inventato’. Il ‘passaggio’ attraverso il suo idioletto privato gli permise di conquistare un italiano letterario nuovo, debellato da ogni retorica in cui molti rimasero impigliati e di conferire così alla narrazione partigiana quel tono al contempo vero e alto, che spettava alla lotta dei giovani e delle giovani che vi avevano aderito, ciascuno per un proprio intimo motivo.

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La riabilitazione da parte comunista di Fenoglio partì da personalità come Calvino, Chiodi e Lajolo, ma anche a distanza di vent’anni dalla caduta del muro, può risultare ancora reticente; come nel caso di Giorgio Bocca o anche nel caso della prefazione a una riedizione di Banditi di Chiodi, distribuito in allegato all’Unità nel 2003, dove si legge:

“La collana “Giorni di storia” […] amplia così la sua modalità di intervento inserendo nei suoi volumi la riproposizione di libri importanti, che appartengono al codice genetico e identitario della cultura di sinistra, su cui molte generazioni si sono formate e su cui molte altre ci auguriamo andranno a formarsi.“ […] più che essere un diario, Banditi è un non romanzo, se accettiamo la differenza tra letteratura di Resistenza e letteratura sulla resistenza proposta da Alberto Asor Rosa e da Franco Fortini […] «quasi un capolavoro» […] «Partigiano è, sarà chiunque combatterà i fascisti», dice Chiodi al giovane Fenoglio che sta per diventare il Partigiano Johnny, per fare anche egli una scelta di Resistenza, prima di tutto esistenziale.” [[Introduzione di Enrico Manera e Augusto Cherchi a: Pietro Chiodi, “Banditi. Un diario partigiano 1939-1945”, edizione speciale per l’Unità del 25 aprile 2003, Nuova Iniziativa Editoriale S.p. A., Roma, 2003, pp. III-IX]]

Qui la categoria del “non romanzo” rimane elevata a livello del “quasi” capolavoro e abolendo ogni distinzione tra verità e poesia, Fenoglio è nominato giusto in quanto sta per diventare il partigiano Johnny – anzi, perché tale diventa grazie al Chiodi personaggio del Partigiano, che lo indirizza sulla retta via “della libertà”. Desta però preoccupazione “il codice genetico e identitario della cultura di sinistra”, quasi fosse l’essere stati o essere di sinistra una questione ‘razziale’. Ma cos’era esattamente che fece sì, che Fenoglio diventasse “il più isolato di tutti” da quel mondo culturale? Forse lo si capisce da un passaggio degli appunti delle lezioni di Chiodi tenute al liceo, svelati da un ex alunno e futuro sindaco democristiano di Alba:

“Il problema è: «essere o non essere» ma l’uomo se veramente decide di essere è perché ha fede. L’esistenza è possibile solo sulla base della fede. L’esistenza, che è per l’uomo essenzialmente decisione, implica una fede. Una fede non in un’idea politica, in una missione particolare, nell’amore o nell’arte, ma una fede in Dio. Fede in Dio, se per Dio intendiamo non l’essere, ma qualcosa di più dell’essere. Dio non può essere o esistere, perché è ciò che rende possibile «l’essenza» e «l’esistenza.»” [[Bruno Quaranta, “E il liceo di Fenoglio non applaudì il Federale”, La Stampa, 28. Febbraio 2014]]

Il padre di Fenoglio era un socialista turatiano che si rifiutò sempre di prendere la tessera fascista, ma fu la scoperta della cultura e letteratura inglese che portò Fenoglio da giovanissimo a realizzare e odiare appieno lo squallore della cultura fascista in cui era cresciuto. Questa scoperta lo portò anche al suo radicale laicismo, tanto da comunicare (a sedici anni) al parroco che non avrebbe più messo piede in chiesa, ma a questo si poteva arrivare anche senza conoscere a menadito gli elisabettiani e Milton nell’originale, leggendo per esempio il saggio Il protestantesimo di Gobetti. Fenoglio ha combattuto da partigiano, con i rossi e con gli azzurri e ha scritto le storie dei partigiani e degli abitanti più umili delle Langhe, le più vere e le più belle, tanto che oggi fanno parte della patrimonio letterario universale. Non dobbiamo altresì dimenticare che il Nostro aveva una visione molto critica degli alleati che si evince, in parte, dal romanzo incompiuto L’imboscata e pienamente soltanto dall’unico testo in “fenglese” superstite, l’UrPartigiano Johnny, pubblicato un’unica volta nell’edizione critica del ‘78 e che racchiude gli ultimi mesi del partigianato di Johnny durante i quali finalmente incontra l’“agognata“ missione inglese. Eppure, il dettaglio biografico che più pesa nei ricordi di Fenoglio (lo si è visto anche negli articoli apparsi in occasione della cinquantesima ricorrenza della sua morte) è il voto per la monarchia nel ’46, il suo “monarchismo” del quale Chiodi si era preoccupato di informare Lajolo al loro primo incontro.

Della scomunica comunista Fenoglio venne a sapere tardi, da accenni di Anna Banti, la sua prima promotrice che tentò di inquadrarlo nel campo culturale liberale. Fenoglio chiese allora – dicembre del ‘52 – delucidazioni a Vittorini e questi, soltanto il 6 maggio successivo, gli disse che gli attacchi “erano tutti di parte comunista”. Vittorini, anzi, gli scrisse per chiedergli di farsi avanti con una nuova opera, visto che I ventitré giorni, in fondo si potevano dire “un successo”. Fenoglio mandò allora all’Einaudi La malora, che venne pubblicata nell’agosto del ‘54; andò in tipografia quasi fosse una fotocopia del dattiloscritto, pur non convincendo né Calvino né Vittorini, che però pensò bene di esprimere i suoi dubbi nel risvolto di copertina. E questa volta l’offesa arrivò a Fenoglio “come una frustata in faccia” quando prese in mano la copia del libro fresca di stampa:

“Degli scrittori che i “Gettoni” hanno presentato del tutto nuovi Beppe Fenoglio è uno su cui siamo più inclini a puntare. […] Quello che ora gli pubblichiamo […], è per molti aspetti più bello nello stesso senso di rappresentazione (e rappresentazione a contropelo) di quanto può essere aspro l’uomo contro l’uomo. Racconta di rapporti umani in campagna ridotti in nuda spietatezza anche tra marito e moglie, e anche tra padri e figli) del rapporto di lavoro, Ma ci conferma in un timore che abbiamo sul conto proprio dei più dotati tra questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile. Il timore che, appena non trattino più di cose sperimentate personalmente, essi corrano il rischio di ritrovarsi al punti in cui erano, verso la fine dell’Ottocento, i provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena: con gli stessi “spaccati” e le “fette” che ci davano della vita; con le storie che ci raccontavano, di ambienti e condizioni, senza saper farne simbolo di storia universale; col modo artificiosamente spigliato in cui si esprimevano a furia di afrodisiaci dialettali. E’ solo un rischio ch’essi corrono; un dirupo lungo il quale camminano. Ma del quale è bene che siano avvertiti.” [[Cit. in Negri Scaglione, op. cit., cap. 8]]

Scena del film Il partigiano Johnny tratto dal romanzo omonimo

A parte la corrispondenza con i suoi editori, Fenoglio solo in rare occasioni ha rilasciato dichiarazioni pubbliche sulla sua scrittura e possediamo di lui soltanto un testo non letterario, privato, il Diario 1954, che consiste in una ventina di appunti su un quaderno, in concomitanza con l’uscita della Malora. É attraverso queste pagine che conosciamo l’effetto dell’“atroce crisi di rabbia” che ebbe su di lui il risvolto di Vittorini, ma anche come, in quei giorni, riuscì a riguadagnare fiducia nella propria scrittura: ripensando e sognando i suoi due amori giovanili, Mimma e Baba, la ragazza che si portò nel cuore andando partigiano e quella che incontrò tornando a casa dopo la Liberazione. La prima non lo corrispose mai, la seconda sì, ma morì in un incidente stradale pochi mesi dopo essere stata allontanata da Alba dalla famiglia che aveva scoperto l’innamoramento.

Fenoglio nacque romanziere, in barba alla sempre ripetuta “quarta marcia” che nel ‘53 disse a Vittorini di non possedere e nel ‘95 furono pubblicati gli otto capitoli superstiti del suo primo romanzo, Appunti partigiani 1943-1945, scritto nell’immediato dopoguerra, quando definì la sua condizione “un esaurimento nervoso regolarissimo”. Non propose mai Appunti partigiani a un editore, forse proprio perché lesse Banditi
di Chiodi e capì che “la roba” per la quale “gli editori saranno tutti, per almeno una decina d’anni”, [[Cfr. Beppe Fenoglio, “War can’t be put in a book”, in: Beppe Fenoglio, “Tutti i racconti”, op. cit. ]] sarebbero stati “i diari scritti a caldo” sulla Resistenza, tanto per tornare a Lajolo. In Appunti il partigiano Beppe non vuole prendere un nome di battaglia, a meno che non sia Heathcliff, nome del protagonista di Wuthering Highs della Brontë, né accetta il nomignolo Johnny datogli dalla professoressa di inglese, con cui tutti lo chiamano. Salendo in collina per raggiungere i partigiani, Beppe si porta dietro l’innamoramento “eterno” per una ragazza di Alba che sospetta essere invece innamorata di un altro partigiano, ma senza che ciò poi gli impedisca di flirtare con la Anna Maria di Santo Stefano Belbo e di passare una focosa notte nel letto della staffetta Claudia (e al mattino, vedendola scavalcare su una macchina le regala l’osservazione: “è bello vedere che una ragazza che l’hanno stamburata tutta la notte fa ancora di queste spaccate”, che nel Partigiano Johnny diventerà “la portentosa indecifrabilità delle donne”). La sua prima prova letteraria serba più di un nucleo che magistralmente dispiegherà in Una questione privata; con spontanea naturalezza vi congiunge i due inconciliabili: la materia partigiana e la materia amorosa… come romanzo comanda! L’inibizione per questa fusione gli nascerà dopo; dopo la censura di Wanda da parte di Calvino, dopo gli attacchi dell’Unità e dopo il risvolto di Vittorini, diventerà “il latente anelito di Johnny al puritanesimo militare” su cui tanto hanno tramato gli interpreti, glissando sul fatto che nell’UrPartigiano invece, Johnny si innamora della splendida staffetta Dea e passa con lei una notte d’amore. E – a favore della scena del colloquio tra i due professori del liceo – si tace volentieri anche su una scena, sempre all’inizio del romanzo, in cui Johnny fa l’amore al fiume con la “ragazza della collina”, senza nome, che gli dice: “Se non fossi una donna, vorrei essere una donna. E ancora una donna. E poi ancora una donna. Ma se non potessi vorrei essere un airone”. Tre volte l’imboscato Johnny, a cui è venuta a nausea la traduzione de L’Ebreo di Malta di Marlowe mentre attorno imperversano i nazifascisti, dopo aver fatto l’amore con questa ragazza grida: “ma io non mi sento un uomo!” Ed è allora che scende in città ad incontrare i suoi ex professori per capire come entrare nei partigiani. E mentre si incamminerà verso le “somme colline” per raggiungerli, sentirà “com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”. Johnny non fa una scelta esistenziale “di libertà”, la sua decisione nasce da un’identità maschile che, nel rapporto con la quella misteriosa ragazza e in quel momento storico, se non si assume la responsabilità di prendere le armi contro i nazifascisti, rimane sciancata.

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Fenoglio amava le donne libere e coraggiose e al fondo fu forse proprio la sua rappresentazione letteraria di tali donne a procurargli guai politico-letterari; ricordiamo le partigiane all’inizio de I ventitré giorni, che mandano a “farsi fottere” i loro capi che non vogliono che esse sfilino a fianco dei ragazzi, perché “i borghesi” le pensano puttane, e che Wanda, non solo godeva sfacciatamente nel rapporto sessuale con Ettore, ma non era neanche “buona a pregare”, per non averci creduto mai lei, come Ettore.

Calvino, nella celebre prefazione del ’64, sembra meravigliarsi tanto del fatto che Fenoglio fosse tornato a scrivere della guerra partigiana, quando tutti l’avevano data ormai per una storia bell’e superata, apparentemente senza chiedersi perché c’era tornato sopra. Quando dopo la metà degli anni Cinquanta si lanciò nell’impresa del suo “grosso libro” sul periodo ‘40-45, Fenoglio era conscio della guerra che l’ambiente comunista gli aveva dichiarato, ma non conosceva ancora le insidie del mondo editoriale non comunista e la guerra fredda che si combatteva nel campo dei premi letterari: tanto valeva rimanere da Einaudi. Morì tra i due fuochi, da reduce partigiano e da reduce d’amore, ma senza farsi togliere la felicità dei due anni di matrimonio con la splendida Luciana Bombardi, che lo sposò in comune nonostante la convocazione da parte del vescovo e che declinò l’offerta del marito agonizzante di sposarla in chiesa e senza farsi togliere la felicità del primo anno della loro bellissima bambina. Portò in quel periodo all’intima compiutezza la sua opera, tenendo gli editori a distanza di sicurezza.

Ciò che rimane difficile comprendere è la gratuità delle cattiverie che troppo spesso lo hanno colpito. Forse non pochi si erano convinti che con la sua morte precoce, quel provinciale balbuziente che si credeva uno scrittore, si sarebbe tolto dalle scatole e che sarebbe stato dimenticato presto. Davide Lajolo, a proposito riporta un episodio:

“Italo Calvino ed altri lettori della Casa Einaudi, quando felice Campanello, dopo la morte di Fenoglio, portò loro tutto il blocco del materiale inedito, lo rimandassero indietro perché a loro giudizio non c’era nulla che valesse la pena di essere pubblicato.” [[Davide Lajolo, “Fenoglio. Un Cromwell sulle colline delle Langhe”, op. cit. (p. 74 della trascrizione online)]]

E sempre Calvino, quando Chiodi gli mandò il suo saggio su Fenoglio rispose:

“E la sua ricerca d’una definizione letteraria mi ha interessato proprio perché lei parte da una diffidenza per i metodi e la terminologia della critica letteraria e quasi da un rifiuto del lavoro letterario in quanto ha di specifico. Forse proprio per questo Lei giunge a dire qualcosa – non solo su Fenoglio, ma sul rapporto autore-opera – di molto pertinente e persuasivo.” [[Lettera di Calvino a Chiodi del 14 aprile 1965, in: Beppe Fenoglio, “Lettere”, op. cit.]]

Un passo che induce a pensare, che forse, per essere di sinistra, oltre l’anti-nazifascismo, oltre la memoria fedele della Resistenza e il laicismo democratico irriducibile, occorre tenere in alta considerazione le donne strafottenti e essere disponibili alla difesa ad oltranza dello “specifico” della letteratura, che magari proprio dal rapporto con esse scaturisce.

Susanne Portmann

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