La politica italiana non è un casino. Basta non perdere il filo.

Quando non si è d’accordo con un’affermazione altrui, ci sono due strade. La prima è spiegare perché, opporre un ragionamento alternativo, che segua un filo logico (portante). La seconda, assai più sbrigativa ed efficace, è usare l’espressione magica: « ma no. Sono luoghi comuni ». Senza aggiungere altro. “Sono luoghi comuni”: tre parole che vanno pronunciate (è essenziale) con un’aria di lieve sussiego, l’aria di chi la sa lunga, di chi è « oltre », di chi rifiuta il conformismo imperante, di chi procede in “direzione ostinata e contraria” e pensa con la sua testa.

Ieri un mio amico mi ha detto: la politica italiana è un casino (senza offesa né per la politica italiana né per i casini – intendiamoci). È difficile spiegarla agli stranieri. Allora io gli ho detto: « ma no. Sono luoghi comuni ». Di solito funziona e quindi, sinceramente, pensavo di essermela sbrigata. Invece, mannaggia alla miseria, non ha mica funzionato, il malefico amico non se ne è stato; ha insistito, mi ha chiesto di dirgli perché. Accidenti. Allora gli ho spiegato, in modo chiaro, perché la politica italiana non è incasinata, come taluni si ostinano, del tutto, strumentalmente, a sostenere. Essa è semplice, lineare, concreta, limpida. Segue spiegazione.

Fine 2012, il PD, principale partito della coalizione di centro-sinistra (ho usato il trattino ma ora non chiedetemi se l’ho fatto apposta o se è un lapsus da interpretare, sennò facciamo notte), il PD dicevo, in accordo con i suoi alleati fa le primarie per scegliere il candidato al posto di primo ministro. Vince Bersani, che aveva anche vinto, qualche tempo prima, le primarie per il posto di segretario del succitato partito. Inizio 2013, ci sono le elezioni (e qui vedete voi stessi com’è semplice, lineare. Primarie per il segretario, primarie per il candidato primo ministro, elezioni. Acqua di fonte. Altro che discorsi!). Alle elezioni il PD non vince ma nemmeno perde. Non perde perché, grazie alla legge elettorale, si ritrova un premio clamoroso di maggioranza alla Camera, anche senza i suoi alleati di coalizione; ma non vince perché invece al Senato, con alleati o senza, la maggioranza non ce l’ha (logico, no?).

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D’accordo (dice lo straniero) ma dai, su, parliamoci chiaro, chissenefrega del Senato, intanto per governare basta la Camera, vero? Eh no, no, non ci siamo, ma come chissenefrega? Santa Madonna, non bisogna essere superficiali, qui non ci siamo capiti, qui c’è il bicameralismo perfetto (a noi piacciono le cose perfette, per meno della perfezione non ci spostiamo nemmeno). Quindi senza Senato mica puoi governare. E forse è per questo che la legge elettorale è fatta in modo da farti avere una maggioranza clamorosa alla Camera e al Senato invece no: così sei fregato, zac, incastrato, non puoi più andare avanti né indietro.

E insomma, finisce che il candidato designato, il segretario del PD Dottor Bersani, non va più a fare il primo ministro. E al posto che doveva essere il suo ci va un altro, Letta. Che è anche lui dello stesso partito, il PD. Ma che dà maggiori garanzie ai partiti di centro-destra (qui il trattino non so cosa ci sta a fare, ma ormai l’ho messo) divenuti necessari per sostenere il governo; se non altro perché alle primarie per questo ruolo, qualche mese prima, nemmeno aveva partecipato. Semplice, no? Te lo rispiego. Tu hai indicato uno (Bersani) per fare una cosa e non ce lo puoi più mettere perché è del PD e quindi ci metti un altro (Letta) che è anche lui del PD. (Pausa). Ma (ma) presenta un indubbio vantaggio: nessuno lo aveva votato né scelto né indicato per quel ruolo lì. E fin qui tutto bene, fin qui non mi starete mica a dire che è troppo complicato, dai no, sinceramente, fin qui ci siamo.

Poi passano i mesi, cambiano le donne insieme alle stagioni e allevano bambini che inseguono aquiloni, fugit irreparabile tempus, e insomma mentre Letta governa, si rifanno di nuovo le primarie, stavolta per eleggere il nuovo segretario del PD. I candidati sono persone valide, in gamba, belle, ben vestite, che parlano bene; ognuno di loro, con sfumature diverse, si ripromette di cambiar faccia al partito. E com’è giusto che sia in una leale, appassionata, talvolta aspra, competizione democratica e popolare, c’è uno che vince. Matteo Renzi. In modo netto. E allora il neo segretario del PD Renzi conferma che lui cambierà radicalmente il partito e… E…E quindi… E quindi va subito a fare il primo ministro. Perché? Ma niente di più semplice! Perché….

E qui ho cominciato a sentirmi un po’, non so se avete presente, come quei personaggi dei libri di Joseph Conrad, quelli che sprofondano nel delirio febbrile, e comincio a ripetere che lui (Renzi) le aveva perse, le primarie per fare il primo ministro contro Bersani che le aveva vinte, ma Bersani non poteva fare il primo ministro con quella maggioranza perché era del PD, e quindi ci è andato un altro al posto suo che era del PD anche lui, e allora Renzi ha dovuto aspettare di vincere le primarie per il segretario del PD e a quel punto, mica va a fare il segretario, oh ma dico, bambole, ma cosa vi siete messe in testa? Vi sembriamo così scemi, così banalotti, così privi di sottigliezza politica da mettere uno a fare il lavoro per cui è stato scelto da milioni di cittadini, di militanti, di amici e compagni, in una grande e appassionata e coraggiosa, meravigliosa mobilitazione di popolo? (Lo ammetto: in una vita precedente, molto tempo fa, sono stato titolista dell’”Unità”).
Il mio amico mi ha guardato con occhi straniti e ha deglutito senza dire una parola, atterrito dal mio stato, e io gli ho detto seccamente: è l’ultima volta che mi freghi. D’ora in poi ti rispondo sempre : « son luoghi comuni ». E basta.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

2 Commentaires

  1. La politica italiana non è un casino. Basta non perdere il filo.
    Davvero divertente ma,a proposito di luoghi comuni:

     cominciamo dal « politichese » ,non nego che esiste un linguaggio criptico quando non truffaldino,che dovrebbe essere tradotto in lingua italiana (o astruserie come le convergenze parallele,chi le ricorda?)ma c’è anche la lezione di Gramsci di imparare le parole difficili non solo della politica »studiate ,diceva agli operai,avrete bisogno di conoscere per la vs battaglia di emancipazione »
    Poi c’è « la casta » ad annebbiare la vista e rendere i gatti tutti bigi
    con simpatia
    rino
    http://www.ambienteepolitica.it

    • La politica italiana non è un casino. Basta non perdere il filo.
      Grazie Rino – certo, non sta scritto da nessuna parte che la politica debba essere « semplice »; anzi, a me pare che la semplicità sia propria, semmai, dei sistemi autoritari; mentre la democrazia si accompagna a una complessità in cui mi riconosco, e « di cui mi piace sentirmi parte » (tra virgolette perché rubo queste parole, che mi erano molto piaciute, ad un mio amico). Ma a volte, assistendo a certi percorsi veramente tortuosi, viene da ripensare ad una dei più celebri aforismi di Flaiano, quello della linea più breve tra due punti che è l’arabesco. Un saluto, maurizio

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