All’età di 93 anni, con una lunga carriera di regista e di sceneggiatore, muore il regista ungherese Miklos Jancsò. Aveva vinto la Palma d’oro a Cannes nel 1972 con un film definito rivoluzionario: “Salmo rosso”, mentre Venezia lo insignì del Leone d’oro alla carriera nel 1990. Un regista che, a modo suo, si è imposto nel cinema europeo con una cifra stilistica fra la denuncia politica (antistalinista per maturazione) e la tendenza a “scandalizzare”.
Come accadde a Cannes nel 1975 con “Vizi privati e pubbliche virtù” per alcune scene di nudo che vedono, tra l’altro, la partecipazione come figurante di una giovanissima Ilona Staller, da poco stabilitasi in Italia e non ancora conosciuta come « Cicciolina ». Nel cast anche gli attori italiani Franco Branciaroli e Pamela Villoresi. Anche Monica Vitti sarà diretta da Jancsò nel film “La pacifista” girato nel 1970 in Italia, paese nel quale vive e lavora per un decennio, negli anni ’70, sposato con la giornalista e sceneggiatrice Giovanna Gagliardo. Prima il regista era stato sposato con una eccellente regista ungherese, Márta Mészáros, impostasi a Venezia per averci fatto apprezzare e meglio conoscere, col suo film “La settima stanza”, la personalità di Edith Stein, la filosofa uccisa nei campi di sterminio nazisti, elevata agli altari come Santa Teresa della Croce da Papa Giovanni Paolo II.
La formazione di Jancsò – si apprende dalla sua biografia – si coltiva in ambienti religiosi, mentre il suo paese vive le tragiche vicende storiche degli anni ‘40. Iscrittosi all’Università di Kolozsvár, in Transilvania, vi compie gli studi di giurisprudenza, laureandosi nel 1944. Vivrà tutti i patimenti dell’occupazione nazista prima e del regime sovietico dopo. Vocato ai principi del socialismo, dopo la seconda guerra mondiale Jancsó aderisce ai cosiddetti collegi popolari, nati con lo scopo di rifondare la cultura e di creare una « coscienza di classe » nei figli dei contadini e degli operai per la costruzione di una autentica « democrazia popolare ».
Entra così in un gruppo teatrale e si iscrive all’Istituto di arte drammatica e cinematografica di Budapest, ma l’entusiasmo si spegne quando il movimento dei collegi popolari viene assorbito dalla burocrazia di partito, che soffoca gli slanci di democrazia e impone i metodi polizieschi dell’epurazione e della repressione staliniana. Jancsó riesce a diplomarsi in cinematografia nel 1951, ma arriva alla conclusione che «lo stalinismo, più che un errore, è un crimine».
Alla morte di Stalin si creano in Ungheria le condizioni favorevoli per un allontanamento dal regime sovietico. L’ascesa al potere del moderato Imre Nagy porta alla proposta di uscire dal Patto di Varsavia e al conseguente, tragico intervento militare dell’Armata Rossa nell’autunno 1956. In questo clima e dall’inevitabile repressione che farà seguito al fallimento dell’insurrezione del ’56, nasce il cosiddetto « Nuovo cinema ungherese », di cui Miklós Jancsó sarà uno dei più autorevoli esponenti.
Il primo lungometraggio è del 1958 e si intitola “Le campane sono partite per Roma”. Jancsó si affermerà a livello internazionale con una sorta di trilogia: “I disperati di Sandór” (Szegénylegények) del 1964, “L’armata a cavallo” (Csillagosok, katonák”) del 1967, e “Silenzio e grido” (Csend és kiáltás) l’anno dopo. Distribuiti a suo tempo nei cosiddetti cinema d’essai e per i nascenti cineforum, oggi vengono raramente trasmessi da RaiTre nelle ore notturne.
Armando Lostaglio