Pasolini e i Comizi d’amore.

Venerdi 15 novembre, ore 20.00, al cineclub di Italiance la possibilità di vedere “Comizi d’Amore”, il film-inchiesta di Pasolini che segno’ lo spartiacque sulla cultura popolare italiana. Il racconto dell’amore e dei suoi tabù alla fine del boom economico in un paese che cambiava pelle e perdeva la sua anima verso una modernità rapida e senza coscienza. Proiezione e dibattito in italiano. Questo mese ricorre il 38esimo anniversario del suo assassinio.

Venerdi prossimo ad Italiance* verrà proiettato: “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini. Si tratta di una felice coincidenza dal momento che presso la Cinemathèque française di Parigi è in corso una bella ed importante mostra dedicata al poeta ed intellettuale friulano.

Questo film “antropologico” dedicato a quello che era il rapporto con l’amore e il sesso degli italiani all’imbrunire del boom economico nei primi anni sessanta, è qualcosa di più che un’inchiesta giornalistica e non solo perché spazia sulle diverse Italie di quegli anni tra il nord e il profondo sud, passando per la capitale Roma, e non solo perché Pasolini ne discute, oltre che con tanta gente di diverse classi sociali, colti nella loro quotidianità, come i pendolari sui treni o i vacanzieri sulle spiagge, ma anche con alcuni uomini e donne di cultura che in quel tempo erano particolarmente attivi e vigili sulla società italiana. Dallo psicologo Cesare Musatti, allo scrittore Moravia, la giornalista e scrittrice Oriana Fallaci ad Ungaretti e tanti altri.

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Certo è un’inchiesta ma in cui Pasolini, da’ anche rappresentazione del paesaggio, quasi contrapponendo le visuali dei muri o delle distese addormentate delle pianure del sud, con la lora ingenuità minacciata, ma sostanzialmente al tempo ancora intatte, alla visione di un popolo che andava trasformandosi attaverso quel processo omologativo che Pasolini denunciava come un cancro finanche peggiore del fascismo, che in fondo, era la sua convinzione, non era riuscita pur con la sua esplicita violenza ad intaccare la culturea popolare italiana.

Una cultura autentica ancora dal rustico sapore agricolo, che mescolava crudezze e dolcezze nell’ingenua rappresentazione di un’umanità che non era ancora piegata dal consumismo e da una televisione che diventava divino modello di comportamento.

Al tempo la sinistra ritenne che nelle classi borghesi o in quelle più acculturate si avvertivano i segni di una maggiore indulgenza sul tema e si era fortemente critici verso una classe operaia che viceversa manifestava un machismo ancora profondo anche a dispetto di un impegno politico e sindacale che dava progressi sul piano, ad esempio della parità nei trattamenti salariali e nell’organizzazione produttiva.

Molto più genuino appare il mondo contadino, come quello in Romagna e finanche in Calabria, dove appariva molto meno esplicito un certo moralismo che invadeva la società cittadina.

C’è un non vergognarsi nel sostenere che gli uomini hanno più diritto al sesso che le donne debbono essere più “serie”. Una spontaneità che già non era più nel mondo imborghesito delle metropoli, dove a parole queste parità sembravano assunte mentre nella realtà ancora oggi faticano a fare parte delle coscienze degli italiani.

Sorprenderà lo scarso entusiasmo con cui Pasolini accoglierà, la larga approvazione referendaria della legge sul divorzio. Pasolini faceva ancora una volta scandalo come quando negli anni ’60 prese posizione a difesa dei poliziotti, figli di un popolo povero e di emigranti contro i “figli di papà” che con i capelli lunghi andavano in piazza per la loro “contestazione generale”.

Sul divorzio Pasoli, comprendeva che in se la legge era giusta ed anzi finanche necessaria, ma comprendeva anche che quei “sacri” valori familiari, quella domestica cultura che aveva segnato e scandido la vita delle persone, venivano sradicate senza che si affermasse una consapevole cultura nuova nella coscienza dei cittadini.

Pasolini denunciava una modernità che sostituiva con il nulla quelle tradizioni e quei valori che ora erano negati come retrogadi, vecchi, e a volte semplicisticamente fascisti.

Questa modernità con la sua forza omologativa appariva a Pasolini come un demone distruttore di un tessuto sociale e culturale, un’ipocrita giustificazione verso un progresso non delle coscienze ma di un consumismo e di un capitalismo, di un sistema di potere (quello democristiano) che sognava di rendere non tutti liberi e con una coscienza, ma tutti uguali e senza coscienza.

Nella sua profondità Pasolini guardava oltre, raccogliendo le invettive e le antipatie della sinistra, convinta superficialmente che sarebbe bastata una legge sul divorzio, magari una legge sull’aborto e una riforma del diritto di famiglia per “civilizzare” gli italiani.

Gli effetti di tanta superficialità sono riscontrabili anche oggi. Nel numero immenso di donne senza lavoro, nel numero spaventoso di femminicidi con cui spesso si risolvono i contrasti affettivi e familiari, da’ una rappresentazione sempre meno autentica e più mercificata della sessualità, della donna e finanche dell’amore e tutto questo è in modo assolutamente trasversale tra le classi sociali.
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Lo si vede nell’omofobia dilagante, nell’incapacità di immaginare le persone come “persone” senza la necessità di assegnare a ciascuno di esse un genere (maschile, femminile o altro che fosse).

Pasolini ci costringe, e lo fa benissimo in Comizi d’amore, a riflettere sulla banalità di un certo modo di intendere il progresso e il moderno, che non possono essere valori in sé, se non a condizione che siano effettivamente conquista consapevole della cultura popolare.

Una cultura che troppo spesso è stata strumentalizzata ed abusata secondo le necessità e le finalità della politica. Una politica che troppo spesso e senza nessun contatto popolare ha stabilito e definito a priori che cosa debba essere eticamente giusto e ingiusto per la società.

Ecco I comizi sono tutto questo ed altro. Una testimonianza viva ed autentica di un passaggio cruciale dell’antropologia culturale italiana, il punto di biforcazione di una società del prima e del dopo.

Anche nei volti e nelle movenze degli intervistati si percepisce che qualcosa di una certa Italia sta morendo, svanendo, mentre si affaccia un paese nuovo dal volto meno umano ed ingenuo, più arido, ipocrita e furbo.

Data anche la rarità delle proiezioni di questo film, perseguitato dalla censura come spesso capitava a Pasolini, l’appuntamento di venerdi appare imperdibile.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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