Camille Claudel. La creativa.

In occasione del 70° anniversario della morte di Camille Claudel, il Museo Rodin di Parigi offre al pubblico fino al 5 gennaio 2014, la possibilità di ammirare un gruppo di opere esposte di rado: circa venti pezzi, fra donazioni del fratello della scultrice, Paul, e acquisizioni del Museo. L’evento è intitolato «Camille Claudel sort des réserves. Itinéraire d’une femme: Camille Claudel sculpteur, élève, collaboratrice, maîtresse et muse d’Auguste Rodin».

William Elborne, Camille Claudel nel atelier di N° 117 de la rue Notre-Dame-des- Champs, Parigi 1887

Un’opportunità per i numerosi studiosi e appassionati dell’opera e della vita di quest’artista, che non mancherà di riaprire il dibattito sul suo ruolo nel mondo dell’arte europea e sul significato più profondo della sua vicenda umana, struggente e sfortunata, legata indissolubilmente a quella di Auguste Rodin, per quella sorte che colpisce così spesso le artiste, note più per le loro vicende biografiche, possibilmente scabrose, che per l’intrinseco valore del loro talento.

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CAMILLE CLAUDEL, immagine e realtà della donna nell’arte, di Anna Maria Panzera

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Già a marzo di quest’anno nelle sale francesi è uscito il film Camille Claudel, 1915, anche noto come La Créatrice, interpretato da un’attrice bravissima e intensa: Juliette Binoche. Il suo autore, Bruno Dumont, si pone idealmente sulla scia della precedente, premiatissima pellicola girata da Bruno Nuytten nel 1988 [[Il film ha vinto cinque César, un Orso d’argento per la miglior attrice (Berlino 1989), e ha ottenuto due candidature all’Oscar (miglior film straniero e migliore interprete femminile) nel 1990.]], in cui una folgorante Isabelle Adjani veste i panni della giovanissima Camille, desiderosa di studio e in cerca di fortuna a Parigi: dall’incontro con il più anziano e adorato maestro, attraverso tutti i risvolti di una passione amorosa contrastata e intrisa di inquietudini (su cui pesano anche fonti e testimonianze non sempre limpide), cui fanno da degno contraltare le difficoltà affrontate dalla Claudel nell’affermazione professionale, le sue reazioni sanguigne a chi le sollevava questioni di genere in occasione delle esposizioni, il decadimento paranoico e persecutorio (con la distruzione della maggior parte dei propri disegni, dei bozzetti, delle statue realizzate), fino alla fatale e tragica soluzione del dramma: l’internamento “volontario” nella clinica psichiatrica di Ville-Évrard a Neuilly-sur-Marne (1913) ed il desolante, successivo trasferimento al Montdevergues Asylum, nella località di Montfavet, a sei chilometri da Avignone. La Prima Guerra mondiale premeva alle porte della Francia e dell’Europa intera.

Il lavoro di Bruno Dumont, in concorso per la Berlinale 2013, parte da qui, concentrandosi sul periodo più triste della vita di Camille Claudel; come guardando attraverso una lente, che restringe la visione sui particolari lasciando torbida l’area circostante, il suo occhio procede a considerare l’inverno del 1915, e di quell’inverno soprattutto tre giorni, trascorsi nell’attesa della visita del fratello Paul; le scene diafane su cui spira talvolta un alito freddo, da sala autoptica, fanno intendere immediatamente la volontà di tralasciare l’intento narrativo, per frugare fra volti, sguardi e paesaggi, per fare del film un’indagine psicologica, secondo lo stile dell’autore.

Camille Claudel (Isabelle Adjani) nel suo atelier - Film francese di Bruno Nuytten (1988)

Mostra e pellicole costituiranno dunque lo spunto per riflettere [[Questo contributo riprende in parte il seminario Immagine e realtà della donna nell’arte, tenuto da chi scrive nell’ambito del Corso per le Pari Opportunità tenuto dalla Dottoressa Annelore Homberg presso l’università degli Studi di Foggia; il corso si è ripetuto dal 2005 al 2010, con il titolo di Donne, uomini e la realtà non cosciente.]] su Camille ma anche, più in generale, sulla presenza della donna in un mondo – quello dell’espressione figurativa – dominato, almeno fino a una certa epoca, senza mezzi termini dagli uomini, benché questi delle donne non potessero proprio fare a meno: ispiratrici, modelle, amanti, donne perdute perché libere o libere perché finalmente perdute alle consuetudini della buona borghesia, soprattutto sullo scorcio fremente del secolo XIX.

Camille Claudel, Buste de Rodin, 1888-89

Così, esponendo ed eleggendo a sistema un universo frammentario di nozioni e riflessioni private, già mi vengono in mente immagini femminili di grande potenza evocativa, vissute nell’epoca degli Impressionisti, a ridosso delle avanguardie. Pochi nomi: quello di Victorine-Louise Meurent, la pallida nuda ritratta da Manet ne Le déjeuner sur l’herbe e nei panni di Olympia; sapevate che era anche pittrice? Oppure quello della scatenata e audace Kiki de Montparnasse; sarebbe stata famosa se non avesse legato il suo nome a quello di Man Ray? Interessante in questo senso è la vicenda del già citato Edouard Manet e della bella Berthe Morisot [[Si è svolta a Venezia fino al 1° settembre di quest’anno Manet. Ritorno a Venezia, monografica che ospitava a Palazzo Ducale un’ottantina circa tra dipinti, disegni e incisioni, progettata con la collaborazione speciale del Musée D’Orsay di Parigi]]. I due si conoscono al Louvre, dove entrambi studiano e copiano i pittori del Rinascimento. Berthe introduce Manet nella cerchia degli Impressionisti, gli fa da modella e amante ma a una relazione tormentata e gelosa (Manet sta per sposare un’altra donna), preferisce un rassicurante matrimonio con il fratello del pittore. Espone, unica donna, alla prima mostra degli Impressionisti. Il suo carattere silenzioso e riservato la predispone a una vita tranquilla. I suoi quadri, ambientati di solito in scenari domestici, sono abitati da presenze silenziose dagli sguardi lontani; le appartiene un’energia vitale che sembra costipata da non si sa quale malinconia, visto che attorno a lei continuano a ruotare gli intellettuali più in voga del momento e che le sue opere continuano ad essere apprezzate ed esposte. C’è, nel suo aspetto e nella sua pittura, un sentore di rinuncia o forse una capacità di adattamento e analisi dei tempi, tanto che le sue tele s’impongono più con la forza del realismo sociale, che con quella dell’ispirazione.

Eppure non c’è dubbio che questi personaggi siano icone di una femminilità a tratti tutta nuova, non priva di ambivalenze: da un lato in grado di esprimere contenuti inediti, dall’altro imbrigliata in destini decisamente tradizionali; quasi che alla fatica di affermarsi, a dispetto di una società e persino di una storiografia colpevole da secoli di ignorare l’identità femminile nell’arte e non solo, contribuisca una silenziosa condivisione dell’annullamento di quella stessa identità.

Auguste Rodin, Masque de Camille

Gli stessi anni attraversati dalle protagoniste succitate vedono un concomitante affermarsi di modelli filosofici diversi dal passato, che in Francia, come in altre parti d’Europa, riscuotono notevole successo e influenzano l’evolversi del costume. Essi hanno in comune la critica alla schiera di pensatori positivisti di cui appare costellata la seconda metà del XIX secolo; molte delle loro inferenze giungono dal tentativo di definire e rivalutare la dimensione umana “irrazionale”: storicamente inficiata di “vergogna e colpa”, secondo una celebre definizione di Eric Dodds [[E. Dodds, I greci e l’irrazionale, BUR, Milano 2009.]], nella cultura occidentale sempre tradotta attraverso metafore mitologiche spesso tese a stigmatizzarla negativamente, in quanto presunta bestialità insita nei recessi oscuri e insondabili dell’anima, il più delle volte viene emancipata dagli artisti, che la difendono come fonte delle loro creatività, accettandone le componenti distruttive, considerate ad essa connaturate. Ne è genuino rappresentante Friedrich Nietzsche, apostolo di Dioniso, capace di sciorinare una filosofia informale, antiplatonica e antihegeliana per definizione e qui difficile da riassumere. L’autore, infatti, procede attraverso elaborazioni complesse, spesso frammentarie, e prese di posizione contrastanti, tese a definire l’essere dell’uomo: vitalità, istintività, aggressività, egoismo, finitezza, ne sono per Nietzsche i tratti distintivi, messi continuamente a repentaglio dalla mediocrità della civiltà moderna; una civiltà di cui peraltro egli usa tutti gli strumenti intellettuali, compresi quelli analitici del positivismo, così, di fatto, incontrando quella ragione altrove ostentatamente contestata, che a suo parere doveva essere abbattuta con la forza dell’arte. Finisce perciò coll’essere fortemente condizionato proprio dal filosofo Platone, che gli era in un certo senso maestro e nemico, del quale ripristina il tradizionale antagonismo fra razionalità e irrazionalità, affondando in un sostanziale e storico equivoco ideologico. Sarà tale insufficienza a fargli scrivere nel 1888: «Nella sua filosofia l’artista moderno è molto vicino all’isterismo e anche il suo carattere è contrassegnato da questo stato patologico (…) l’assurda irritabilità del suo sistema che vede crisi in ogni evento vissuto e che inserisce l’elemento “drammatico” anche nei più piccoli fatti della vita, lo rende assolutamente imprevedibile: egli non è più una persona, ma al più un crogiuolo di persone che alternativamente fanno capolino, l’una dopo l’altra con spudorata sicurezza»[[F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1889, Adelphi, Milano 1970, p. 323.]].

L’incongruenza che conduce uno dei pensatori più all’avanguardia del tempo a considerare l’arte condizione di salvezza e di patologia nello stesso tempo si ritrova significativamente nei suoi aforismi sulle donne; non prive d’intelletto (sic!) ma irrimediabilmente irretite dalla vocazione al sacrificio e inani alla scienza e alla storia, esse portano con sé un difetto: l’eccesso di sensualità e sensibilità, che fa cadere la loro intelligenza preda di confusione e imprudenza. Così che, mentre da un lato esse rappresentano in qualche modo l’utopia di una nuova “vita filosofica”, dall’altro sono il bersaglio di asserzioni misogine o fatalmente romantiche: «Ti temo vicina, ti amo lontana; la tua fuga mi attrae, il tuo cercarmi m’arresta»[[F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di B. Antonacci, trad. di F. Masini, Newton Compton, Roma 2004, p.169. La frase riportata è anche parte del titolo del volume di F. Negri Ti temo vicina, ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne, Mimesis, Milano 2011.]].

Come dire: un conto è predicare l’irrazionalità, un altro è pensare – per non dire comprendere – l’irrazionale, altro ancora è constatarlo e accettarlo negli altri.

Camille Claudel, Paul Claudel à 37 ans Crédits photo : © ADAGP, Paris, 2012

E infatti in questo frammento di storia francese di fine Ottocento un altro fenomeno ideologico merita attenzione. È il rinvigorimento della dottrina cattolica, in particolare nella declinazione d’origine paolina incentrata sul culto della “sofferenza vicaria”: portato avanti sin dalla fine del 1700 da intellettuali controrivoluzionari come Joseph de Maistre, Louis de Bonald e Pierre-Simon Ballanche, viene riproposto a contrasto della dilagante decristianizzazione del paese seguita al “terribile” 1870-71. É condito di un cattolicesimo reazionario dominato dalle apparizioni mariane[[Tra le tante, quella narrata da Bernadette Soubirous presso la grotta di Massabielle (1858). Confortante che un’altra bambina due anni dopo sia l’artefice della scoperta delle grotte di Altamira, vicino a Santillana del Mar.]]; soprattutto, inneggia ad un “sacrificio al femminile”, descritto e incrementato da intellettuali che ne hanno esperienza attraverso la stretta contiguità con donne, che ne sono considerate le protagoniste assolute e spesso consapevoli. Ecco i nomi di Leon Bloy, Joris Karl Huysmans, Georges Bataille e…. Paul Claudel. In una Francia che sempre di più sussulta sotto la spinta della società moderna, dominata dal denaro e dallo scambio di merci, da una percezione del tempo in esponenziale accelerazione, stressata dalla competizione e dal crescente individualismo, sembra che – se non proprio la stigmatizzazione – debba essere questa la sorte riservata alle donne [[Ne dà ampio conto il libro di Richard D.E. Burton, Holy tears, holy blood: women, catholixism and the culture of sufference in France 1840-1909, Cornell University Press, Ithaca (N.Y.), 2004. Le figure che s’incontrano nel libro sono quelle di Mélanie Calvat, Thérèse Martin, Raïssa Maritain, Colette Peignot.]] , soprattutto se rivelano un ingegno che le conduce oltre l’educazione essenziale e le attività consone al decoro delle future mogli e madri.

Camille Claudel, La vague, detto anche Les baigneuses

Nel 1879 una quindicenne, Camille Claudel, comincia a modellare le sue prime sculture e ottiene che tutta la famiglia si trasferisca a Parigi per permetterle di studiare e seguire le sue inclinazioni artistiche. Accadrà nel 1881, quando Camille ha diciassette anni. Ormai, nella seconda metà dell’Ottocento, il mondo dell’arte accoglie le giovani di talento in scuole private (l’Accademia di Belle Arti resta loro preclusa fino al 1897), e sebbene l’avvio verso una professionalità vera e propria sia ancora molto lontano, alla domanda di beni artistici da parte della borghesia urbana risponde circa un migliaio di pittrici nella sola Parigi. Ma ecco un fatto singolare: nel 1880 le donne presenti al Salon sono 1081; l’anno successivo, quando il Salon è direttamente gestito dagli artisti, tale numero scende a 658, segno che anche la mentalità modernista degli intellettuali, flâneurs o engagés che siano, deve fare i conti con le dinamiche di produzione e competizione, nelle quali le donne possono a fatica districarsi. Tutto accade lontano dai contemporanei movimenti femministi, più politicizzati. Le donne artiste non esercitano rivendicazioni sociali presso i loro colleghi (al contrario di quanto fanno nei confronti delle istituzioni), semmai chiedono una risposta in termini di coraggio e certamente il riconoscimento di un’identità che possa affermarsi di là da ogni stereotipo. Anche quello romantico per cui – a maggior ragione per menti poetiche e fantastiche – le donne rappresentano un precipizio psichico[[Espressione rubata a R. Calasso, La folie Baudelaire, Adelphi 2005.]], nel quale cadere fino in fondo ma da richiudere in fretta, nel caso si riesca a uscirne (come Nietzsche ampiamente dimostra nelle opere e nella vita). E non possiamo escludere che tale convinzione alberghi identica anche nell’animo di molte donne, che – come detto all’inizio – partono in controtendenza ma poi rinunciano in parte o in tutto alla loro realizzazione. Per la fatica di difendersi, per l’incapacità di trovare una strada in questa difesa oppure per la sostanziale identificazione con il ruolo storico, con il quale tendono a trovare sempre un compromesso.

Camille Claudel ha un carattere completamente diverso. Sembra che la parola “rinuncia” le sia ignota, che in lei ci sia tutto ciò che serve per realizzare un’opera titanica di costruzione di un’identità personale e sociale fuori dagli schemi. In più, incontra e lavora presso Auguste Rodin, il più grande scultore francese del momento, detentore di uno studio presso il Deposito di Marmi dello Stato (1880). La giovane tocca il cielo con un dito e si butta a capofitto nei duri e faticosi compiti riservati all’apprendista scultore, senza mai un lamento, né una sosta, avida di imparare e nello stesso tempo cosciente di possedere uno slancio creativo senza pari. È una ribelle ma sa stare al suo posto quando si trova nell’atelier fra la polvere e l’argilla, brandendo mazze e scalpelli meglio di un uomo e ottenendo di entrare nello studio privato di Rodin come modella e sbozzatrice (1884). È l’inizio della loro storia d’amore e di una collaborazione intensa, durante la quale Camille si fa musa e compagna, immagine ideale e fucina d’idee e di azioni, per due anni che sembrano dover durare tutta una vita, durante i quali la sua umanità unica emerge con forza e la sua vitalità si sprigiona fra il desiderio per quell’uomo, che sembra capace di recepirla, e l’enorme spazio che sembra aprirsi alla sua personale realizzazione. Insomma: lei è bella e viva. È femmina ed è libera. Viaggia da sola, legge una letteratura non propriamente d’avanguardia ma poco importa, perché la sua esperienza non è letteraria ma vera; è persino civettuola quando invia all’amica inglese lettere contenenti figurini di moda e ritagli delle stoffe con cui si farà cucire degli abiti.

È il periodo in cui Auguste Rodin realizza l’impegnativo gruppo Les Bourgeois de Calais; Camille, come molti altri collaboratori dell’artista, vi partecipa in qualità di praticien e come loro rimane nell’ombra, non riuscendo ad ottenere dallo Stato, neanche attraverso l’amante/maestro, il marmo che le occorre per compiere le sue proprie sculture. Eppure le sue idee sono buone, originali, e praticamente tutti subiscono il fascino di questa giovane artista, che da molti viene percepita come l’immagine vivente di un pensiero nuovo che emerge.

Je suis belle, di Rodin, particolare de la Porte de l'Enfer

Nel 1886 la fama di Rodin è conclamata. Ormai espone regolarmente; fra le tante opere, Je suis belle, una composizione nata dall’assemblaggio di due figure già esistenti in formato ridotto nella celebre Porte de l’Enfer e su cui vengono incisi i versi di una poesia di Baudelaire, nei quali Rodin identifica se stesso e la donna amata:

Je suis belle, ô mortels! comme un rêve de pierre,

Et mon sein, où chacun s’est meurtri tour à tour,
Est fait pour inspirer au poète un amour
Eternel et muet ainsi que la matière.

Je trône dans l’azur comme un sphinx incompris;

J’unis un cœur de neige à la blancheur des cygnes;
Je hais le mouvement qui déplace les lignes,
Et jamais je ne pleure et jamais je ne ris.

Les poètes, devant mes grandes attitudes,

Que j’ai l’air d’emprunter aux plus fiers monuments,
Consumeront leurs jours en d’austères études;

Car j’ai, pour fasciner ces dociles amants,

De purs miroirs qui font toutes choses plus belles:
Mes yeux, mes larges yeux aux clartés éternelles!

Camille dunque sarebbe colei che fa innamorare e disperare l’artista; sfinge fredda e muta, eterno idolo immortale. O piuttosto la figura femminile della poesia è l’artista stesso, ed è lui che, in fondo, «odia il movimento che scompone le linee»?

Certo è che la corrispondenza tra i due amanti tradisce una sofferenza della giovane, che si esprime con frasi del tipo: «C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta», unita a una sorta di prepotenza, di ostinazione a tenere legato a sé Auguste, sebbene la relazione stia prendendo una brutta piega. Anche in questo caso è d’obbligo una domanda: “L’assenza cui Camille si riferisce è quella di Auguste o è un vuoto interiore sul quale lei stessa talvolta si sporge e da cui si ritrae appigliandosi ad un amore furente?”. D’altro canto, una passionalità morbosa e affranta appartiene anche allo scultore, che appella Camille «feroce amica», «divinità malefica», ne sente la «potenza terribile»: il desiderio nei confronti della giovane è vissuto come una «terribile e lenta malattia», che potrebbe prendersi la sua intelligenza[[Lettera di A. Rodin a C. Claudel, s.d.1886, Archivi del Museo Rodin inv. L 1451, in Camille Claudel Corrispondenza, a cura di A. Rivière e B. Gaudichon, trad. di M. Martignoni, Abscondita, Milano 2005, pp. 28-29.]] .

Auguste Rodin

Che tra loro si apra un abisso nel quale confluiscono oblio e voluttà è provato da uno strano documento firmato da Rodin (12 ottobre 1886), ma forse a lui sottoposto da Camille, che così recita: «Per il futuro…avrò come unica allieva (sic!) Mlle Camille Claudel e proteggerò solo lei…Non accetterò più altre allieve affinché non si producano talenti rivali…All’esposizione farò tutto il possibile per la collocazione delle sue opere… sarà l’inizio di un legame indissolubile dopo il quale Mlle Camille diventerà mia moglie…Da ora e per 4 o 5 mesi…non avrò nessuna donna altrimenti questo patto sarà infranto…Mlle Camille s’impegna a ricevermi nel suo atelier quattro volte al mese fino al mese di maggio. Rodin»[[Ivi, p. 30.]] . Invece, gli anni Novanta portano con sé la separazione definitiva dei due amanti: una decisione presa da Camille contro un Rodin stupefatto dalla sua “diabolica” voglia di indipendenza, che lo induce a ripetere ossessivamente agli amici di non aver più controllo alcuno su di lei. E Camille, tornata da una lunga convalescenza in campagna[[Alcuni biografi suppongono che l’artista si sia allontanata dalla città per interrompere volutamente una gravidanza.]], riprende a scolpire: elabora nuovi soggetti, attraverso cui riesce a imprimere un carattere eroico a una dimensione bozzettistica, elaborando una cifra artistica che la distingue nettamente dal suo mentore.

Sakountala, dite Vertumne et Pomone, 1905

Il quale, peraltro, non è per lei l’unico uomo importante. Paul Claudel assiste alla vita scandalosa di sua sorella con partecipazione. È circonfuso dal suo affetto, non senza risentire di un senso d’inadeguatezza e frustrazione. Le sue aspirazioni di scrittore, il suo desiderio di concedersi a uno spirito più libertario, non sempre si compongono con l’intenzione di compiacere sua madre, che per lui prevede carriere più conformiste. Passa da un positivismo di marca illuminista a confuse tendenze anarchiche, insieme a Camille frequenta Verlaine e si appassiona a Rimbaud. Ma la sua insoddisfazione rimane costante e la vicinanza di Camille, più che una consolazione, è un tormentoso confronto.

Forse per questo, con una virata che aveva lasciato tutti increduli, nel 1886 Paul si era convertito a un cattolicesimo radicale, propedeutico al riavvicinamento alla famiglia, della quale avrebbe condiviso il moralismo, in un’accezione persino più eccitata. Negli anni della rottura fra sua sorella e Rodin, invece, anche grazie a quest’ultimo e alle sue influenti conoscenze intraprende una carriera diplomatica e guadagna una fama crescente di poeta dall’acceso misticismo.

Camille Claudel, Clotho, 1893, Crédits photo © ADAGP, Paris

La consonanza d’intenti con l’amata sorella progressivamente si spezza e il loro rapporto diventa sempre più flebile: l’irrazionalismo religioso di Paul rimane impassibile e ostile di fronte alla “vita folle” di Camille, la quale, immersa nella solitudine, scivola a mano a mano verso condizioni di vita materiale sempre più precarie; riesce ad esporre al Salon il gruppo de L’abandon, poi La valse, poi Clotho, Persée et la Gorgone, L’Âge mûr: un turbinio di forme audaci, di lavorazioni tecnicamente insolite, di soggetti indubbiamente romantici e decadenti ma sentimentalmente coinvolgenti, ispirati da leggende orientali (quella di Sakountala), forse dal breve legame con il pianista Claude Debussy. Intanto, il fantasma dell’antico amante si trasforma poco a poco in una fissazione paranoica e la sua vicenda comincia a prendere accenti tragici. Mentre l’antico maestro si chiude in una roccaforte di rispettabilità e successo [[Camille è ancora nelle sue opere ma egli ne raffigura solo la testa, lasciando il corpo chiuso nel blocco di marmo grezzo: l’opera è intitolata La Pensée; la testa di Camille è velata e reclinata. Qui la foto. Gli altri lavori sono mera accademia, a dire dello stesso Rodin. Egli avrà altre amanti, come Claire de Choiseul, “la sua piccola baccante”, e Gwen John; sposerà infine per gratitudine Rose Beuret, compagna di tutta una vita, che lo sostenne durante i difficili inizi dandogli anche un figlio.]], Camille sprofonda in un delirio di onnipotenza cieca: non riesce a coniugare la difesa della propria arte con la realizzazione piena di quella vita inimitabile che lei aveva professato e che forse non deve, non può essere senza il coraggio pieno della propria identità, che dev’essere di artista ma anche di donna, di persona. Gli ostacoli della società forse sono meno gravosi, anche perché ormai Camille ha i suoi estimatori e l’opportunità di passare alla storia più per la sua arte, che per il suo dramma. Dal 1893 al 1903 autori e critici come Geffroy, Morhardt e Reval le tributano costantemente attenzione e recensioni positive; tuttavia il pubblico la percepisce ancora come epigone del “Grand’uomo”: il peso di questa negazione, la smania di legarsi alla vita di un altro, se non per amore almeno per odio, faranno strada ai primi segni conclamati della pazzia che la porta all’internamento, in concomitanza del matrimonio del fratello con Reine Sainte-Marie Perrin: una circostanza che sembra potersi leggere nella medesima chiave di un delirio di possesso e abbandono.

Camille Claudel, particolare di La valse

«Non c’è nulla per cui l’uomo sia fatto meno quanto per la felicità, di cui si stanca così presto»[[P. Claudel, Le soulier de satin, in H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, 2, 20, Editoriale Jaca Book Spa., Milano 1992, p. 330.]] : è uno degli assiomi che rifondano la vita regolarizzata di un Paul Claudel acclamato poeta e teorico, diplomatico affamato di logica e di autocontrollo, convinto di aver realizzato tutto, al contrario della fallita e fallimentare sorella[[Così Paul ricorda Camille dopo la morte avvenuta in manicomio: «La natura si è dimostrata prodiga nei suoi confronti; mia sorella Camille aveva una bellezza straordinaria, e inoltre un’energia, un’immaginazione, una volontà del tutto eccezionali. E tutti questi doni superbi non sono serviti a nulla; dopo una vita estremamente dolorosa, è pervenuta ad un fallimento completo … io sono pervenuto a un risultato, lei non è pervenuta a nulla» (cit. QUI )]] . Paul Claudel rappresenta la summa dell’intellettualità del tempo: è imbevuto di filosofia nitzscheana e di devozione ecclesiale nello stesso tempo. Per lui la figura dell’artista è imprescindibile da quella, tragica, di Prometeo: un intreccio indissolubile e drammatico di libertà e destino; essa ha senso solo se si fa protagonista di una parabola che catalizza ogni evento della vita quotidiana, al fine di rendere quell’esistenza un caso esemplare. Chi meglio la incarna di Camille? Difficile dire quanto il rapporto con il fratello costituisca per la scultrice una trappola senza fuga. Certo è che, mentre la esalta, Paul costruisce attraverso la sorella il suo martire moderno[[Per l’analisi e l’interpretazione della figura e dell’opera di P. Claudel sono utili gli scritti di C. Einstein, fra cui Uber Paul Claudel, in Die Weissen Blätter, entrambi raccolti in Werke, Fannei & Walz, Berlino 1992-1996.]] ; la follia e il dolore di Camille diventano sacri e intoccabili come un tabù, sono un legame col divino; arte e religione assumono entrambe una funzione teosofica; l’arte è miracolo e sacrificio. E la sacrificata è Camille, per la quale Paul richiede e ottiene un ininterrotto internamento, nonostante i pareri discordi dei medici.

Camille Claudel, L’Âge mûr, 1893-1900, Crédits photo : © ADAGP, Paris

Eppure si può dire che egli non smette mai di occuparsi della promozione della sua persona e della sua arte, tanto che Camille Claudel sarà per molto tempo una creazione letteraria di Paul, prima di divenire – altrettanto ingiustamente – un topos del femminismo francese[[Cfr. R.D.E. Burton, cit., p. XV.]], fino alla totale recente riscoperta.

Cui senz’altro il film di Dumont contribuirà ulteriormente. Forse alla bellezza irrazionale di quest’artista sarebbe stato necessario ancora più coraggio e resistenza, una coerenza totale e l’arte di fare molte separazioni. Il nostro tributo sarà scoprire e capire ancora.

Anna Maria Panzera

Attorno all’esposizione ruoteranno vari eventi, fra cui convegni, proiezioni di film, eventi teatrali, visite guidate (n.d.r. Vedi la presentazione del Museo Rodin: Exposition Camille Claudel jusqu’au 5 janvier 2014).

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Anna Maria Panzera
Anna Maria Panzera vive a Roma. Insegnante e storica dell'arte, collabora con istituzioni museali e universitarie per attività di ricerca, didattica dell'arte, formazione e comunicazione. Autrice di numerosi articoli su riviste scientifiche e divulgative, ha pubblicato vari volumi, tra cui, con L'Asino d'oro edizioni, "Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose" (2011) e "Camille Claudel" (2016).

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