La scelta della lingua

La lingua come una pelle sottile che avvolge l’anima. Che crea un vincolo sociale ed identitario forte e duraturo, come fece notare Tocqueville e che oggi è minacciato da un suo uso sempre più omologato e superficiale. Come nel rapporto tra il quebecchese e il francese di cui ci parla Claudio Antonelli, da Montréal.

È stato Alexis de Tocqueville a dire che « il legame del linguaggio è forse il più forte e duraturo che possa unire gli uomini ». Questa verità è ben nota ai nazionalisti quebecchesi e ai loro leaders governativi che l’hanno persino inserita nei testi preparatori alla legge che ha fatto del francese (1974) la sola lingua ufficiale della provincia.

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D’Honoré Daumier, le comte de Tocqueville

Capita spesso tuttavia di leggere o di ascoltare opinioni che sono in completo disaccordo con questa che a me appare una verità solare. Ma molti, soprattutto tra gli Italiani, tendono a considerare il linguaggio un mero strumento di comunicazione e non invece l’espressione più ricca ed importante di quell’universo di simboli che noi chiamiamo cultura. In altre parole, c’è ancora chi sostiene che parlare l’una o l’altra lingua sia un fatto secondario e marginale, dal momento che ci si può benissimo esprimere in due o tre lingue senza essere costretti nel far ciò ad effettuare una scelta tra le varie culture che tali lingue esprimono. Vero.

Ma vi è sempre una lingua che primeggia in qualunque individuo, fosse anche un poliglotta dei più dotati. Questa lingua è quasi sempre la lingua madre: linfa e insieme frutto e fogliame di una pianta che affonda le radici nell’anima della nazione. Chi accetta questa verità potrà più facilmente capire il parossismo raggiunto in certi momenti, nel Québec, dalla lotta per la supremazia del francese sulla lingua rivale, l’inglese.

La lingua, insomma, non è solo un mezzo per comunicare il pensiero, ma è strumento d’azione poiché « interpreta » la realtà. Inoltre, essa è la bandiera dell’identità.

Ecco come si è espresso un filosofo-linguista in merito a questo assunto: « La nostra concezione sbagliata della natura del linguaggio ha comportato uno spreco di tempo, di sforzi e di acume più di tutti gli altri errori e di tutte le altre illusioni di cui l’umanità è stata vittima. » (A.B. Johnson, A Treatise on Language)

La lingua come bandiera

Alexis de Tocqueville nel lontano 1831 visitò il Basso Canada, ossia grosso modo l’attuale Québec. Il problema creato dal coresistere di due lingue e dal predominare proprio di quella del popolo minoritario, vale a dire l’inglese, lo fece riflettere: « Le città e in particolare Montréal (non abbiamo ancora visto Québec) presentano una straordinaria somiglianza con le nostre città di provincia. La stragrande maggioranza della popolazione è ovunque francese. Ma è facile vedere che i francesi sono il popolo vinto. Le classi ricche appartengono in gran parte alla razza inglese. Benché il francese sia la lingua universalmente parlata, la maggioranza dei giornali, le scritte e persino le insegne dei negozianti francesi sono in inglese. Le imprese commerciali sono quasi tutte nelle loro mani. » E parlando dei due popoli, Alexis de Tocqueville annotò nel suo diario di viaggio:« È difficile ch’essi si fondano e che si stabilisca tra loro una completa unione. »

Tante cose sono cambiate da allora, ma certi malintesi persistono riguardo all’importanza della lingua, soprattutto in seno agli immigrati i quali spesso ignorano il passato del « Canada francese ».

Per evitare l’aggravarsi di pericolosi malintesi, noi « allofoni » dovremmo invece provare a capire le cause storiche dell’alienazione quebecchese smettendo di considerare la lingua uno strumento puramente utilitario.

Tutti i popoli al mondo si sono battuti, si battono e si batteranno per la propria lingua madre. Con la notevole eccezione, beninteso, del popolo del « Franza o Spagna purché se magna » ingordo fino all’oscenità di parole e frasi ripetute a pappagallo, tratte dalla lingua inglese; lingua ricca e bella che meriterebbe di essere meglio conosciuta dai nostri governanti e addetti all’informazione che si gargarizzano con « killer », « flop », « in tilt », « pressing », « stalking », »welfare »… Facendosi ridere dietro sia da chi è di lingua madre inglese sia da chi ha il senso della dignità nazionale.

La nuova pelle

I pratici vi diranno che la lingua è un passaporto. I materialisti che è un conto in banca. In Canada molti immigrati ripetono in coro: « Una, due, tre… più se ne sanno e meglio è! Il Nord America è grande. Oggi siamo in Québec, domani forse saremo altrove. »

I romantici vi diranno che la lingua è una bandiera, perciò ne potete avere nel cuore solo una. Io vi dico che le lingue che parlate sono quasi una pelle: dividono e uniscono, un po’ come le epidermidi brune, nere, bianche possono separare o unificare. Alla maniera di parlare, del resto, si devono certe forme di avversione che ricordano un po’ il razzismo: un razzismo basato sulle corde vocali e sulle trombe di Eustachio. Sì, sono una pelle fatta a strati che ci stanno tutti attaccati addosso, anche se c’è sempre uno strato più vicino alla carne…

Per alcuni di noi la scelta linguistica è avvenuta non verso l’inglese, ma a favore del francese, lingua che oggi non solo conosciamo bene ma che amiamo. Una storia a lieto fine, dunque? No. Diciamolo pure: quest’amore è avversato. Nel Québec francofono la lingua non basta. Occorre l’accento, quello giusto. Pur parlando francese, se non si ha l’accento giusto – l’accento quebecchese – si rischia di non essere conteggiati.
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Confessiamolo: a quest’amore per la lingua francese ci è capitato di opporre qualche soprassalto di resistenza. Quelle volte che abbiamo puntato i piedi lo abbiamo fatto perché questa pronuncia particolare ci dava un po’ fastidio. Avremmo preferito che qui si parlasse un francese meno tipico, più vicino al modello europeo. È non è solo una questione d’accento: avremmo voluto che la lingua quebecchese fosse, sì, più gradevole all’orecchio, ma soprattutto più precisa e più ricca. Dopo anni e anni di Québec, quando scrivo in francese mi è di scarso aiuto la lingua che si parla intorno a me, anche all’università dove lavoro, povera di vocaboli e farcita di anglicismi e di errori. Fate una prova: chiedete all’impiegato di banca quale è il vostro saldo, « le solde » del vostro conto, e questi vi correggerà con « la balance ».

Confessiamolo pure: ci viene l’acquolina in bocca quando, nei programmi televisivi che ci giungono dalla Francia, udiamo un cameriere o un garzone o un mocciosetto qualsiasi formulare delle frasi con un vocabolario ricco, chiaro, preciso. Qui, per esprimere lo stesso pensiero un giovane si limiterà ad una frasetta stentata, seguita probabilmente da un allusivo e quanto misero: « T’sais je veux dzire… ». Questa e le altre frasi passe-partout del tipo « C’est le fun! », « Y a rien là! » sono delle misere scorciatoie che arrecano danno alla bellezza e all’efficacia della lingua.

Queste critiche in genere le pensiamo ma non osiamo esprimerle, perché tema tabù, capace di offendere profondamente i Quebecchesi, è proprio il discorso sulla qualità della lingua francese del Québec. Siate indulgenti, amici Quebecchesi: io oso fare queste critiche dopo tanti anni di silenzio.

Ogni tentativo da parte di un Quebecchese « pure laine » di deviare dal modello linguistico di massa « puro, duro » – e povero – viene osteggiato con fermezza dai membri del gruppo. « Pour qui tu te prends? Parle donc comme les autres! » è il giudizio di condanna con cui in Québec i giovani soffocano sul nascere ogni aspirazione ad un accento più armonioso e ad una struttura di frase più ricca, da parte di un loro coetaneo. Atteggiamento storicamente comprensibile: i Franco-Canadesi, abbandonati da un’élite nobiliare rientrata in Francia dopo la sconfitta storica contro gli Inglesi, e sostenuti da un clero fautore del regno dei cieli, hanno sempre vantato le virtù dell’omogeneizzazione e del livellamento verso il basso. È chiaro: i minoritari, se vogliono sopravvivere, non possono certamente permettersi il lusso di eresie anche se solo linguistiche.

Il differenziarsi, lo spiccare sugli altri, nella società che esalta il « gars ben ordinaire de chez nous », è un po’ come patteggiare col nemico. Forse tutto questo sta cambiando, ma certe radici hanno vita lunga. Ecco perché in Québec, dopo che i vostri sforzi avranno fatto crollare la barriera della lingua facendovi divenire francofono d’adozione, permarrà tenace la barriera dell’accento. Per gli altri, per la massa che venera come un sol uomo il sacrosanto canone dell’ortodossia, voi avete un accento, un accento molto forte. Per il solo fatto che il vostro accento è diverso da quello della maggioranza, voi avete un accento e gli altri – loro, la maggioranza – si esprimono invece in un francese « senza accento ».

« Parla come noi e ti considereremo uno di noi. » Questa tacita promessa, fatta quando i figli degli immigrati diventavano nella maggioranza dei casi anglofoni e non francofoni, era come un canto delle sirene che poteva essere anche interpretato così dalle persone più romantiche: « Fa’ questo sforzo e noi finalmente ti ameremo… » Stuoli di scolari dalle origini nazionali più diverse oggi si esprimono esattamente come i figli dei Quebecchesi « pure laine ». Ma l’amore, naturalmente, non è venuto. Non poteva venire così presto…

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La lingua, come vi dicevo, è una pelle, una pelle speciale, sottile ma tenace che avvolge l’anima. E i Quebecchesi sentono che gli ingredienti e gli aromi del loro mondo differiscono da quelli di altri mondi, trapiantati qui, anche se gli eredi di questi mondi parlano ormai come loro.

Alcuni Quebecchesi hanno cominciato ad accorgersi che, se vogliono veramente aprire la loro società agli immigrati e ai loro figli, devono allargare l’anima nazionale. Devono adoprarsi affinché la lingua esca dal ghetto dei sentimenti narcisisti, cessando di essere un codice attraverso cui « i veri e i puri » possono riconoscersi tra loro e autocompiacersi. Soltanto così l’anima del Québec, dilatata e ingigantita dalla generosità, potrà attirare e accogliere i « diversi ».

« Mon chum »

« Mon mari » – « mio marito »- è un’espressione che i Quebecchesi usano raramente, almeno nell’ambiente dove io lavoro. I miei colleghi, per riferirsi al consorte, usano la parola « mon chum » (il mio amico). Si direbbe che da « chum » esali un’aria di simpatia e d’affetto.

Un amico Quebecchese, fino osservatore delle mode e delle idiosincrasie dei Quebecchesi, una volta mi disse: « Si dovrebbe fare uno studio su questo mitico personaggio suscitatore di sentimenti nobili – il « chum » – che è al di sopra di ogni sospetto e che nessuna donna Quebecchese oserebbe mai criticare. ‘Chum cannot do wrong’ è un assioma per le Quebecchesi. »

Evidentemente « Marito » fa dominazione ecclesiastica, rispetto codino delle convenzioni, asservimento al maschio. « Chum » è termine che rivela invece modernità, libera scelta, sentimenti spontanei, giovinezza.

Fin dalla più tenera età la Quebecchese anela ad avere il « chum ». Senza un suo chum, si sentirebbe troppo diversa dalle altre. Le adolescenti, non avendo un loro « chum », non saprebbero di cosa parlare con le amiche, e soprattutto rischierebbero l’umiliazione suprema che, in questa terra, è di non « uscire » durante il week-end – cioè di rimanere a casa invece di andare a ballare o al ristorante o in un altro locale. E così, anche se maritate e con figli a carico, le donne del Québec, purché minimamente emancipate, designano il consorte come il loro « chum », questo termine che esalta la libera scelta, la spontaneità, il vero amore, e… il conformismo.
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« Bonjour! » a mezzanotte

Sono le otto di sera. Io sono ancora al lavoro. Uno studente si avvicina alla mia scrivania e si rivolge a me con un educato « Bonjour! » – « Buongiorno! » – che però fa a pugni con l’ora tarda. Ma in Québec anche a mezzanotte ci si saluta con « Buongiorno! ».

Mi soffermo su questa particolarità del francese quale viene parlato nel Québec senza disprezzo e senza snobismo. Io trovo strano e nello stesso tempo interessante questo automatismo del parlare che nega le tenebre. Come si spiega il persistere di un tale errore? Il fatto è che questo errore, o se vogliamo questa imprecisione, è stata consacrata da tutto un popolo durante secoli di saluti erronei. Allo stesso titolo dell’accento particolare del Québec e di certi giri di frase, neologismi, e particolarità sintattiche, il buongiorno al posto del buonasera cementa un’unità di popolo che ha fatto e fa dell’omogeneità il bene supremo.

Io stesso, per non mettere in imbarazzo il mio interlocutore, ad un buongiorno pronunciato quando c’è la luna piena, rispondo dopo una leggera esitazione con lo stesso saluto. Il mio non è un automatismo, ma un desiderio di quieto vivere, di accettazione, di compromesso. Rispondendo con « Buonasera! » a « Buongiorno! » mi sembrerebbe di volere criticare e correggere chi dopotutto rispetta il galateo anche se non il vocabolario. Un mio « Buonasera! », in un tale contesto, potrebbe apparire come l’equivalente di un provocatorio « Buonanotte! » Dopo tutto: paese che vai usanze che trovi…

« Ho caduto. »

« 3 soldats de Tsahal sont tombés à Jenine au cours du combat. » Leggo questa notizia nel quotidiano « Le Devoir. « Sont tombés » « sono caduti »: l’espressione è corretta. Tomber, infatti, vuole l’ausiliare essere, proprio come il verbo italiano cadere vuole essere. Quante volte, però, udiamo – o vediamo scritto – tomber usato con il verbo avere: il a tombé, j’ai tombé, e così via… La cosa non sarebbe grave se ciò avvenisse tra il popolino. Ma questi errori li udiamo alla radio, alla televisione, nelle scuole… Mio figlio, che è alle elementari e già si esprime come tutti gli altri, dice anche lui – erroneamente – « J’ai tombé. »

Sembra una cosa da niente, ma io trovo grave che non si faccia nulla per migliorare la lingua francese – questa pietra angolare dell’identità quebecchese – cercando di eliminare gli errori più evidenti, ed usandola in una maniera più armoniosa e ricca. Parlare il francese così come lo si parla qui, anche nelle università, vuol dire accontentarsi di una lingua incerta e rachitica. Il rispetto della lingua non vuol dire spalancare la bocca per emettere dei suoni francesi, ma vuol dire cercare di impararla, migliorarla, sviluppando il gusto dell’oralità, della frase precisa, della parola giusta. Qui non si tratta di fare dello snobismo, disprezzando il popolino che parla male, ma di dichiararsi d’accordo con il principio che alla lingua francese vanno dati, in Québec, importanza e rispetto. Ma sul serio, concretamente, fattivamente, e faticosamente, cioè cominciando dalla nostra bocca.

Claudio Antonelli

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Claudio Antonelli
Claudio Antonelli (cognome originario: Antonaz) è nato a Pisino (Istria), ha trascorso la giovinezza a Napoli, oggi vive a Montréal (Québec, Canada). Bibliotecario, docente, ricercatore, giornalista-scrittore, è in possesso di diverse lauree in Italia e in Canada. Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi, è autore di innumerevoli articoli e di diversi libri sulle comunità di espatriati, sul multiculturalismo, sul mosaico canadese, sul mito dell’America, su Elio Vittorini, sulla lingua italiana, sulla fedeltà alle origini e la realtà dei Giuliano-Dalmati in Canada, sull’identità e l’appartenenza...

1 COMMENTAIRE

  1. Ho apprezzato molto questo articolo sulla lingua francese parlata e scritta quì nel Quebec. Ci vivo da oltre 50 anni a non mi abituerò mai a questo ´Bonjour’ usato a qualsiasi ora e devo dire che più di una volta se è di sera rispondo con un ´Bonsoir’ ma sempre con un sorriso. Non credo che potrei fare altrimenti. Non voglio fare del snobismo ma dire la mia. Tutto quì.

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